L'analisi

Infrastrutture digitali: perché siamo così in ritardo e cosa cambierà col PNRR

Il PNRR potrà servire a ridurre il gap sulle infrastrutture digitali come la banda ultralarga e il 5G, a patto che gli iter amministrativi siano snelliti e velocizzati. Ma resta il tema della domanda di servizi avanzati per individui e imprese che oggi non sanno che farsene: i dettagli e come uscirne

Pubblicato il 09 Mag 2022

Davide Quaglione

Professore ordinario - LUISS "Guido Carli - Università “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara

banda ultralarga - infrastrutture digitali PNRR

Le misure del PNRR previste per le infrastrutture digitali, nell’ordine dei 6,7 miliardi di euro per le reti VHCN, dovranno attecchire in un contesto storicamente connotato da significativi ritardi nel grado di maturità digitale.

Capire quali sono e come porvi rimedio è indispensabile per mettere gli interventi previsti nel PNRR nella giusta prospettiva e valutarne la potenziale incisività.

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Lo stato dell’arte della maturità digitale in Italia

La maturità digitale è intesa sia in termini di qualità e pervasività delle reti, sia di alfabetizzazione informatica di individui, imprese e pubbliche amministrazioni.

In Italia:

  • la copertura e la penetrazione delle reti VHCN, seppure in aumento, sono ancora insoddisfacenti (sulla base dei dati Eurostat-DESI, nel 2021 sono rispettivamente pari al 33,7% e 28,4% a fronte di una media UE28 pari al 59,3% e al 34,2%);
  • i livelli di alfabetizzazione informatica degli individui sono marcatamente al di sotto della media europea (solo un italiano su cinque ha competenze digitali superiori a quelle di base e solo il 41% le ha almeno di base, quando le corrispondenti medie europee sono pari al 31% e al 56%) e connotati, peraltro, da notevoli disparità tra Regioni;
  • si registrano forti disomogeneità nell’adozione di tecnologie digitali avanzate tra imprese di classi dimensionali diverse.

Le ragioni di un simile ritardo sono molteplici:

  • una peculiare morfologia della rete telefonica pubblica che ha condizionato le dinamiche competitive nelle prime fasi di sviluppo del mercato della banda larga;
  • scelte regolatorie e di policy poco coraggiose;
  • architetture, procedure amministrative e di governance che erodono l’incentivo privato a investire.

Vediamo in dettaglio.

Infrastrutture digitali e PNRR: com’è nato il ritardo nella banda ultralarga

L’Italia soffre di un sistematico ritardo in ordine a copertura e qualità delle connessioni sin dalle prime fasi della liberalizzazione del settore, quando si è avviato lo sviluppo dei mercati della connettività a banda larga.

Per cominciare, la totale assenza di un’infrastruttura fissa alternativa alla rete telefonica (in altri Paesi era diffusa l’infrastruttura per la tv via cavo) ha impedito che si instaurasse spontaneamente un circolo competitivo virtuoso tra infrastrutture di comunicazione elettronica alternative, altrove rivelatosi estremamente efficace nel favorire maggiori investimenti per il miglioramento della copertura e delle caratteristiche qualitative delle reti.

Anche per questo motivo, la decisione del regolatore è stata inizialmente quella di favorire una concorrenza basata sui servizi definibile come “spuria”, poiché integrata dalla possibilità per gli operatori concorrenti di Telecom Italia di richiedere accesso – a condizioni eque, non discriminatorie e trasparenti – alle porzioni non replicabili dell’infrastruttura dell’incumbent[1].

La scelta si è posta quindi tra modalità con un grado di commitment in termini infrastrutturali tra “zero” (accesso bitstream) e “limitato” (ai soli apparati di rete e ai segmenti di backhaul e trasporto, previo “affitto” dall’incumbent del rilegamento in rame per l’ultimo miglio).

Aver previsto simultaneamente entrambe le forme di accesso è stata allora una scelta più che ragionevole: era essenziale che, nel breve periodo, si comprimesse il potere di mercato dell’incumbent favorendo l’immediata entrata di operatori concorrenti.

