Nel momento in cui l’opera d’arte – attraverso un processo di digitalizzazione crittografica – è tradotta in non fungible token, e tale con-versione è riconosciuta e formalizzata come esemplare, quale connotazione assume la categoria di autenticità nell’arte? L’opera d’arte “tokenizzata” in che rapporto si pone con il suo “compito” storico-culturale, ammesso possegga ancora – entro questo dominio – una valenza semiotica e artistica? L’oggetto culturale e sociale a cui il presente contributo tenterà di fornire una lettura può essere così introdotto: l’opera d’arte, oggigiorno, è “trasposta” dal mondo degli enti tangibili, e fisicamente compresenti, al mondo delle immagini immateriali.
In questa “dilatazione” del campo culturale e artistico, pare che l’opera d’arte digitalizzata sia in grado di preservare e valorizzare lo statuto dell’autenticità: la trasposizione digitale di un’opera d’arte “tradizionale”, se “ancorata” a un non fungible token, può essere ricompresa fra le opere d’arte originali.
Come funziona la tokenizzazione dell’arte
Ma anzitutto cos’è l’opera d’arte in formato NFT? In primo luogo, la “tokenizzazione” dell’opera d’arte è una procedura che associa i diritti di proprietà e attribuisce i diritti d’autore a beni e opere digitalizzabili o di per sé digitali. L’opera d’arte in versione NFT può consistere in una foto digitale o in una rappresentazione filmica dell’opera originaria. La certificazione crittografica dell’opera d’arte digitalizzata si esplicita in una sequenza numerica; tale sequenza è compressa in una sequenza successiva, più breve della precedente, attraverso un processo che prende il nome di hashing. L’autore dell’NFT memorizza la sequenza compressa, l’hash, su una blockchain. All’hash è associata una marca temporale. Il token, corredato di un hash, diviene oggetto di vendita e prevede un corrispettivo in criptovaluta.
L’identificazione esatta dell’opera digitale consente di ricostruirne, retrospettivamente, le relative compravendite, così da risalire all’effettivo creatore. In definitiva, l’hash di cui è munito il token fornisce l’attestato di autenticità, e, al contempo, di proprietà dell’opera digitale. Ad esempio, la blockchain di ethereum, quando ospita un NFT, garantisce che l’NFT non muti: il certificato non può subire modifiche nel tempo.
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La riproducibilità del vero nell’autenticità del falso
Il non fungible token decreta anzitutto la fine dell’autenticità come requisito ad esclusivo appannaggio di un’originaria conformazione materiale dell’opera, ed estende tale requisito alle attuali formule di rappresentazione digitale.
Il caso del Tondo Doni
È questo il caso del Tondo Doni di Michelangelo: le Gallerie degli Uffizi, attraverso il ricorso alla tecnologia dell’azienda Cinello, hanno tradotto l’opera di Michelangelo in una versione digitale. Realizzato attraverso un brevetto esclusivo il Tondo Doni è la prima opera d’arte digitale resa unica grazie a un sistema crittografato, il quale, per mezzo dell’NFT, ne certifica la proprietà e lo tutela da eventuali contraffazioni.
Il direttore generale di Cinello, Luca Renzi, si è espresso in questi termini: “Viene prodotto in serie limitata, certificato, in scala 1:1 esattamente come l’originale, protetto con un sistema di crittografia digitale brevettato. Il contenuto tecnologico straordinariamente elevato lo rende assolutamente incopiabile garantendone l’unicità. Per ogni DAW viene creato un token NFT sulla Blockchain che ne certifica la proprietà e in più la doppia autenticazione, sia da parte degli Uffizi sia della Cinello, attesta ancora di più l’effettiva unicità dell’opera”. Al fine di evitare equivoci e confutare l’ipotesi che possa trattarsi di un’effettiva copia, è stata evidenziata l’unica definizione possibile di questo prodotto culturale: l’opera d’arte digitale, associata a un NFT, è “opera digitale unica” ed essa rientra, conseguentemente, nella categoria di “arte digitale unica”.
Il caso Banksy
Ai fini della presente trattazione, un esempio in grado di fornire ulteriori elementi d’indagine può essere rappresentato da un Banksy originale (autentico), una stampa del 2006 intitolata Morons e autenticata dalla Pest Control, società che garantisce l’autografia delle opere di Banksy. La stampa dell’opera Morons è stata convertita in un’opera di crypto art, ovvero in un’opera d’arte originale, la cui autenticità è garantita da un NFT[1]. L’opera era stata dapprincipio rilevata dall’azienda Injective Protocol, per la somma di novantacinquemila dollari. In seguito, il gruppo Burnt Banksy ha trasferito l’opera d’arte su un supporto digitale, e, solo successivamente, ha bruciato il Banksy autentico, l’opera fisica. A partire dal Morons digitalizzato, è stata creata una versione NFT dell’opera. Quest’ultima, ottenuta la certificazione di autenticità in quanto pezzo digitale unico, è stato rivenduta per la cifra di trecentottantamila dollari.
