L’enorme diffusione sul web delle forme di comunicazione che coinvolgono gli utenti come produttori di contenuti e, più in generale, l’evoluzione di Internet verso forme sempre più accentuate di interattività (di cui i social network sono la manifestazione più eclatante), non lanciano sfide solo agli operatori della comunicazione digitale e ai sociologi, ma anche ai giuristi, in particolare nei settori della proprietà intellettuale e della concorrenza.
La situazione che stiamo vivendo ricorda per molti versi quella che si era posta all’avvento della rete “di massa” e suscita riflessioni giuridiche “già viste”, a cominciare dall’idea che si tratti di una “nuova frontiera” non ancora raggiunta dal diritto, se non in parte (ed essenzialmente sotto il profilo contrattuale), dunque un’area di almeno potenziale “libertà assoluta”, compresa la libertà di calpestare i diritti altrui.
Ed infatti anche qui si reclamano, da una parte e dall’altra, o nuovi interventi normativi “speciali” per disciplinare questi campi d’azione o, viceversa, si pretende che la normazione non li raggiunga, sul presupposto, comune alle due posizioni, che, oggi, si viva una situazione di vuoto legislativo.
Proprio l’esperienza fatta in occasione delle “prime ondate” di Internet dovrebbe invece renderci avvertiti del fatto che in realtà è vero esattamente il contrario, ossia che non esistono spazi di impunità.
La rete, proprio perché attraversa le frontiere, non solo non è un mondo “senza legge”, ma anzi è un campo sul quale possono concorrere più legislazioni (e più giurisdizioni), ciascuna con i propri divieti – e i diritti in essa riconosciuti – da rispettare.
Dunque, un campo con un carico di responsabilità potenzialmente molto più esteso: il che impone una duplice vigilanza, da parte dei titolari dei diritti, per difendersi dalle violazioni, e da parte dei potenziali autori delle violazioni, per evitare di incorrere in responsabilità, e prima ancora richiede la consapevolezza dei rischi e delle opportunità che le attività svolte nella rete, e in particolare in questo suo nuovo campo d’azione, comporta.
Influencer e scelte d’acquisto: i temi in gioco
Con specifico riguardo ai temi della proprietà intellettuale e della concorrenza, che qui più da vicino ci interessano, la prima consapevolezza da acquisire è quella della nozione di uso nell’attività economica, che non è di per sé escluso dalla natura non professionale e quindi non imprenditoriale in senso stretto di questa attività.
Il ruolo rilevantissimo sulle scelte di acquisto dei consumatori che svolgono oggi influencer e trend setter, così come la diffusione di fake news che possono inquinare non solo la vita politica, ma anche il corretto svolgimento della concorrenza sul mercato, si configurano infatti come attività economiche a tutti gli effetti, anche quando vengono poste in essere da soggetti non imprenditori.
Soggetti che cercano di promuovere sé stessi come potenziali veicoli di pubblicità, positiva e negativa, dato che la natura pubblicitaria di qualsiasi comunicazione destinata alla diffusione dipende semplicemente dalla sua finalità promozionale, da valutare, tra l’altro, sul piano oggettivo degli effetti, e ricorrendo anche ad elementi presuntivi, nell’accertamento dell’esistenza di essa e del relativo rapporto di committenza.
Promozione non è soltanto quella che si riferisce a prodotti, ma anche quella che concerne i servizi, per i quali, parimenti, è necessario accogliere una nozione ampia, che tenga conto dell’evoluzione della società e dei suoi bisogni, compreso quello, sempre più impellente, di appartenenza a un gruppo.
Il tema della trasparenza nella pubblicità è basilare, proprio perché solo la riconoscibilità come pubblicitaria di una comunicazione permette al soggetto che la percepisce di inquadrarla e valutarla correttamente, senza farsene influenzare indebitamente.
E questo tema assume una pregnanza del tutto speciale rispetto ai nuovi mezzi di comunicazione, e in particolare alle comunicazioni interattive, dove, come si diceva, è labile sino a sparire il confine tra autore ed utente ed anche quello tra fornitore e fruitore di un servizio, tra soggetto che pubblicizza e soggetto (oggetto) che viene pubblicizzato.