Questa scelta però ha continuato a informare l’azione regolatoria ben oltre il necessario, con controindicazioni rilevanti sul piano dell’incentivo a investire puntualmente appalesatesi in Italia, nel medio-lungo termine.

La concorrenza intramodale (DSL) in Italia è stata debole per anni, anche per alcuni comportamenti anti-competitivi posti in essere dall’incumbent e successivamente sanzionati.

Il livello di competizione così basso nel settore e l’assenza di politiche industriali mirate hanno avuto effetti negativi almeno su altre due dimensioni estremamente rilevanti (Quaglione, 2009).

I consumatori italiani hanno per anni subìto rapporti qualità-prezzo delle connessioni insoddisfacenti: prezzi per Mb/s elevati, modesta velocità media e instabilità delle connessioni.

In secondo luogo, la copertura della rete a banda larga è cresciuta con relativa lentezza: nel 2007 più di un terzo della popolazione non era raggiunto da ADSL+ (connessioni fino a 20 Mb/s), mentre diversi Paesi industrializzati avviavano dibattiti regolatori e di politica industriale sulle modalità concrete da adottare per portare fibra ottica e capacità di connessione di almeno 100 Mb/s a buona parte (quando non alla totalità) della popolazione.

Solo successivamente, anche grazie ai prezzi particolarmente contenuti fissati da AGCOM per l’accesso in unbundling, sono emersi effetti pro-competitivi apprezzabili: i prezzi delle connessioni si sono ridotti, la copertura dell’ADSL+ si è estesa fino a diventare completa.

Anche in questo caso, però, il regolatore non ha avuto il coraggio e la lungimiranza di comprendere che, nell’ambito del trade off tra agevolazione dell’accesso e incentivo a investire, avrebbe ad un certo punto dovuto fare un passo nella direzione di quest’ultimo.

In effetti, la lunghezza media ridotta dei doppini telefonici italiani[2] e i prezzi dell’accesso in unbundling tenuti particolarmente bassi dal regolatore hanno avuto l’effetto di ritardare la transizione verso architetture di rete più moderne (dalla VDSL al FTTH), in cui la fibra fosse progressivamente avvicinata all’utente finale.

Per giunta, gli operatori concorrenti, che avevano investito in risorse funzionali allo sfruttamento dell’opzione competitiva dell’unbundling (ad esempio i DSLAM nelle centrali locali), erano reticenti a cannibalizzarle per saltare verso architetture FTTx.

Gli effetti indesiderati provocati dall’assetto regolatorio eccessivamente orientato a generare concorrenza statica sui prezzi dei servizi[3] si sono estesi anche al mobile, con gli interventi a favore dei MVNO (operatori mobili virtuali).

Ne è conseguito un assetto delle telco caratterizzato da ipercompetizione e prezzi tra i più bassi d’Europa (per alcuni bundle i prezzi italiani sono inferiori a quelli medi europei anche di oltre il 60%) con conseguenze complessive ovvie.

Infrastrutture digitali e PNRR: gli effetti dell’ipercompetizione sui servizi

A fronte di investimenti pressoché stabili, i ricavi degli operatori TLC in Italia sono passati dai quasi 46 miliardi di euro del 2007 a meno di 29 miliardi di euro nel 2020; d’altro canto, tra il 2007 e il 2019 i CAPEX delle Telco sono stati mediamente pari a circa 7 miliardi di euro l’anno (incluse le licenze).

Quindi, allo stato attuale gli operatori sono chiamati a fare investimenti strategici per il Paese (per potenziare reti fisse e 5G) in un contesto in cui il regolatore ancora ragiona come se i servizi di connettività fossero una commodity, un servizio maturo rispetto al quale l’efficienza statica era il solo obiettivo di policy. Se in prospettiva, e indipendentemente dal PNRR, l’approccio del regolatore non cambierà radicalmente, non avrà alcun senso perseguire la strategia della trasformazione digitale.

Riassumendo: in Italia c’è un gap infrastrutturale da colmare il più rapidamente possibile; allo stesso tempo le Telco operano in un contesto di mercato in cui le risorse private disponibili per gli investimenti sono state costantemente erose nel tempo a causa dell’ipercompetizione sui servizi.

