La disciplina sull’abuso di dipendenza economica, tradizionalmente inquadrata nella prospettiva privatistica degli squilibri contrattuali, si è nel tempo arricchita di una componente pubblicistica che consente ora anche alle autorità di concorrenza di improntare i rapporti di mercato al rispetto del canone della “fairness”.
È questa una deriva non isolata. Mentre il Data Act tenta di codificare nell’Unione il canone della correttezza nei rapporti tra le imprese, in altri Stati membri non solo le competenze pubblicistiche si intersecano con quelle privatistiche, ma si indirizzano specificamente verso i mercati digitali, così da intercettare i comportamenti abusivi online che incidono il mercato.
Abusi di potere nei mercati digitali: la riforma antitrust che serve
Il percorso peraltro non sembra concluso: tanto che a livello nazionale si propongono nuove regole per incentivare la correttezza nei rapporti digitali.
Alle origini della dipendenza economica tra squilibri negoziali e di mercato
In Italia, l’abuso di dipendenza economica non è regolato in quanto tale. Emersa l’inefficacia delle regole privatistiche a fronteggiare le relazioni negoziali sbilanciate, il legislatore ha annoverato nella legge sulla sub-fornitura del 1998 (Legge n. 192/1998) i “rapporti di mercato” caratterizzati da discrepanze contrattuali ed economiche.
Il presupposto normativo è pacifico: sebbene la subfornitura si configuri come uno schema pro-concorrenziale in grado di offrire concrete possibilità di sviluppo per le piccole e medie imprese, il sottostante rapporto commerciale può disvelare un lato “patologico” allorché una parte sia esposta a un’eccessiva “pressione economica” ad opera della controparte contrattuale.
Le conseguenze sono evidenti: in presenza di un grave squilibrio contrattuale, la parte da contrattualmente debole diventa economicamente captive, prigioniera cioè di un rapporto che non è in grado di sostituire e dal quale non è in grado di liberarsi. La minaccia di risoluzione a cui rimane esposta, finisce per costringere la parte vincolata ad accettare comportamenti opportunistici difficilmente aggredibili attraverso i tradizionali rimedi legali.
La soluzione è offerta dall’art. 9 della legge 192, che contempla una specifica norma di private enforcement applicabile a quei comportamenti che prospettano un abuso di dipendenza economica relativa.
Puntuali sono le condizioni di applicabilità. In primo luogo, perché ricorra una situazione di dipendenza economica, un’impresa deve essere in grado di determinare, nel suo rapporto con l’altra, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi. In secondo luogo, la norma vieta non soltanto il protrarsi della situazione di soggezione ovvero predominio, ma anche lo sfruttamento di tale potere “relativo”, nella misura in cui tale condotta sia rilevante solamente per le parti direttamente coinvolte, senza produrre alcun effetto duraturo sul mercato.
L’effetto finale è apprezzabile: attraverso l’istituto, il legislatore dapprima sottrae al principio della libera volontà delle parti i rapporti tra imprese caratterizzati da squilibrio contrattuale (e, di rimando, il complesso di rapporti tipicamente verticali e non soltanto quelli posti in essere tra acquirente e subappaltatore), e poi concede alla controparte più debole una tutela giuridica di tipo privatistico, nel doppio presupposto che vengano soddisfatti i requisiti di applicabilità e che il comportamento esaurisca i propri effetti all’interno del rapporto contrattuale.
Giova alla scelta normativa la flessibilità della definizione di dipendenza economica e del concetto di abuso. Flessibilità che consente al giudice di assicurare nel tempo la tenuta della norma, adattandola alle evoluzioni della tecnologia e delle pratiche di mercato.
La virata pubblicistica
Così come originariamente concepito, il sistema ruota attorno a due punti fermi.