Servizi pubblicitari mirati: cosa è illecito anche sui social media
Il tema non è naturalmente quello di verificare se i segni distintivi usati per contraddistinguere questi nuovi servizi sono a loro volta tutelati: qui la risposta è scontatamente positiva.
Infatti, è parimenti scontato che distintivi non sono solo gli elementi denominativi di essi, ed anzitutto il nome dell’Influencer, reso tutelabile anche ai sensi dell’art. 8, comma 3° Codice della Proprietà Industriale, quando sia divenuto notorio, anche in ambito extracommerciale, ma anche le composizioni grafiche, le interfacce e persino le transizioni video.
Purché siano percepite come distintive di un determinato social media o di una determinata pagina social usata nell’attività economica ed ovviamente non siano imposte dalla loro stessa natura, necessarie per conseguire un risultato tecnico o tali da conferire un valore sostanziale al “prodotto” (o meglio: al servizio) cui accedono, secondo le regole ordinarie. Il criterio discriminante è appunto quello della percezione del pubblico.
Neppure può dirsi che presentino peculiarità giuridiche legate a questi nuovi mezzi le forme di servizi pubblicitari mirati, collocati in base al comportamento del navigatore, oppure in base all’inerenza col contenuto del sito visitato.
Infatti, queste forme non si configurano in modo diverso per il fatto che venga preso in considerazione il posizionamento mirato dei banner pubblicitari su un sito Internet visitato o nella pagina di un motore di ricerca, oppure l’inserimento nei social network, sempre in modo “mirato”, di banner e link che fanno riferimento ai contenuti inseriti o visionati dall’utente nel corso del suo uso del social media.
In entrambi i casi, infatti, ciò che rende illecita la pubblicità è l’utilizzo dei riferimenti ad un marchio famoso – perché cercato dall’utente o presente, legittimamente, nei materiali da lui visitati o caricati – con pubblicità e link a siti di terzi che invece a quel marchio sono totalmente estranei. Il che presuppone necessariamente un’analisi magari automatizzata (e oggi frequentemente realizzata mediante l’intelligenza artificiale), ma comunque mirata e quindi un controllo dei contenuti, per effettuare l’abbinamento al marchio altrui.
Tutto ciò espone a responsabilità non solo l’inserzionista, ma anche il soggetto che gli ha messo a disposizione le informazioni sulla navigazione o sulla condotta interattiva dell’utente.
L’intermediario, o il gestore delle piattaforme social, non può infatti trincerarsi dietro il carattere “automatico” dei meccanismi attraverso cui il servizio opera. Infatti, questi meccanismi sono stati da lui stesso predisposti e già questa predisposizione, se idonea a creare collegamenti abusivi, non può non qualificarsi quanto meno come una forma di contributory infringement non diversa, nella sostanza, dall’ipotesi in cui il gestore di un sito internet organizzava “per mezzo di un motore di ricerca o con delle liste indicizzate” le informazioni (fornitegli da alcuni utenti) essenziali perché gli (altri) utenti potessero “orientarsi chiedendo il downloading di quell’opera piuttosto che un’altra”.
Un’ipotesi ritenuta illecita, anche penalmente, dalla stessa Corte di legittimità, relativamente ad un noto caso di download illegale di opere protette dal diritto d’autore per mezzo di un sistema c.d. peer to peer.
Le conseguenze giuridiche dell’interattività della rete
Tutto questo non cambia sostanzialmente, se non nelle forme in cui il fenomeno si realizza in concreto, a seconda che ci muoviamo nel web tradizionale o nei nuovi media interattivi.
Ciò che rende necessaria una riflessione ulteriore sono invece le conseguenze giuridiche che si ricollegano proprio all’interattività sulla rete, che caratterizza i social media e più in generale il nuovo web: in particolare è il peso che a questo nuovo ruolo va attribuito, al fine di qualificare chi lo svolge come vero e proprio operatore economico, soggetto dunque alle regole della concorrenza e al rispetto dei diritti esclusivi sugli altrui segni distintivi, diritti che possono venire lesi solo da un uso nell’attività economica, ma, come abbiamo visto, non necessariamente imprenditoriale.
In realtà, anche questo nuovo fenomeno non rappresenta una totale discontinuità rispetto alla realtà economica più tradizionale. Il mercato, infatti, è interazione per definizione e il comportamento economico dei consumatori è da sempre decisivo per il successo o l’insuccesso di un prodotto o di un servizio: dall’effetto del passaparola ai fenomeni imitativi innescati dall’esibizione di prodotti, specialmente – ma non solo – da parte di personaggi pubblici.
