Il suono può aiutare a strutturare una mostra o un museo in modo molto più sottile, aggiungere uno strato di significato che può essere letterale o astratto ma, cosa importante, che può essere inteso anche da chi non intende la lingua o che non può riconoscere il significato dell’opera utilizzando il solo strumento visivo o per impossibilità di potere vedere e cioè per il cieco.
Il nuovo ruolo dei musei dopo la pandemia: oasi del reale nel mondo digitale
Il canale sonoro può diventare quindi una possibilità per fare parlare il museo con una modalità differente, con un linguaggio che veicola una informazione non necessariamente letterale ma anche solo emozionale.
Eppure, se c’è un tema non proprio semplice che riguarda il museo è rappresentato proprio dalla dimensione sonora.
Al museo, infatti, non si tocca ma è anche gradito il silenzio: delle persone ma anche dei suoi spazi. Le sale sono silenziose e i nostri corpi che attraversano lo spazio cercano di adeguarsi non producendo alcun rumore. Si parla sottovoce o si cerca di rimandare i confronti per il dopo.
Fortunatamente non è sempre così.
Ci sono casi in cui è possibile sentire musei che hanno anche il suono tra le loro modalità per fare arrivare i contenuti, che sono dotati di suoni che aiutano la comprensione delle sale, dei temi legati agli oggetti esposti.
Codici, alfabeti, linguaggi del museo
Ricordiamolo: il museo non è solo un contenitore di oggetti ma è un grande palinsesto di testi depositati di varia natura che si affiancano gli uni agli altri, di natura visiva, pittorica o scultorea, epigrafica, libraria ecc. Usano codici, alfabeti, linguaggi e lingue differenti all’interno di una dimensione multimodale che mirano alla comprensione dei contenuti. Fanno parte non solo ma sicuramente ampiamente della volontà comunicativa del museo, del voler farsi comprendere
Il museo è prima di tutto materia, una materia organizzata che si fa riconoscere come opera d’arte, reperto, installazione (materiale e/o video), ambiente d’artista collocata nello spazio, lo spazio della quale l’opera ha bisogno per poter avere riconosciuto il proprio senso, la propria narrazione.
Questa materia quasi sempre non si presenta per essere toccata ma solo guardata. Sono rarissimi i casi nei quali la mano può sfiorare un’oggetto esposto per poterne conoscere la superficie, la texture tattile, la forma, la convessità e la concavità, il sottosquadro. Per tacer del piccolo rumore che fa un bronzo se lo batto con un leggerissimo colpo con la nocca, come fa il cieco, per conoscere se è pieno o vuoto, per conoscerne la consistenza.
Il solo linguaggio compreso e accettato universalmente è di natura visiva.
Così possiamo leggere con il corpo dotato di occhi le opere, le indicazioni, le introduzioni, il percorso che quasi sempre è lineare, dalla A alla Z dei contenuti.
Anche il percorso è metafora dell’alfabeto con il quale sono scritte le informazioni: quasi sempre in forma lineare, sequenziale.
Il percorso ha una attitudine pedagogica chiara: non si torna indietro, specie dopo il covid. Impossibile fare confronti con qualcosa che si è visto prima, impossibile tornare indietro.
La modalità visiva è definibile come una modalità sintetica, istantanea, a distanza, comprende l’oggetto e il suo ambiente intorno ma esclude il nostro corpo in quanto esclude il contatto fisico, proprio della modalità tattile. Quella tattile è analitica, sequenziale, a contatto e limitata dalle possibilità del nostro corpo, dalla sua possibilità di raggiungere gli spazi, le altezze, arrivare a toccare. Si misura quindi con le possibilità del nostro corpo di entrare in relazione interattiva con il proprio ambiente attraverso i confini tattili e aptici: toccare e muoversi con tutto il corpo nell’ambiente, intorno alle cose, sulle cose.
Suono e museo: audioguide
Qual è invece la modalità acustica di visitare un museo?
Come la visione legata alla vista è sintetica, immersiva, istantanea e a distanza. Riporta una dimensione di oralità quando è usata per raccontare i contenuti del museo e genera un ambiente emotivo se veicola una musica. In mezzo tutta la dimensione sonora che evoca rumori che giocoforza, insieme al resto, va a fondersi con i rumori delle persone, della sala e della città che ci sta intorno o della campagna.
I musei, quasi tutti, hanno in realtà una loro dimensione sonora che si consuma in privato, all’interno delle proprie cuffiette per ascoltare l’audioguida che viene offerta gratuitamente o a pagamento per accompagnare l’esperienza di visita.
Sono prodotti di qualità che spesso non dialogano con lo spazio, sviluppate non in continuità con chi ha curato l’allestimento e quindi non spesso dialogano con l’ambiente che è stato creato per quel museo, per quella mostra.
