La revisione delle procedure di reclutamento per l’accesso al pubblico impiego non è di certo un tema nuovo nell’agenda politico-istituzionale del nostro Paese.
Si parla della necessità di realizzare una “rivoluzione” del lavoro pubblico, come emblema di una nuova era della PA innovativa, da almeno un ventennio (e forse anche oltre), senza però poi di fatto intravedere i segni di una visione programmatica elaborata con una prospettiva di medio-lungo termine in grado di assicurare l’implementazione di una riforma organica in linea con i cambiamenti del mercato del lavoro e della società.
Si è ormai consolidata la “sindrome dell’anno zero”, come tecnica comunicativa che, in un clima patologico di “annuncite acuta”, evoca, mediante un’indefinita narrazione declinata al futuro, l’imminente avvio di un cambiamento epocale del settore pubblico prossimo a materializzarsi.
Un cambiamento volto a superare le criticità riscontrate e favorire la crescita sostenibile del tessuto socio-economico nazionale, anche grazie ad un indispensabile intervento di riduzione della disoccupazione realizzato di pari passo all’obiettivo prioritario della riqualificazione professionale dei lavoratori unitamente all’incremento dei salari riadeguati all’attuale costo della vita. Obiettivi enunciati sulla carta sistematicamente come priorità politiche, ma poi di fatto in sostanza vanificati.
Lo stato dell’occupazione nel settore pubblico
Per tale ragione, non sorprendono più di tanto i risultati resi noti in occasione della recente ricerca di FPA sul lavoro pubblico, che offre un’interessante panoramica generale sullo stato occupazionale del settore pubblico, rilevato in base al numero dei dipendenti in servizio presso le PA, tenuto conto dei nuovi ingressi frutto delle procedure di reclutamento indette nell’ultimo periodo per incrementare l’organico disponibile, al netto però delle oscillazioni in uscita amplificate anche dai pensionamenti del personale in quiescenza per raggiunti limiti di età conseguenti agli effetti applicativi di “Quota 100” e successive integrazioni.
L’assessment nei concorsi pubblici anche per le posizioni non dirigenziali: cos’è e come usarlo
L’atavica lentezza dei concorsi ordinari
Nonostante l’avvenuta immissione in servizio di oltre 15 mila professionisti specializzati selezionati mediante le procedure semplificate introdotte in regime di PNRR con incarichi conferiti a tempo determinato (a fronte di 160 mila candidature pervenute) per cercare di migliorare il processo di gestione delle relative risorse, la ricerca di FPA evidenzia la “lentezza” dei concorsi ordinari: tra il 2019 e il 2021, 30 su 55 sono quelli conclusi, con il risultato che soltanto 14,5 mila risultano i posti assegnati su 103 mila messi a bando e oltre 88 mila (in gran parte nella scuola) sono ancora vacanti.
Ci sono, inoltre, circa 416 mila persone inserite nella PA con contratti di lavoro flessibile (pari a 14 dipendenti con contratti a termine ogni 100 stabili), di cui il 70% è assorbito dal comparto Istruzione e ricerca, ove si collocano 292 mila precari.
Età media e competenze: i deficit della PA
Lo studio rileva la presenza attiva di 3,2 milioni di dipendenti pubblici (a fronte di oltre 3 milioni di pensionati), con un’età media di 50 anni, rispetto alla quota auspicata di 4 milioni con un’età media di 44 anni da raggiungere entro il 2028 (che richiederebbe l’assunzione organica di almeno 1,3 milioni di persone con età media di ingresso di 28 anni nei prossimi 6 anni), per colmare il divario esistente con le dotazioni organiche di altri Paesi (5,7 milioni sono i dipendenti pubblici censiti in Francia, 5,3 milioni nel Regno Unito e 5 milioni in Germania, secondo i dati riportati dallo studio).
Tale deficit anagrafico è ulteriormente aggravato da un riscontrato gap cognitivo, poiché sembra emergere un generale quadro di “competenze disallineate rispetto alle esigenze”, in presenza di un feedback giuridico-economico che caratterizza generalmente larga parte della quota dei dipendenti pubblici laureati (il 42,6%), spesso però ancora troppo burocratizzati nel “modus operandi” procedimentalizzato delle relative mansioni, anche a causa di una limitata formazione professionale maturata nel corso della carriera lavorativa (risultano spesi circa 40 euro l’anno a persona per l’aggiornamento periodico delle competenze).