Ed anche in questo caso non esiste mai una neutralità assoluta, perché l’uso e l’ostensione di prodotti a marchio, si tratti della borsa Kelly di Hermes, di una cravatta Marinella, di una penna di Montblanc o di un’automobile sportiva, rappresenta anche per il consumatore “comune” un vero e proprio investimento in reputation capital.
Dunque, tra l’utente di un social media che promuove se stesso attraverso immagini che lo ritraggono mentre indossa un capo di tendenza o frequenta un locale alla moda e gli stessi comportamenti tenuti nella vita reale non vi è, almeno apparentemente, che una differenza di ordine quantitativo, legata alle potenzialità dei nuovi media ed al peso crescente che essi assumono nella nostra vita.
Una vita sempre più “sdoppiata” tra il tempo ordinario, nel quale si compiono, magari anche mediante la rete, le attività consuete del lavoro, della famiglia e degli svaghi, e una dimensione social, nella quale l’apparire, più ancora che il comunicare, diventa imperativo categorico e dunque i prodotti in cui l’apparire si manifesta, e con essi i marchi che vi sono apposti o che consistono nello stesso aspetto esteriore dei prodotti, ne costituiscono il principale veicolo.
Correlativamente anche i commenti, positivi e negativi, espliciti o velati, sui prodotti e servizi e sulle imprese da cui essi provengono, assumono sulla rete una capacità di diffusione, come si è soliti dire, virale, foriera di effetti talvolta incontrollabili.
In questa dimensione il discrimine tra uso pubblicitario e libera espressione del pensiero diviene particolarmente delicato, specialmente quando il soggetto che diffonde il contenuto pregiudizievole di un diritto altrui si trova in questa sorta di terra di nessuno che separa il semplice blogger disinteressato dall’influencer o aspirante tale, che agisce per promuovere un operatore economico esterno o anche sé stesso, in quanto potenziale veicolo di pubblicità.
Gli interventi delle authorities sulla trasparenza nella pubblicità social
Non stupisce quindi che di fronte a questi fenomeni abbia ritenuto di intervenire, pur con estrema prudenza e anzitutto con due successivi interventi di moral suasion, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, a garanzia della trasparenza della pubblicità.
Già nel luglio 2017 e poi di nuovo nell’agosto 2018 l’Autorità ha chiesto ai soggetti che effettuano sui social media attività aventi finalità promozionale e ai titolari dei marchi che si rivolgono allo stesso scopo a blogger e influencer di segnalarlo con apposite indicazioni idonee a rendere evidente a chi riceve il messaggio il carattere pubblicitario di esso.
È anzi significativo che il secondo intervento si sia rivolto a una platea più vasta, comprendente anche influencer con un numero di followers più limitato ma comunque abbastanza significativo sul mercato, ed abbia sottolineato come nell’attuale contesto economico il mero posizionamento sull’immagine di un tag o di un’etichetta che rinviano ad esempio al profilo Instagram o al sito web del titolare del marchio non è sufficiente a rendere evidente a tutti i consumatori il carattere promozionale di essa, e dunque si richiede loro l’adozione di mezzi ulteriori di evidenziazione di questo carattere.
Su questo stesso tema è intervenuto anche il Giurì dell’Autodisciplina Pubblicitaria, sanzionando appunto come pubblicità nascosta l’inserimento nelle pagine Instagram di persone famose di fotografie e di video in cui comparivano prodotti di marca in funzione promozionale, senza che tale funzione fosse evidenziata in modo adeguato.
E sempre l’Istituto per l’Autodisciplina Pubblicitaria, già dal 2016, nel contesto della sua Digital Chart, ha cercato di tracciare le linee di un codice di condotta che celebrities, influencer e blogger o vlogger in genere dovrebbero seguire per indicare al pubblico l’esistenza di un rapporto di committenza nel loro uso ostensivo di prodotti di marca. Sono presenti prescrizioni, anche se meno stringenti, sulle linee da seguire soltanto per evidenziare che il prodotto (o il servizio) è stato fornito loro gratuitamente, anche qui evidentemente con un’implicita finalità promozionale da parte del produttore/prestatore, o configura nell’ambito di un video un caso di product placement o di autopromozione di prodotti o servizi del vlogger.