Da questo punto di vista, le somme stanziate nel PNRR per l’infrastrutturazione, costituiscono un’iniezione importante.

Tuttavia, esse di fatto assommano ad un ammontare che non pareggia neanche quanto mediamente investito in Italia dalle Telco in uno solo degli anni recenti: così, forse contribuiranno a colmare il digital divide attuale, sempreché i bandi siano disegnati in modo da non scoraggiare la partecipazione dei privati e che le procedure amministrative per la permessistica e le autorizzazioni siano liberate da vincoli incomprensibili. Ma di certo, non incideranno sulle dinamiche evolutive che, in assenza di altri correttivi indispensabili, rimarranno caratterizzate da un basso incentivo razionale ad investire.

Infrastrutture digitali: non c’è domanda di servizi di connettività a banda ultralarga

Il secondo pilastro del nostro ragionamento è che la copertura territoriale delle VHCN è condizione necessaria ma non sufficiente per la penetrazione dei servizi di connettività a banda ultralarga.

I dati citati in apertura evidenziano un certo demand gap già allo stato di copertura attuale.

Una quota affatto trascurabile di italiani ha per la connettività ad Internet una disponibilità a pagare pressoché nulla: il 21,2% degli individui con più di 6 anni non usa Internet; un altro 2% usa Internet non più di qualche volta al mese.

Si tratta peraltro di dati Istat riferiti al 2021, vale a dire dopo la spinta senza precedenti impressa alla domanda in conseguenza della situazione pandemica. Inoltre, il 40% degli italiani non usa un pc, un ulteriore 5% lo usa solo qualche volta al mese.

È interessante registrare che tra le famiglie che non usano Internet, solo l’8% motiva tale circostanza con l’eccessivo prezzo delle connessioni: nella maggior parte dei casi (il 59%) è perché nessuno lo sa usare o (per il 25%) perché Internet non è ritenuto utile o interessante.

Lo stesso Ministro Colao ha recentemente ricordato che “26 milioni di cittadini, dai 16 ai 74 anni, in Italia non hanno competenze digitali di base. Il 17% di questi non ha mai utilizzato Internet e il 38% delle donne non hanno competenze digitali di base” (Intervento tenuto al XXV Congresso Nazionale di Acri).

Tra coloro che usano Internet, le attività prevalenti sono legate alla posta elettronica, ai servizi di messaggistica istantanea, al browsing di siti web, ai social network: operazioni elementari, per le quali le prestazioni e i volumi di traffico consentiti dalla connessione giocano un ruolo secondario, se non ininfluente, e per svolgere le quali vengono tipicamente utilizzati dispositivi come lo smartphone o il tablet.

Non sorprende, quindi, che tra le famiglie dotate di connettività a Internet a casa, il 38% utilizza una connessione a banda larga mobile.

Dal lato delle imprese, le evidenze non sono troppo dissimili, mutatis mutandis. Sebbene il 98% delle imprese con almeno 10 addetti (il cui numero notoriamente è nell’ordine di poco più del 5% del totale, essendo la quota rimanente riferibile alle imprese con non più di 9 addetti) sia dotata di connettività a Internet a banda larga fissa, solo il 40% conta su una velocità di connessione in download almeno pari a 100 Mbps.

Le attività prevalentemente svolte sono basilari e consistono essenzialmente nell’istituzione di: siti web attraverso i quali si forniscono informazioni e si consente lo scaricamento di cataloghi e listini prezzi (55%); profili su social network (56%). Solo il 17,6% usa Internet per attività di e-commerce e solo il 9% ha sistemi di tracciabilità online degli ordini.

In relazione ad usi più complessi, le imprese che analizzano big data internamente o esternamente sono meno del 9%, mentre superano di poco il 6% quelle che usano tecnologie di intelligenza artificiale. Il 32,3% dichiara di utilizzare Internet of Things, dispositivi o sistemi interconnessi che possono essere monitorati o controllati a distanza tramite Internet.

Verosimilmente, per le imprese con non più di 9 addetti i dati appena elencati si attestano su valori decisamente più contenuti.

Un simile quadro spiega il perché sia diffusa la sensazione, tra gli addetti ai lavori prima ancora che tra gli analisti e gli studiosi, che in Italia la trasformazione digitale e Industria 4.0 abbiano (non senza talune eccezioni) comportato incrementi di produttività relativamente modesti.