Ancora pochi i laureati Stem nella PA
Sebbene sia formalmente cresciuto il numero dei laureati nella PA (+23,1%), i percorsi di studio sono, quindi, principalmente di tipo economico-giudiziario: la ricerca evidenzia al riguardo che il 13% degli occupati PA ha una laurea in giurisprudenza/scienze giuridiche/diritto/consulenza del lavoro o economia e solo il 5,6% in materie STEM.
L’acronimo STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) identifica i percorsi formativi multidisciplinari qualificati collegati alle nuove frontiere innovative del mercato del lavoro per fornire competenze specialistiche IT trasversali indispensabili nello svolgimento delle mansioni professionali attuali e future.
Anche il Referto sul sistema universitario 2021 approvato dalle Sezioni riunite della Corte dei conti, evidenzia lo scarso sviluppo di programmi di istruzione e formazione professionale in discipline STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) come criticità che incide negativamente sul tasso di occupazione, aggravando le “persistenti difficoltà di entrata nel mercato del lavoro”.
Competenze digitali, le sfide per PA e imprese: come superare gli squilibri
Dati in linea con il desolante quadro cognitivo digitale confermato dal DESI, secondo cui rispetto all’indicatore “Capitale umano”, in Italia solo il 42% delle persone di età compresa tra i 16 e i 74 anni possiede competenze digitali di base (56 % nell’UE) e solo il 22% dispone di competenze digitali superiori a quelle di base (31% nell’UE), mentre la percentuale di specialisti ICT è pari al 3,6% dell’occupazione totale (ancora al di sotto della media UE del 4,3%).
Sebbene, poi, sia formalmente aumentata la quota dei giovani adulti con una laurea – pur risultando comunque tale percentuale inferiore agli altri Paesi OCSE – nel contesto italiano – a differenza di quanto avviene altrove – ad avviso della Corte dei Conti, il solo “possesso della laurea non offre possibilità d’impiego maggiori rispetto a quelle di chi ha un livello di istruzione inferiore. E le limitate prospettive occupazionali, con adeguata remunerazione, spingono sempre più laureati a lasciare il Paese (+41,8% rispetto al 2013)”.
Le criticità dei percorsi didattici
In tale prospettiva, è fin troppo semplice – e oltremodo superficiale – evidenziare la cronica arretratezza dei percorsi didattici dei sistemi formativi come rilevante criticità che alimenta, sin dalle prime fasi di apprendimento, la proliferazione di una “classe dirigente” priva di un’adeguata riqualificazione professionale a causa di competenze astratte non spendibili nel mercato del lavoro, ove si manifesta la scarsa incidenza delle mansioni acquisite rispetto al fabbisogno occupazionale richiesto, vanificando così lunghi anni di studio.
Di certo, sembra non più rinviabile come priorità assoluta, la necessità di realizzare l’aggiornamento del sistema educativo delle scuole e delle università per assicurare, mediante la progettazione didattica e formativa delle principali figure professionali richieste nei prossimi anni, una riqualificazione della forza lavoro in linea con quanto descritto dal Report “The Future of Jobs 2018” pubblicato dal World Economic Forum, come punto di non ritorno della trasformazione occupazionale, anche in base a quanto teorizzato nell’ultima edizione del Report WEForum del 2020, secondo cui “nei prossimi 10 anni l’automazione cambierà il 50% dei posti di lavoro, mentre 9 lavori su 10 richiederanno competenze digitali […] 1,2 miliardi di dipendenti in tutto il mondo saranno interessati dall’adattamento delle tecnologie di automazione e dell’intelligenza artificiale” con il rischio di provocare la perdita di 800 milioni di posti di lavoro entro il 2030.
Tale circolo vizioso non si arresta di certo agli anni dello studio giovanile, poiché trova ulteriore terreno fertile proprio nel sistema concorsuale ordinario previsto per l’assunzione dei dipendenti pubblici.
La svolta delle procedure di reclutamento smart e le risorse del PNRR
Ad onore del vero, le ultime recenti procedure di reclutamento “smart” pianificate, sia pure in regime straordinario di emergenza pandemica, tutto sommato hanno inaugurato positive modalità organizzative (uso di tablet) e contenutistiche (test a risposta multipla), che possono rappresentare, al netto delle superabili criticità riscontrate, le coordinate iniziali per avviare un possibile percorso di innovazione digitale, perfezionabile ma senza dubbio incoraggiante rispetto al consueto approccio “ottocentesco” delle procedure di reclutamento. Il sistema tradizionale dei concorsi pubblici sembra, infatti, ispirato alla logica valutativa di elaborati sui massimi sistemi, redatti in forma cartacea, secondo la “liturgia” del giudizio finale espresso spesso a distanza di anni sulla base di metodologie generalmente obsolete che prevedono, come oggetto delle relative prove di esame, l’accertamento di contenuti nozionistici e di stampo teorico.