Allo stesso modo, l’autorità ha indicato l’esigenza di segnalare quando si è in presenza di forme di native advertisement, ossia quando la pubblicità è, per così dire, “diluita” facendola emergere da un contesto analogo a quello consueto della comunicazione presente in una piattaforma e rendendola sostanzialmente indistinguibile dai contenuti non promozionali, e dunque ancora una volta non trasparente.
L’art. 7 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, che sancisce il principio di trasparenza e riconoscibilità della comunicazione commerciale, si deve infatti ritenere integrato dai principi contenuti nel Regolamento Digital Chart emesso dallo IAP nel 2016, le cui prescrizioni peraltro dovrebbero essere interpretate (cosa che non di rado il Giurì dimentica) tenendo conto dell’evoluzione del pubblico degli influencer, che pur in pochi anni, è stata sicuramente rilevantissima.
Nel 2016, infatti, quello degli influencer era un fenomeno sostanzialmente nuovo, che incontrava un pubblico non preparato alla forma di comunicazione, anche pubblicitaria di prodotti, che questi proponevano, e sicuramente più ingenuo.
Al contrario, al giorno d’oggi, il consumatore sa benissimo “a che gioco si sta giocando” e come operano gli influencer, e che per questo loro ruolo sociale i grandi marchi talvolta ingaggiano (come i testimonial degli spot televisivi), commissionando loro di far pubblicità al prodotto su Instagram, oppure “omaggiano” con prodotti in regalo, sicuramente sperando (e il consumatore lo sa) che questi siano di loro gradimento e che, quindi, essi decidano spontaneamente di dar loro evidenza nelle cronache sulla loro vita condivise con il pubblico.
Al riguardo viene in considerazione anche il Codice Etico DCC per i digital content creator – applicabile per analogia anche agli influencer – creato dall’associazione Instagramers Italia, che rappresenta e tutela a livello nazionale gli appassionati e i professionisti specializzati nella produzione di contenuti digitali e che ha indicato una specifica modalità per la divulgazione di tutti i post sponsorizzati, tramite cui un influencer può “taggare” la partnership nella parte superiore del post (dove si trova in genere il tag di posizione).
Autopromozione degli influencer e uso dei marchi altrui nella comunicazione
Questi ultimi fenomeni introducono un tema che richiede una riflessione supplementare: come già si accennava, infatti, il primo servizio che il vlogger intende promuovere è il suo stesso proporsi come aspirante influencer o trend setter, convogliando su di sé l’attenzione del pubblico, in modo da diventare “appetibile” per i soggetti che intendano realizzare pubblicità, ma anche per quelli che intendano evitare pubblicità negativa.
E se in questo caso è difficile parlare di pubblicità nascosta, perché lo scopo autopromozionale è evidente, è tuttavia doveroso rimarcare che questa autopromozione assurge essa stessa alla dignità (se così si può dire) di attività economica, tanto più in un tempo caratterizzato da veri e propri “marchi personificati”, secondo la felice espressione di Stefano Sandri, con i quali il consumatore instaura un rapporto di tipo emotivo.
Un’attività economica che porta quindi con sé necessariamente l’onere, da parte di chi la pone in essere, di rispettare sia le esclusive sui segni distintivi altrui – i cui titolari potrebbero non desiderare l’abbinamento con determinati personaggi se risultasse screditante o comunque incoerente con l’immagine veicolata da tali segni – sia più in generale le regole della concorrenza, comprese naturalmente quelle sul divieto di attività confusorie e parassitarie, ma anche delle forme di ambush marketing di cui proprio i social media, attraverso il possibile accostamento di messaggi che consentono di realizzare agevolmente, sembrano essere un terreno di elezione.
Il tema è stato sfiorato da un recente provvedimento giudiziario, che ha vietato al contraffattore dei modelli registrati di alcuni costumi di bagno di valersi per un anno della collaborazione professionale ai fini di promozione di una modella che aveva prima pubblicizzato i costumi originali per il titolare dei modelli imitati e poi, per conto dell’imitatore, le copie, indossandoli in fotografie diffuse sulle proprie pagine social e richiamate nel sito web del contraffattore.
