YouTube e Twitter hanno deciso di intervenite direttamente ed esplicitamente per “limitare” la propaganda (filorussa) sulla guerra in Ucraina.
Qualcuno potrebbe parlare – e non a torto – di censura selettiva e di contropropaganda; altri, più semplicemente, di business dell’informazione di guerra. D’altra parte, se le industrie militari di mezzo mondo stanno lucrando sul conflitto, perché non dovrebbero farlo anche le piattaforme web che “vendono” informazione?
Guerra in Ucraina: così propaganda e disinformazione online inquinano il dibattito
Propaganda filorussa: le contromosse di YouTube e Twitter
In virtù delle regole sui “grandi eventi violenti” da YouTube sono stati rimossi oltre settantamila video riguardanti l’invasione russa.
Secondo il “Guardian”, si trattava di video con contenuti propagandistici. Anche molti canali (circa novemila) sono stati oscurati, perché si riferivano al conflitto russo-ucraino come “missione di liberazione”, “operazione militare speciale” e campagna di “denazificazione” dell’Ucraina. Il risultato: oltre quaranta milioni di visualizzazioni di contenuti ritenuti “autorevoli” dalla piattaforma in Russia, Polonia e Ucraina.
Anche Twitter ha annunciato pubblicamente di voler “rallentare” la disinformazione sulle crisi in generale; i conflitti armati, ovviamente, vi rientrano. I contenuti verranno qualificati come “disinformazione” in base ad un protocollo di fact-checking basato su fonti credibili e disponibili pubblicamente, come organizzazioni umanitarie e giornalisti.
I rischi di questo approccio: il bias di conferma
Il rischio che questi sistemi determinino un bias di conferma, però, non è un’ipotesi remota.
The Economist ha effettuato un’interessante ricerca, a partire dal presupposto che per gli occidentali “il ritratto dei leader ucraini come nazisti suona assurdo”. La ricerca ha confermato che analisti, troll o bot sono stati impiegati abbondantemente world-wide per promuovere l’immagine della Federazione Russa attraverso gli hashtag #IStandWithPutin o #IStandWithRussia. Le tecniche impiegate sono note alla sociale media manager: retweet calendarizzati e interventi standardizzati in conversazioni iniziate da altri. La ricerca ha preso in considerazione circa tre milioni e settecentomila tweet.
Nessuna policy ad hoc – per ora – per Tik Tok: la piattaforma di proprietà cinese ha sospeso la possibilità di inserire video a pagamento in Russia e limita la pubblicazione “in organico” video per video, limitando solo l’incoraggiamento all’odio.
Anche Meta, la società che fa capo a Mark Zuckerberg e che controlla Facebook, Instagram e WhatsApp, non pare aver adottato una policy ufficiale, pur avendo già preso duramente posizione contro l’invasione russa dell’Ucraina.
Resa, non evacuazione
Il Battaglione Azov ha lasciato l’imprendibile bunker antiatomico delle acciaierie di Azovstal dopo un incredibile “balletto”: da un lato, l’ordine di resistere ad oltranza, dall’altro la richiesta, chiara ma non esplicita, di potersi arrendere senza dover arrivare all’estremo sacrificio.
Dato che la scelta di arrendersi – sacrosanta e a suo modo coraggiosa – confliggeva pesantemente sia con l’esigenza del governo ucraino di avere degli eroi da salvare o da elevare a martiri, sia con il motto dello stesso Battaglione Azov (“Morte o Walhalla”), non era facile uscirne decorosamente (già era difficile uscirne vivi, per l’esattezza).
Così la resa è stata chiamata evacuazione, quasi che a prendere gli irriducibili dell’Azovstal fossero stati pullman ucraini o statunitensi e non mezzi russi. Non si è poi capito se tra i militari che si sono consegnati vi fossero, effettivamente, agenti Nato: quel che è certo, è che si è parlato immediatamente di scambio di prigionieri.
Anche perché, almeno per gli “ufficiali” del Battaglione Azov, non è da escludere una qualche forma di processo per i crimini di guerra commessi durante la guerra civile in Donbass, dal 2104 in poi.
Shismarin, il giovane sergente russo condannato all’ergastolo per l’uccisione di un civile, nel frattempo, è stato utilizzato dai media internazionale come “prova vivente” dei crimini commessi dai Russi in Ucraina. Che non vanno negati: ma di certo non confermati con la confessione “spontanea” di un prigioniero di guerra ventenne processato dal tribunale ordinario di uno Stato invaso ma pur sempre belligerante, a conflitto ancora apertamente in corso.
Guerra e propaganda: abbiamo un vincitore
Non c’è solo un vincitore, ma ben due in questa corsa. Il primo è certamente il titolista dell’editoriale (non firmato) de “Il Foglio”, con un memorabile “Il rublo forte significa che le sanzioni funzionano” (Il Foglio, 27 maggio 2022).
La tesi è che “Le sanzioni occidentali stanno facendo molto male all’economia russa, che quest’anno registrerà una recessione e un’inflazione a doppia cifra, e d’altronde se così non fosse non si spiegherebbe perché una delle prime richieste di Vladimir Putin nella chiamata di ieri con Mario Draghi sia stata quella di rimuovere le sanzioni in cambio di un impegno a risolvere la crisi alimentare globale (provocata proprio dalla Russia)” (Il Foglio, 27 maggio 2022).
Che le sanzioni occidentali siano state incisive è innegabile: che questo fatto debba essere messo in correlazione alla telefonata tra i presidenti Draghi e Putin nel modo in cui viene proposto dal quotidiano costituisce un doppio legame senza correlazione logica e prova fattuale.
Sembra, piuttosto, che si sia voluto “sminuire” l’impatto negativo, in termini di propaganda, di un dato di fatto verosimilmente imprevisto dagli analisti finanziari: ossia che il rublo è la moneta che si è rafforzata maggiormente nel 2022. In altri termini: se la Federazione Russa vince sul campo, almeno deve essere “distrutta” finanziariamente: il rublo forte nega questa seconda parte della narrativa.
Quindi un bel pezzo non firmato con un titolo click-bait aiuta a “raccontare” la vicenda in una diversa cornice, ritenuta certamente “positiva” dal titolista.
Il sito web Peacemaker
Il secondo vincitore è il sito web Peacemaker (sito che elenca i “nemici” dell’Ucraina) per l’inserimento, nella lista di proscrizione, di Henry Kissinger.
Former U.S. Secretary of State Henry Kissinger was listed on the #Ukrainian website “Peacemaker” as an “accomplice to crimes against #Ukraine“. pic.twitter.com/hXmeyRVHvz
— NEXTA (@nexta_tv) May 27, 2022
Quest’ultimo si è guadagnato l’inserimento in questo “albo d’oro” per aver detto, al Forum di Davos (il “Tempio” del capitalismo occidentale) che “l’Occidente deve influenzare l’Ucraina per riprendere i colloqui di pace con Mosca, anche se Kiev deve fare una serie di concessioni”. Da Segretario di Stato USA ad amico di Putin è un attimo.
Conclusioni
Censura e selezione dei contenuti sono concetti e prassi direttamente connessi tra loro. È difficile dire se sia preferibile una policy espressa, per quanto discutibile (Twitter e YouTube) o modalità operative legate ad algoritmi impenetrabili dall’esterno (verosimilmente Meta e Google). Nel frattempo, possiamo rimpiangere allegramente i periodi in cui a “fare audience” sui social erano i gattini.