In moltissimi casi, in effetti, l’adozione di tecnologie di connettività non è stata accompagnata da una revisione degli assetti organizzativi e di produzione e non ha, quindi, indotto gli incrementi di produttività sperati e potenzialmente conseguibili.

Si arriva, quindi, all’esplicitazione di un secondo problema: l’aumento del tasso di adozione delle connessioni a banda larga deve essere accompagnato da un sostanziale cambiamento dei modelli comportamentali degli individui e dei modelli organizzativi e produttivi delle imprese e delle relative filiere; altrimenti, l’aumento della penetrazione della banda larga perde la propria natura di strumento di crescita e resilienza, e diventa un obiettivo fine a sé stesso.

Infrastrutture digitali e PNRR: quanto incidono gli iter amministrativi

Il percorso delineato fornisce una schematizzazione brutale del concatenamento logico indissolubile tra lo strumento della trasformazione digitale, nella fattispecie legata allo sviluppo della banda ultralarga, e l’obiettivo della crescita e della resilienza del sistema-Paese.

Una copertura territoriale amplissima delle reti VHCN e 5G sarà la precondizione per una penetrazione pervasiva delle connessioni ultraveloci, che potrà condurre ai benefici socioeconomici auspicati solo nella misura in cui sarà accompagnata dall’adozione di nuovi servizi avanzati.

Il che richiede che famiglie e imprese abbiano una consapevolezza tale del loro valore potenziale da modificare i propri comportamenti di consumo e produzione.

Le risorse messe a disposizione dal PNRR per gli investimenti digitali sono certamente rilevanti per il recupero del gap infrastrutturale in cui versa l’Italia e per porre le condizioni di allentamento del prevedibile digital divide nel roll-out del 5G.

Per mettere a terra queste risorse, però, occorre che gli iter amministrativi per la stesura delle infrastrutture siano rapidamente snelliti e velocizzati.

Finora, sono sconcertanti i dati sui tempi medi e sul numero di stakeholder da coinvolgere per l’ottenimento dei permessi amministrativi utili ai lavori di posa/scavo di fibra ottica o di deployment di una rete mobile in Italia.

Focalizzandosi solo sui costi di transazione, cioè tralasciando che l’imprevedibilità ex-ante dei tempi e dei possibili rivoli delle procedure costituisca di per sé un freno a investire per gli operatori, basti sapere che per la realizzazione di una rete fissa occorrono autorizzazioni di sei diversi soggetti, sette nel caso di infrastrutture di rete mobile.

Matteucci (2020) evidenzia come i Comuni e le Provincie nel 2016 emanavano permessi rispettivamente in 117 e 122 giorni, mentre soggetti come Anas e RFI impiegavano, in media, 258 e 317 giorni.

Asstel (2021) riporta che i tempi medi di attesa per il rilascio dei permessi per la posa di fibra ottica nei Comuni rurali (la tipologia largamente prevalente nelle aree bianche oggetto di intervento a valere sul PNRR) si aggirano attorno ai 250 giorni.

La scelta di istituire una Task Force (temporanea) a supporto delle amministrazioni per la semplificazione e la re-ingegnerizzazione delle procedure necessarie all’implementazione delle misure di investimento previste nel PNRR risponde, in astratto, precisamente all’esigenza di predisporre un contesto che non frustri i piani e gli incentivi all’investimento degli operatori, garantendo tempi certi e minimizzati.

Ma, come è noto nella letteratura economica relativa ai temi del “mechanism design and implementation” (Maskin, 2019) le istituzioni e le procedure (il “mechanism”) vanno disegnati in un’ottica normativa e non positiva, vale a dire partendo dagli obiettivi che vanno raggiunti.

La semplificazione e re-ingegnerizzazione delle procedure non basta se allo stesso tempo non si allineano gli incentivi razionali negli Enti e nelle Amministrazioni Pubbliche.

L’esempio più lampante di una tale criticità è recente: a giugno 2020, anche per effetto di fake news sulla presunta relazione causale tra 5G e diffusione del Covid-19, si contavano 450 ordinanze firmate da Sindaci che impedivano l’installazione sul territorio comunale di apparati 5G.