Ci si può infatti domandare (e io credo che la risposta alla domanda debba essere positiva) se non sarebbe stato possibile vietare alla stessa modella, naturalmente ove fosse stata parte del giudizio, di mostrarsi sui social con prodotti in grado, proprio per essere da lei indossati, di ingenerare confusione o agganciamento sul mercato in relazione ai capi originali (e al loro marchio), di cui in precedenza era stata testimonial, posto che anche questa sua attività è un’attività economica a tutti gli effetti, in grado di riverberarsi negativamente sulla posizione di mercato altrui.
La necessità di un’interpretazione evolutiva su social media e concorrenza
Ma il discorso può allargarsi ancora. Da un lato occorre mettere in discussione la stessa nozione di rapporto di concorrenza, così come elaborata dalla nostra “storica” giurisprudenza, che appare sempre più anacronistica, se si pensa che la protezione allargata dei marchi di rinomanza (e i marchi imitati lo sono quasi sempre) non è più un’eccezione, ma la regola, e non ha quindi senso – né può dirsi, di nuovo, conforme al principio costituzionale di eguaglianza – discriminare il trattamento legale delle forme di concorrenza che avvengono attraverso l’uso di segni distintivi rispetto a quello di tutte le altre.
Dunque è tempo di adeguare anche la nostra giurisprudenza a quella degli altri Paesi, la Germania in testa, che considera in rapporto di concorrenza tra loro due operatori economici ogni volta che le azioni del primo sul mercato sono in grado di riverberarsi sulla posizione di mercato del secondo, a prescindere dal fatto che gli stessi si rivolgano alla medesima clientela finale, essendo sufficiente al riguardo l’alterazione del corretto svolgimento dell’attività economica da queste azioni deriva.
Dall’altro lato, occorre domandarsi se sia ancora ammissibile, in tempi di web interattivo, una sostanziale esenzione da responsabilità – o, se si preferisce, una responsabilità fondata soltanto sulla regola generale dell’art. 2043 c.c. e sui rimedi meramente indennitari da essa previsti – in capo a soggetti che intervengono attivamente nel mondo social con messaggi suscettibili di riverberarsi negativamente appunto sulla posizione di mercato di altri soggetti.
Anche in questo caso, non sono infatti ammissibili “passamontagna telematici” che consentano di danneggiare altri impunemente, ad esempio viralizzando fake news o messaggi screditanti: il potere di intervenire attivamente sulla rete non può cioè non implicare, in una logica di bilanciamento d’interessi, una corrispondente posizione di responsabilità.
A monte di questa posizione di responsabilità sta evidentemente anche quella dei gestori di queste piattaforme, che attraverso la pubblicità veicolata nell’ambito di esse e più ancora attraverso la gestione dei big data da esse generati sono in grado di ricavare profitti rilevantissimi e quindi non possono non essere soggetti alle regole generali della responsabilità degli intermediari, almeno nei limiti in cui questa è ammessa dalla Direttiva sul commercio elettronico, così come interpretata e chiarita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea.
Certamente, la strada da percorrere in questa direzione è ancora lunga, ma va seguita tutta e senza le facili scorciatoie delle leggi speciali, che proprio in tema di commercio elettronico hanno mostrato la corda, quanto piuttosto attraverso un’applicazione rigorosa dei principî generali, non solo del diritto della proprietà intellettuale, ma del diritto civile.
Conclusioni
Ciò di cui abbiamo bisogno è di regole astratte e generali, che nascano dal basso, cioè da quello che l’azione umana concretamente rappresenta nelle relazioni interpersonali che è in grado di istituire, quindi al di sotto del diritto positivo e come ossatura di esso e misura della sua interpretazione, del diritto naturale.
Anche sotto questo profilo, la rete web può essere veramente un banco di prova importante della nostra capacità di costruire un futuro fatto non di protezionismi e di regole arbitrarie rimesse alla volontà di un legislatore aspirante stregone, ma appunto di norme che siano il riflesso della giustizia, e non viceversa.
Pensare ancora, interrogarci in questa prospettiva, è quindi un dovere tanto degli studiosi, che dei pratici, degli operatori del mercato, degli amministratori della giustizia, attraverso un lavoro maieutico di riflessione comune e di confronto su questi temi, che appaiono decisivi non solo per la proprietà intellettuale, ma per l’intero nostro vivere civile.