Oltre a coglierne il palese intento speculativo, è utile soffermarsi sulle parole pronunciate dal giovane che ha dato fuoco all’opera, al fine di restituire la cifra culturale, le implicazioni estetiche e le conseguenze artistiche dell’operazione speculativa: “Vicino a me c’è un’opera di Banksy del 2006 intitolata Morons, autenticata da Pest Control. Adesso, insieme al nostro partner Superform, una piattaforma per l’acquisto e la creazione di NFT, trasformeremo l’opera in un NFT e domani la venderemo su Open sea. Adesso brucerò questo Banksy. La ragione di ciò sta nel fatto che, se abbiamo sia l’NFT che l’oggetto fisico, il valore sta soprattutto nel pezzo fisico, ma, eliminando l’opera fisica, e facendo in modo che rimanga solo l’NFT, possiamo assicurare che grazie all’esistenza dell’NFT nessuno potrà alterare l’opera, e l’NFT sarà l’unico pezzo autentico che esiste al mondo. Con questa operazione il valore dell’oggetto fisico sarà trasferito sull’NFT, il quale sarà l’unico modo per avere la proprietà dell’opera”.
L’equivalenza artistica tra opera e NFT
Cosa è possibile trarre da questa dichiarazione d’intenti? Quale genere di critica consentono di muovere i due esempi sopra proposti? La certificazione formale fornita dal codice crittografico consente la possibilità di stabilire un parametro di “equivalenza artistica” fra l’originaria versione fisica dell’opera d’arte e la rispettiva con-versione digitale: il valore artistico che l’NFT garantisce all’opera digitale è orientativamente inferiore all’opera originaria, però, nel momento in cui l’originario è cancellato, la versione digitale ha i pieni requisiti per subentrare ad essa, favorendo addirittura l’incremento della propria valutazione monetaria. Questo genere di replica, nella sua versione digitale, tende a pareggiare la valenza artistica dell’originale che l’ha preceduta. L’NFT consente di azzerare o ridurre drasticamente lo scarto qualitativo che da sempre intercorre fra l’opera d’arte originale e la sua copia, fornendo le condizioni utili a garantirne – in qualsiasi momento – l’eventuale sostituzione. In questo contesto inedito, l’opera d’arte “originale” può vantare la propria originalità in un contesto del tutto relativo, giacché l’originalità travalica il perimetro dell’opera d’arte originaria; l’esemplarità può sottrarsi all’opera d’arte originaria.
Originalità e autenticità
L’originalità e quindi l’autenticità dell’opera d’arte originaria divengono reversibili. L’originale vive in una condizione di parzialità, poiché, da un momento all’altro, esso può essere deposto dalla sua copia. La copia, nel suo formato NFT, giacché non è più riconosciuta come mera copia, e cioè come falso, mina il primato ontologico dell’opera d’arte originale e originaria. All’autentico può subentrare un altro autentico; l’autentico fisico (il Banksy dato alle fiamme) può essere sostituito dalla replica autenticata (il Banksy in versione NFT). L’NFT eleva esponenzialmente la possibilità di annullare il differenziale fra il vero e il falso, rendendo vano lo sforzo di conservare un criterio distintivo e inequivocabile (incontrovertibile) fra ciò che è artisticamente autentico e ciò che è artisticamente non autentico, nella misura in cui la “digitalità” si appropria di attributi che, sino al recente passato, potevano essere ricondotti esclusivamente alla dimensione materiale originaria, e dunque tangibile, dell’opera d’arte.
L’autenticità non è più un fatto esclusivo, che pertiene a una singola forma/espressione artistica; nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Benjamin, 2019) diviene possibile ri-localizzare, e quindi ri-semantizzare, la categoria di autenticità: l’NFT, essendo il certificato di proprietà di un’opera digitale, corrisponde anzitutto al certificato della traduzione digitale di un’opera antecedente ad essa, la quale opera – il più delle volte – si sostanzia in un’opera fisica, dotata di una specifica connotazione materiale.