L’art. 38 del Decreto Semplificazioni ha solo in parte limitato i danni: a gennaio 2021, in 35 municipi i Sindaci non si sono ravveduti, e gli operatori hanno dovuto ricorrere al TAR.

Come opportunamente sottolineato da Asstel, oltre a provocare ritardi ingiustificati in un percorso già connotato da diverse difficoltà, i ricorsi al TAR comportano anche costi per le casse comunali.

Cifre irrisorie, comunque, rispetto ai danni sistemici provocati dai ritardi: Ernst & Young ha stimato che in Italia 12-18 mesi di slittamento nello sviluppo del 5G si traducono in minori benefici stimati tra 2,9 e 4,3 miliardi di euro. Resta il fatto che, in un simile quadro, i sindaci hanno incentivo a porre in essere persino azioni temerarie come quelle appena descritte, poiché da esse traggono dividendi personali (elettorali o comunque di consenso pubblico) a spese delle casse comunali.

Perciò, la re-ingegnerizzazione delle procedure ha senso solo se accompagnata da meccanismi di penalizzazione/punizione o ricompensa che comprimano gli incentivi razionali all’adozione di comportamenti opportunistici.

Ad esempio, prevedere che gli amministratori pubblici siano direttamente responsabili dei danni accertati dalla Corte dei Conti in relazione al loro comportamento sconsiderato; ovvero premi per l’Ente pubblico per il raggiungimento di obiettivi prefissati.

Infrastrutture digitali e PNRR: le esposizioni elettromagnetiche e il 5G

Un punto centrale nello sviluppo del 5G, affatto considerato nel PNRR, è relativo alla politica adottata in Italia, e in pochi altri Paesi nel mondo, in ordine ai limiti sull’esposizione ai campi elettromagnetici: un approccio arbitrariamente restrittivo rispetto a quello raccomandato da istituzioni indipendenti (INCIRP e IEEE, per citare le più autorevoli) e seguito prevalentemente in Europa.

L’adozione di limiti inferiori a quelli raccomandati non porta con sé alcun beneficio documentato, al contrario determina ostacoli che rischiano di provocare danni irreparabili al sistema-Paese:

  • reti costruite in modo non ottimale e allocazione potenzialmente inefficiente dello spettro radio (nuove porzioni liberate non sarebbero sfruttabili nei siti dove si è saturato il fondo elettromagnetico);
  • incremento dei costi di investimento, dovuti alla necessità di moltiplicare i siti per la collocazione delle antenne;
  • difficoltà o impossibilità, specialmente nelle aree urbane, di identificare nuovi siti (con conseguenti comportamenti potenzialmente escludenti da parte degli operatori con apparati già collocati).

Alcune stime riferite al caso italiano, basate sull’ipotesi di riuscire a trovare siti disponibili e adeguati (il che non è affatto probabile), quantificano in poco meno di 4 miliardi di euro l’incremento di investimenti richiesto agli operatori rispetto al caso dei limiti armonizzati; nel caso polacco, ITU stima la necessità di più che triplicare il numero dei siti nelle aree urbane, fattore che diventa quasi pari a 7 nel caso di aree urbane dense.

Considerato che, già attualmente, gli operatori riscontrano molti problemi per individuare e accedere a nuovi siti tecnicamente idonei, la prospettiva di adeguarsi ai valori raccomandati deve essere valutata senza pregiudizi, anche perché si tratta di una misura a costo zero che ha effetti propulsivi indiscutibili sul settore e sull’intera economia.

Infrastrutture digitali e PNRR: il piano voucher non basta, serve alfabetizzazione

Un’ultima riflessione verte sull’utilizzo dello strumento degli incentivi alla domanda di connettività. Si fa riferimento al Piano Voucher, avviato in una prima fase a vantaggio delle famiglie, in una seconda a vantaggio delle micro, piccole e medie imprese.

La prima impressione è che i dati sulle attivazioni dei voucher in fase 1 non siano entusiasmanti: è stata attinta poco più del 50% della somma stanziata e le percentuali di attivazione più basse sono proprio nelle Regioni che manifestano ritardi di penetrazione più pronunciati.