Alla luce delle ingenti risorse offerte dal PNRR, ulteriormente incrementate da azioni di intervento correlate, sarebbe, quindi, opportuno valutare la revisione generale e organica delle procedure di selezione per il reclutamento del personale dipendente presso le PA, valorizzando ad esempio, come titolo di preferenza assoluto, il possesso di competenze specialistiche ICT (collegate a tutte le branche del sapere classico: diritto, economia, ingegneria, informatica, scienze umanistiche, ecc.), praticamente oggi marginali nel giudizio di valutazione delle procedure concorsuali.
Ciò, infatti, consentirebbe di costituire dotazioni organiche qualificate, evitando che all’interno degli apparati amministrativi operi una ristretta “nicchia” di esperti specialisti ICT in una condizione attuale di irrilevanza operativa nella concreta possibilità di incidere sui processi di trasformazione digitale. Circostanza che è stata già da tempo formalizzata anche nell’indagine sullo stato di attuazione del Piano Triennale per l’Informatica compiuta dalla Corte dei Conti (risalente al 2020) secondo cui, in un contesto di generale ritardo cognitivo digitale, testimoniato dal fatto che “le richieste di assistenza alla compilazione del questionario hanno rivelato, spesso, una conoscenza molto elementare, o in diversi casi addirittura assente, delle modalità di funzionamento dei principali sistemi tecnologici per la digitalizzazione dei servizi”.
Sussistono poi, evidenzia ancora l’indagine, “carenze e inadeguatezze sia nei criteri di selezione della figura istituzionalmente preposta a guidare i processi di digitalizzazione nella PA […] sia nel campo della formazione delle risorse umane nelle tecnologie dell’informazione”. Pur essendo centrale per l’attuazione di processi innovativi della PA, infatti, “a livello nazionale, il Responsabile per la transizione al digitale è nominato solo dal 36,7% delle Amministrazioni territoriali, con una percentuale superiore per gli enti di maggiori dimensioni”.
Cosa ancor più grave, a prescindere dall’adempimento formale previsto, nel merito delle nomine conferite anche ove esistenti, nel 67,9% dei casi, “il Responsabile per la transizione al digitale è privo di competenze specifiche nel campo IT […] soprattutto negli enti di minori dimensioni: oltre il 70% degli enti che hanno effettuato la nomina ha individuato un soggetto che non detiene specifiche competenze”.
Conclusioni
In un momento storico decisivo per fare il definitivo salto di qualità tecnologico, superando lo stallo digitale che da anni paralizza le concrete prospettive di crescita del Paese, è indispensabile non sprecare la preziosa opportunità di rigenerazione generale della PA, in un clima di pacificazione generale ispirato alla logica sinergica del “fare rete”, al fine di realizzare efficaci processi di innovazione della PA, per migliorare la qualità dei servizi pubblici, mediante l’immissione in servizio di esperti specialisti ICT in grado di progettare efficaci azioni di trasformazione digitale, ben oltre la narrazione – sempre più precaria – sul mito dell’intramontabile “posto fisso” come rassicurante prospettiva di stabilità economica ancorata alla certezza lavorativa di una mansione svolta a tempo indeterminato anche se priva di incidenza pratica. Occorre un deciso cambio di paradigma per ridare linfa al pubblico impiego, declinato come prestazione innovativa al servizio del Paese, contribuendo allo sviluppo sociale con modalità efficienti e performanti di lavoro.
Si tratta di una sfida necessaria da affrontare, anche perché, come rilevato da alcuni recenti studi, senza un’adeguata riqualificazione professionale pianificata mediante una visione progettuale lungimirante, il perfezionamento evolutivo delle tecnologie emergenti (come l’IA) potrebbe presto mettere a rischio persino la sopravvivenza delle tradizionali prestazioni intellettuali più qualificate e maggiormente remunerate, come conseguenza della cosiddetta “automazione dei processi robotici” in grado di sostituire anche gli attuali lavoratori qualificati (colletti bianchi) duramente colpiti a causa della mancata attuazione di strategie operative progettate a lungo termine per realizzare un’organica revisione dei programmi formativi in stretta connessione con interventi mirati di sostegno al potenziamento del settore ICT.