Contraddizioni e paradossi
A un’attenta analisi, i casi sopracitati del Tondo Doni e del Banksy rivelano l’equivoco che sorge in seno a tre precise locuzioni: arte digitale unica, opera digitale unica e non fungible token. In verità, tali definizioni e i loro corrispettivi “oggetti” non sono altro che la ri-rappresentazione di un originale altro. E il fatto che tali formati digitali siano forniti del requisito di autenticità non fa che camuffare il loro essere già replica: il gettone “non copiabile” è tale non in quanto scaturigine prima del gesto artistico e sua immediata espressione, ma solo in quanto “copia autentica”, cioè copia certa, di un esemplare originario. Indipendentemente dalle logiche di mercato a cui deve sottostare, il certificato crittografico accerta, paradossalmente, l’autenticità del falso e mai l’autenticità del vero; l’NFT, in quanto certificato di proprietà, attesta la proprietà di una replica, giacché l’oggetto certificato come NFT è già copia di qualcos’altro. L’NFT non fa che autenticare il falso come se fosse vero, associando ad esso un valore monetario (un controvalore). E dunque anche un falso – l’NFT per l’appunto – ha un valore di mercato, al pari del vero, e, proprio come il vero, può essere oggetto d’asta. Il falso si appropria delle logiche alle quali da sempre risponde il vero e lo eguaglia per mezzo dell’assunzione di un valore nominale, valore certificato all’interno di un mercato di specifiche merci. In prima istanza, il falso riesce ad equiparare il vero in quanto certificato istituzionalmente e formalmente riconosciuto; si tratta, in tal senso, di un’uguaglianza di natura giuridico-formale. In seconda istanza, il falso eguaglia il vero entro un perimetro di carattere economico-mercantile, corrispondente grossomodo al meccanismo che regola tradizionalmente l’opera d’arte e la sua posizione sul mercato, come l’asta o, più semplicemente, la vendita.
Le verosimiglianze sopradescritte rivelano, in realtà, la condizione intrinsecamente paradossale dell’NFT: siccome il “gettone” è antecedentemente una copia, essere un gettone non copiabile equivale, in realtà, ad essere una copia non copiabile. La legittimazione del non fungible token e, in questo caso specifico, dell’arte digitale unica viene imposta sulla base di un assurdo. L’NFT attesta la veridicità di un oggetto autenticamente falso come se fosse un oggetto autenticamente vero, al quale manca, invero, il requisito propriamente intrinseco dell’opera d’arte, l’hic et nunc (Benjamin, 2019). In questa traiettoria l’NFT allontana ulteriormente la fruizione dichiaratamente “artistica” dalla vera opera d’arte e quindi dall’autentico. La proprietà dell’NFT è proprietà della copia; la relativa compravendita è, allo stesso modo, compravendita della copia. Ebbene, nonostante ciò, l’NFT accredita al falso lo status selettivo dell’esemplarità. La copia è, incredibilmente, autentica quanto ciò che la precede, cioè quanto il suo antecedente materiale (l’originale). Ma come può il falso essere un unicum? Come fa la copia ad essere autenticamente esemplare, dal momento in cui si tratta di una rappresentazione di qualcosa che è dapprincipio altro?
L’arte al cospetto della sua falsificazione storica: cosa resta
Il concetto di autenticità dell’opera d’arte digitalizzata e “tokenizzata” non è più ancorato al qui ed ora dell’oggetto artistico, alla sua compresenza fisica, alla relativa aura (Benjamin, 2019), o alle possibili tracce che di essa permangono, bensì si lega alla certezza dell’autore che l’ha ri-prodotta. In tal caso, però, ciò che assume valore nominale – e solo apparentemente artistico – non è l’opera d’arte “viva” e prima, l’opera immediatamente riconducibile al gesto primigenio del proprio creatore e alla con-seguente persistenza storica dell’opera stessa. Nella propria trasposizione visuale, nella propria ri-qualificazione de-materializzata, ad assumere valenza artistica è l’immagine di un corpo assente. All’interno di un circuito mercatistico (la blockchain) e monetario (la moneta digitale), il falso è legittimato e certificato come vero.
Assumendo la lettura heideggeriana dell’opera d’arte come quadro esplicativo col quale tentare di fornire un’interpretazione teoretica del “formato” artistico in questione, ci si pone inevitabilmente dinnanzi a quesiti di ordine ontologico: come può l’opera d’arte, nella sua versione digitale, assolvere a una funzione veritativa? A partire da quale luogo, da quale apertura, può dischiudersi il vero, se ad essere proposta come opera d’arte è la copia, la replica, dell’opera d’arte originaria? La falsità della replica fornisce un margine che proietti in direzione del disvelamento del vero? La risposta non può che essere negativa: l’a-létheia (ἀλήθεια) inevitabilmente disconosce l’opera d’arte nella sua versione digitale; la verità non si ritrae, piuttosto abbandona la copia (il falso) che tenta di legittimarsi e proclamarsi come l’originale (il vero).