Portano l’informazione, la sola traccia audio.
Ascoltandole in cuffia non permettono alle persone di parlarsi tra loro in quanto prese da un ascolto isolato. Piuttosto diventano la parte audio di quella che è la visione visiva “senza corpo” della quale si è parlato prima.
Questo genera un problema di orientamento e mobilità al non vedente in quanto esclude i riverberi, i rumori che arrivano dalle altre sale che gli permettono di orientarsi.
Le audioguide sono un testo che attraversa la mostra che conducono chi le ascolta non alla sola comprensione ma sono trasportate in un racconto che può anche dare suggerimenti emotivi come, ad esempio, l’audioguida che si scarica con qr-code alla mostra Crazy attualmente in corso al Chiostro del Bramante, una interessante mostra curata da Danilo Eccher, la terza della serie che interroga la nostra contemporaneità attraverso delle installazioni spesso interattive. È un racconto molto ben fatto che prende l’ascoltatore per mano, lo affabula. Quasi lo porta fuori dal corpo, distraendolo dal voler toccare l’immaginifico mondo nel quale siamo immersi.
Suono e museo: suono aumentativo
Altra cosa però è un ambiente museale che crede nel suono per aggiungere una nuova dimensione a una mostra che va oltre la trasmissione di informazioni. Una dimensione aumentativa, che usa la tecnologia per aumentare la qualità della nostra esperienza. O ancora meglio che non usa l’oralità dell’informazione per fare arrivare il senso dell’opera ma costruisce intorno all’esperienza museale e alle opere una dimensione sonora che può sviluppare un messaggio differente, più diretto, che non richiede la conoscenza di alcuna lingua parlata e quindi un messaggio universale.
Mi riferisco alla possibilità del suono che, se ben progettato come esperienza, permette al visitatore di arricchire il proprio vissuto guidandolo anche nel riconoscimento e nella gestione delle emozioni, dei comportamenti e degli atteggiamenti da assumere in relazione all’opera d’arte, allo spazio. Ci può mettere anche in relazione all’altro o altra che è lì con noi e che sta ascoltando nello stesso momento lo stesso segnale audio: è un ascolto collettivo, una immersione all’interno di un suono che è lì per tutti.
Contenuto
Si potrà obiettare che il suono non è ascoltabile dal sordo. Se questo fosse il motivo per non avere i suoni al museo allora si dovrebbero togliere insieme ai gradini anche la dimensione visiva e quindi spegnere le luci per tutti. Ma il museo, come luogo dove si misura la civiltà di una comunità è anche il luogo delle differenti possibilità. Nessuno di noi può prescindere dall’essere vedente e/o udente di fronte anche al cieco e al sordo. Ma non può prescindere che davanti a lui c’è una persona differente, con bisogni differenti. E qui non parlo di tutti i modi di rendere l’oralità e il suono presenti a partire dalla LIS o da altri sistemi anche visivi e acustici diversi temi. Importante sempre è che ci sia una regia consapevole che normalmente si schiera dietro a un documento che si chiama progetto.
Quale ruolo per il suono?
Il suono è spesso trascurato nella nostra vita e ha sempre avuto un valore di mascheramento, è usato per distrarci da qualcosa che non dobbiamo sentire.
Così nasce la musica nei supermercati: mascherare il suono delle casse, allontanare da noi la possibilità di pensare al momento nel quale dovremo pagare. Oppure farci attendere quindici minuti in fila presentandoci una playlist da Spotify. Il suono in questo caso riempie il vuoto per permetterci di non distrarci dalla volontà di acquisto, di non farci lasciare il campo e quindi non perdere l’acquisto/vendita. Questo è anche il senso della musica soffusa che “fa ambiente” nei ristoranti.
I suoni dei quali parlo sono invece suoni che non hanno il compito di mascherare ma che hanno il compito di aggiungere un codice condiviso in ambiente, che deve dialogare con qualsiasi altro componente del museo.
Ha il compito di fare emergere in chi guarda una attenzione verso qualcosa. Sono suoni che entrano in campo, nel campo dell’opera d’arte prima ancora che nel campo visivo dell’opera.
Come progettisti, come curatori e come direttori museali è più facile pensare a un colore di un muro sul quale si appoggia un’opera che a un suono. Siamo molto più in imbarazzo quando dobbiamo pensare a un suono per un allestimento. La sua eccezionalità richiede più attenzione.
Una pittura e un muro hanno visivamente la stessa qualità: sono superfici materiche colorate. Hanno una texture propria che può facilmente essere messa in relazione. Altra cosa è il suono perché si porta dietro l’interpretazione. Per questo aggiungere il suono non è semplice.