D’altra parte, l’abbattimento del prezzo della connettività genera incrementi della penetrazione quando l’eccessiva spesa per Internet (e per i dispositivi necessari) è tra le cause principali della mancata adozione da parte delle famiglie. Come già evidenziato, non è questo il caso delle famiglie italiane.

Peraltro, per la maggior parte degli utilizzi elementari di Internet, la banda larga mobile rappresenta un ottimo sostituto di quella fissa (Quaglione et al., 2018; Quaglione et al., 2020), a prezzi inconfrontabili (al momento si trovano offerte mobili con chiamate e messaggi illimitati e 150GB di traffico Internet agevolmente al di sotto dei 10 euro mensili) e senza alcuna complicazione tecnica (non occorre configurare modem/router; non ci sono problemi di interferenze tra canali WiFi).

Il problema è sempre relativo al limitato valore attribuito alla connettività (di qualità elevata) da parte degli individui, che consegue alla mancanza di consapevolezza dei benefici potenziali connessi all’utilizzo di servizi digitali avanzati.

Solo una massiccia ondata di innovazioni digitali nelle modalità di concepimento e di erogazione dei servizi, con particolare riferimento a quelli erogati dalle pubbliche amministrazioni, può spingere individui e famiglie nella giusta direzione.

In aggiunta, si può anche immaginare l’utilizzo di tecniche di nudging (ad esempio, legare l’utilizzo di servizi digitali al riconoscimento di badge che comportano benefici per l’utente) o voucher (soprattutto per le persone in età più avanzata) per corsi di alfabetizzazione informatica. Da questo punto di vista, nel PNRR si poteva e doveva fare di più.

Siccome analoga questione caratterizza anche le imprese, non è improbabile che il Piano voucher di fase II riuscirà a stimolare l’adozione di (migliori) servizi di connettività da parte delle imprese, ma si faticherà ad assistere a incrementi della produttività strutturali.

Il tassello che manca è quello di una politica industriale che favorisca il consolidamento di ecosistemi locali dell’innovazione, un network di risorse e conoscenze che possano essere messe a sistema per accompagnare concretamente le imprese nel percorso di trasformazione digitale.

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Riferimenti bibliografici

Asstel (2021), “Audizione del presidente di Assotelecomunicazioni-Asstel dott. Pietro Guindani nell’ambito del piano nazionale di ripresa e resilienza” (Doc. XXVII, n. 18).

Briglauer, W., Gugler K., Cambini C., Stocker V. (2020), “Net Neutrality and High-Speed Broadband Networks: Evidence from OECD Countries”, Working Papers / Research Institute for Regulatory Economics, WU Vienna University of Economics and Business, Vienna.

Maskin E. (2019), “Introduction to mechanism design and implementation”, Transnational Corporations Review, vol 11(1), 1–6.

Matteucci N. (2020), “Digital agendas, regional policy and institutional quality: assessing the Italian broadband plan”, Regional Studies, 54(9), 1304–1316.

Quaglione D. (2009), “Infrastrutture e servizi per lo sviluppo dell’economia digitale: criticità e misure di policy”, Economia dei Servizi, vol. 1, 53–67.

Quaglione D., Agovino M., Di Berardino C., Sarra A. (2018), “Exploring Additional Determinants of Fixed Broadband Adoption: Policy Implications for Narrowing the Broadband Demand Gap”, Economics of Innovation and New Technology, 27(4), 307–27.

Quaglione D., Matteucci N., Furia D., Marra A., Pozzi C. (2020), “Are Mobile and Fixed Broadband Substitutes or Complements? New Empirical Evidence from Italy and Implications for the Digital Divide Policies”, Socio-Economic Planning Sciences, 71(September), 1–14.

Note

  1. Essenzialmente la rete dei doppini in rame tra centrali locali e utenti finali
  2. Causa dell’incremento di longevità della tecnologia ADSL+ in Italia rispetto a quanto non sia avvenuto altrove
  3. Si tralascia in questa sede la questione della neutralità tecnologica e degli effetti sull’incentivo a investire, per la quale si rinvia a Briglauer et al, 2020

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