Il messaggio dell’opera
L’opera d’arte, in verità, resta portatrice intatta della sua autenticità solo per mezzo dell’effettivo e graduale deterioramento della propria originaria materialità. La degradazione del corpo dell’opera garantisce la sua conservazione artistica. L’autentico erompe in luogo al perenne dissidio fra la materia logora e consunta dell’opera d’arte e il gesto conservativo che ad essa si oppone; la severa conservazione – riconducibile all’atto umano – cor-regge e sor-regge l’opera nella sua fatale e impercettibile corrosione. Il contrasto di questo “moto doppio” traccia il solco della storicità artistica dell’opera, e, così facendo, ri-vivifica, senza sosta, il proprio “residuato” autentico. Entro questa costante dialettica l’opera d’arte è protesa nel futuro imminente, e, al contempo, volge il proprio sguardo verso il passato. L’inevitabilità del futuro coesiste alla reversibilità del passato; la “dissipazione contenuta” dell’autenticità artistica si conserva e si concede esclusivamente nel logoramento, necessario e necessitante, della storicità dell’opera stessa, nel suo perenne farsi.
L’inarrestabile tendenza al disfacimento dell’opera trascina con sé l’attimo del suo primordio, la sua scaturigine, l’entstehung (Heidegger, 2000) da cui non può sottrarsi. L’opera d’arte “tokenizzata”, al contrario, non possiede – al pari di qualsiasi altra copia – il requisito dell’autenticità, dacché essa non è più, e in alcun modo, oggetto dell’attrito stabile fra la consunzione “endogena” all’opera artistica e la manutenzione “esogena” all’opera stessa. Nell’assoluta ed eterna lotta fra degradazione e restaurazione, si colloca la perenne in-stabilità dell’autenticità dell’opera d’arte, la quale autenticità mai si preserva intatta e mai si dissipa del tutto.
È la storicità nella sua interezza e nella sua percorrenza a lasciare, in diversa misura, le impronte evidenti o riposte, chiare o opache, degli infiniti passi che, dall’origine, dall’iniziale sgorgo, protendono e riconducono alla presente e apparente stasi. Ecco allora che l’opera d’arte è autentica, esclusivamente, nella propria materiale compresenza. Sono la pienezza e la completezza della sua datità storicamente determinata a predisporre, nell’opera stessa, quell’ineffabile crocevia – punto di congiunzione – fra l’Essere (Heidegger, 1980) che costantemente si ritrae e la percezione estetica che il soggetto ha di essa, in tutta la sua intensità sensoriale (visuale, tattile e olfattiva). Colui che dispone dell’opera digitale, dell’opera certificata come autentica, non possiede altro che l’opera strappata a se stessa; la qual opera, in quanto simulacro (Baudrillard, 1994), appare a se stessa del tutto estranea, anzi non appare. L’opera d’arte nella sua con-versione digitale degrada all’utilizzabile per, se non addirittura a mera cosa (Heidegger, 1980).
Conclusione
Tali specifiche argomentazioni ci consentono allora di risalire alla domanda introduttiva: a quale funzione assolve l’opera d’arte in formato NFT? In un mercato entro il quale i beni (le merci) hanno un prezzo e sono per l’appunto oggetto di compravendita, la funzione a cui adempie l’opera d’arte digitalizzata è esclusivamente speculativa: al depauperamento artistico dell’opera d’arte originale e originaria corrisponde l’accrescimento mercantile/monetario dell’opera digitale unica. In tal senso l’opera d’arte in formato NFT è tutto fuorché opera d’arte, per cui ad essa non può essere accostato il criterio dell’autenticità.
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Note
- Per l’esattezza, il Banksy dato alle fiamme era il Morons trecentoventicinque autenticato dall’autore, appartenente a una serigrafia composta da cinquecento pezzi e datata 2006. Tale passaggio – apparentemente innocuo – avverte su un primo fondamentale elemento: il vero, almeno negli esempi proposti in questa sede, non può essere colto e assunto come un requisito che, da sé, si dà, entro un luogo imprevisto e con una “tempistica irregolare”; al contrario, il vero diviene un requisito che, fuori da sé, si produce e riproduce, ricorrendo a un processo cumulativo pianificato. ↑
Bibliografia
Baudrillard J. (1994), Simulacra and simulation, University of Michigan Press [prima ed. orig. 1981]
Benjamin W. (2019), L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Donzelli [ ed. orig. 1935-1940]
Heidegger M. (1980), Essere e Tempo, Longanesi [prima ed. orig. 1927]
Heidegger M. (2000), L’origine dell’opera d’arte, Marinotti [prima ed. orig. 1950]