Primo: l’istituto ha rilevanza squisitamente privatistica (la competenza è del giudice civile, le azioni rilevanti sono quelle inibitorie e risarcitorie); secondo, che ne è immediata conseguenza, la disciplina presuppone che la condotta si esaurisca all’interno del rapporto, senza che residuino effetti di mercato.
Su queste linee di indirizzo si sono via via innestate delle novità.
Innanzitutto, con la L. 57/2001, il legislatore ha aggiunto il comma 3 bis all’art. 9, L. 192/98, attribuendo all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) una specifica competenza in materia, laddove “al di là” dell’enforcement antitrust e “indipendentemente” dalla capacità di provarne i presupposti, la condotta produca effetti comunque “rilevanti” sul mercato.
In secondo luogo, a distanza di dieci anni, con la L. 180/2011, le condotte che violano la legislazione sui ritardi di pagamento si qualificano come abuso di potere contrattuale superiore ogni qual volta la violazione sia generica e continuativa. Più nello specifico, “in caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, l’abuso si configura a prescindere dall’accertamento della dipendenza economica”. La responsabilità di far rispettare la suddetta norma è de iure attribuita all’AGCM che, in quanto tale, ha pieno diritto di indagare su tale comportamento scorretto, applicando i tradizionali strumenti e rimedi antitrust.
Mentre l’innesto del 2001 si inquadra nel solco delle rinnovate competenze antitrust a presidio della correttezza dei rapporti (solco nel quale si inscrivono anche le competenze in materia di pratiche commerciali scorrette), la novella del 2011 è specificamente orientata a sostenere le imprese di piccole e medie dimensioni, utilizzando la cassetta degli attrezzi antitrust e conferendo alle associazioni di categoria una speciale legittimazione ad agire (ex art. 4, L. 108/2011). Nell’ottica di sistema, all’AGCM viene attribuita una nuova area di intervento, che passa per la sussistenza di specifici requisiti soggettivi (essendo rivolti alle imprese, in particolar modo quelle di piccole e medie dimensioni) e per condizioni oggettivo-comportamentali standardizzate (che consistono in continui ritardi nei pagamenti), ma non anche per l’accertamento del requisito della dipendenza che è ricavato a posteriori dal comportamento stesso.
In terzo luogo, l’art. 62 D.l. n. 1/2012 (ora confluito in altro regime, cui si è accompagnata anche una riattribuzione delle competenze), faceva leva sugli “indici di vulnerabilità” della filiera agro-alimentare, per rispondere alle esigenze di tutela delle PMI fornitrici ovvero produttrici di prodotti agricoli nei rapporti con la grande distribuzione organizzata (GDO), attribuendo specifiche competenze all’AGCM.
What is next?
Parallelamente al moto europeo che ha condotto all’adozione di nuove regole sui mercati digitali, il Governo ha avanzato una norma in termini nel DDL concorrenza, ora all’esame del Parlamento. Ci si riferisce all’art. 29, che propone di estendere la previsione sull’abuso di dipendenza economica alle piattaforme con ruolo determinante.
Obiettivo della norma è offrire alle piccole e medie imprese che dipendono dai fornitori online per operare sul mercato la possibilità concreta (attraverso la tecnica dell’inversione dell’onere della prova) di vedere tutelate le proprie ragioni nel caso in cui le piattaforme sfruttino illegittimamente la propria posizione di forza, imponendo condizioni discriminatorie, scorrette, o anche interrompendo senza ragione forniture e rapporti commerciali. I poteri di accertamento non vengono toccati (al giudice civile sono assegnati i rimedi di private enforcement mentre all’AGCM sono riservati quelli di public enforcement).
Difficile prevedere se le nuove regole diventeranno legge. Quel che è certo è che queste rafforzerebbero l’accountability delle big tech, che sarebbero incentivate ad adottare comportamenti virtuosi senza cedere a tentazione opportunistiche.
*Questo articolo è parte della rubrica “Innovation Policy: Quo vadis?” a cura dell’ICPC-Innovation, Regulation and Competition Policy Centre