Interpretazione
Quindi aggiungere un suono non significa necessariamente costruire una playlist su Spotify da ascoltare mentre si attraversano gli spazi. È una delle possibilità. Un esempio: per la sua mostra Displaced alla Fondazione MAST di Bologna, Richard Mosse con i suoi curatori costruisce una playlist di 14 brani che è ancora presente. È un modo per un museo, una mostra di fare parlare di sé, di mettere in relazione la propria ricerca con un pianeta che è sempre più condiviso (nonostante continui a nutrire e ad alimentare una grande passione per la distruzione).
Il suono di cui però mi interessa parlare è un altro e comporta studio e interrogazione della collezione, dei suoi contenuti e della biografia di ciascun oggetto. Cosa possono dirci dal punto di vista sonoro?
Penso ad esempio al lavoro di Maurizio Bettini sull’antropologia sonora del mondo antico.
Dalla presentazione del volume: “La nostra vita è immersa nei suoni. Clacson di automobili, squilli di cellulari, un’infinità di rumori e voci umane della cui esistenza non ci accorgiamo neppure più. La nostra vita si svolge all’interno di una vera e propria fonosfera. Ma qual era la fonosfera degli antichi?”
Questa è la domanda.
Costruire un suono comporta il confronto con etnomusicologi, con storici, archeologi, filologi persone che studiano l’argomento del quale si vuole costruire un’esperienza sonora. Immaginare il suono della Roma antica non è solo una sommatoria di suoni delle testimonianze che ci sono arrivate dall’archeologia ma anche una interpretazione di come ci si viveva al suo interno, ricostruire la relazione tra le parti e tra le persone.
Pensiamo a quanto suono può suggerire la visione della colonna Traiana. Quindi, dare suono a una collezione è un atto critico non di intrattenimento.
La paura del suono come elemento di distrazione
Una paura ricorrente tra questi soggetti sembra essere che il suono possa opprimere o distrarre il pubblico dagli altri media esposti (gli oggetti, le immagini, i testi già elencati).
Ma escludere il suono significa rinunciare a un intero strato di percezione che può aggiungere molto a una mostra, se adeguatamente progettata e tenuta in equilibrio con gli altri elementi contenutistici e l’allestimento.
Forse lì sta la questione: la possibilità che il suono costruito intorno all’opera possa cambiare la natura dell’opera. Quando il suono non è portato e compreso nell’opera è comunque visto, o meglio sentito, come qualcosa che aggiunge significato. Sicuramente il suono guida, cambia l’esperienza di visita.
Se non previsto dall’artista genera un suono che non solo potrebbe distrarre ma potrebbe spostare troppo verso l’intrattenimento l’esperienza museale. Il suono è un linguaggio potente ed è sicuramente più antico della scrittura che ha una storia molto recente nell’evoluzione umana.
Chi si occupa di arte contemporanea, chi le studia e le racconta sulle riviste, sa che è diffuso un modo di dire sul suono prodotti dalle installazioni d’arte contemporanea. “Suona come arte contemporanea”. Attraversando la Biennale di Venezia in corso non è raro incrociare suoni in bassa frequenza con dei glitch sonori, dei disturbi, che sono caratteristici. Penso al Padiglione della Corea ai giardini della Biennale di Venezia, ma anche ad altre installazioni presenti lungo il percorso della Biennale di quest’anno, il “Latte dei Sogni”.
Audiovisione e acusmatica
Ma è proprio questo tema dell’audiovisione caro a Michel Chion (così titola un suo importante testo sul cinema) che si può fare passare attraverso l’acusmatica. Si tratta di ciò che accade al cinema: il suono fuori campo, che evoca contenuti che non vediamo. Un suono diventa il personaggio che agisce e che genera la comprensione di quell’opera d’arte, di quella installazione. Richiama i temi dell’apprendimento.
In questo caso mostriamo come attraverso i suoni, ci educhiamo non solo all’attenzione ma apprendiamo comportamenti grazie alle facilitazioni che il suono ci offre. Suoni leggeri, minimali che non devono sopraffare l’opera, il suo senso e non devono indebolire il ruolo dell’istituzione museale.
Deve esserci una connessione tematica diretta tra il paesaggio sonoro e gli oggetti in mostra. I suoni entrano in campo per aiutare la comprensione dell’opera. Non la sostituiscono.
Per evitare di distrarre e sopraffare i visitatori, sono preferibili paesaggi sonori più sottili con suoni molto mirati per le diverse aree di ciascuna sala espositiva. In alcuni casi si tratta di elementi minimalisti utilizzati per combinarsi, per creare il panorama sonoro globale del museo.
Se progettato in questo modo, un paesaggio sonoro museale può sembrare un cammino, un viaggio che cambia dinamicamente in base al percorso del visitatore attraverso la mostra.
I suoni precedenti diventano impercettibili mentre il visitatore procede attraverso la sala espositiva successiva. Procedendo si fondono gli elementi.
L’esempio della mostra Amazonia di Salgado
Per chi fosse andato a vedere la mostra Amazonia di Sebastiano Salgado si ricorderà un caso opposto: la musica di Jean Michel Jarre ricorda suoi precedenti lavori. Per nulla minimale: come un concerto per fotografie sonore. I linguaggi della foresta, un linguaggio globale della natura che parla i suoni amerindi. Una colonna sonora che ha dialogato alla perfezione nello spazio espositivo e che dava un senso anche alla grande quantità di persone presenti.
Tutte le parti dovrebbero lavorare insieme, ogni elemento aggiunge un aspetto unico all’esperienza di visita che è sì intrattenimento ma anche una esperienza educativa. La composizione sonora è costruita con strumenti diversi per creare il pezzo nel suo insieme: elementi fisici ed elementi concettuali, elementi casuali ed elementi noti.
Il suono, quando presente, si fonde con i suoni del pubblico, li contiene.
Il sogno degli oggetti
Un istante di autopromozione. Per il Museo Omero, per la Collezione Design del Museo Omero, con Paolo Ferrario abbiamo dato il nostro contributo al tema. Gli oggetti ci raccontano dei suoni che testimoniano la vita che hanno vissuto tra noi.
Stiamo parlando di oggetti di Design collocati all’interno di un museo tattile, il museo nazionale pensato e voluto da Aldo Grassini e da Daniela Bottegoni per il cieco che guarda con le mani.
In questa collezione abbiamo introdotto i suoni per portare dei contenuti sonori che non riproducono i suoni degli oggetti in modo didascalico ma creano un racconto che risponde alla domanda: “cosa possono avere ascoltato in vita loro gli oggetti?” Se è vero che le nostre cose sono la dimensione estesa del concetto di famiglia, allora anche gli oggetti partecipano emotivamente alla nostra vita. Cosa potrebbero aver sognato, cosa possono sognare le cose di noi?
Il suono è ascoltabile in ambiente quando ci si avvicina all’oggetto e un sensore digitale lo stimola.
Variare la performance sonora con la composizione additiva
Attraverso il metodo additivo tipo della composizione elettronica per i videogiochi è possibile rendere la dimensione sonora ancora più potente.
Abbiamo scritto due cose: che il museo ha un percorso che è lineare e che il suono ha un duplice compito: aiutarci nella comprensione dell’ambiente, che ci porta nel luogo e nel tempo dell’opera e allo stesso tempo ci fa provare emozioni. Ma importante sarebbe che ciò accadesse quando serve: ad esempio quando sono davanti all’opera o nei pressi dell’opera.
La composizione additiva si occupa di questo: variare la performance sonora secondo uno schema compositivo che non si sviluppa solo linearmente ma che comprende variazioni al suo interno. Questo grazie a sensori, a trigger, interruttori, che agiscono in maniera interattiva con il comportamento del pubblico. È così possibile far sì che la diffusione del suono risponda alla nostra presenza e al nostro comportamento, si espanda, si modifichi, cambi ritmo in relazione a come ci muoviamo, a quanti contemporaneamente siamo presenti.
Conclusioni
La sfida principale è la più ovvia: trovare o progettare il contenuto, ovvero i suoni specifici che costituiscono il paesaggio sonoro del museo che non tradiscano tutela, conservazione e ricerca intorno all’opera. Deve quindi valorizzare l’esperienza dell’oggetto senza indebolire il museo come istituzione.
I suoni sono un vero testo che ha origine dallo studio della collezione, dalla sua interrogazione, non un semplice tappeto astratto.
Perché quindi usare il suono? Non è solo l’intenzione di aggiungere emozione ed eccitazione, di trasportare il pubblico in un luogo o in un momento specifico (usando registrazioni sul campo, ad esempio). Ma c’è la volontà di creare occasioni per includere più pubblici, di usare un canale che è in noi attivo sempre in quanto non lo controlliamo se non chiudendoci le orecchie.
E come già detto, non potrà essere la sordità di una parte di pubblico a chiederci di non usarli. Così come non mettiamo al buio tutti i musei per rispetto di chi è cieco. Semmai il rispetto si misura nella possibilità per una persona di avere molti canali per godere di una visita al museo che può avere più scopi: ricerca, studio, educazione, conoscenza, piacere, desiderio e intrattenimento. Tutte sfumature di un abitare il museo che testimoniano la nostra qualità di esseri umani che apprendono con le loro menti assorbenti immerse nell’ambiente.