tutela dei marchi

Contraffazione web: basi giuridiche e strumenti concreti per una difesa efficace

Nel nostro ordinamento ci sono strumenti efficaci per il contrasto della contraffazione web; recenti pronunce giudiziarie e interventi di AGCM e AGCOM sembrano indicare un “salto di qualità” in tal senso. La differenza la farà però la consapevolezza dei propri diritti e degli strumenti per difenderli in capo alle imprese

Pubblicato il 13 Lug 2022

Cesare Galli

Avvocato e titolare della cattedra di Diritto industriale nell'Università degli Studi di Parma

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È un dato sotto gli occhi di tutti quello per cui la rete Internet è diventata uno strumento insostituibile per tutti gli operatori del mercato, dalle grandi multinazionali alle piccole e medie imprese, a cui offre un veicolo straordinario (e impensabile anche solo pochi anni fa) per la diffusione dei propri marchi e dei propri prodotti.

Ciò è tanto più vero per i Paesi di nuova industrializzazione, dove il mercato è spesso nato in parallelo con il web ed i consumatori si sono quindi abituati da subito a servirsi del commercio elettronico per i loro acquisti e comunque per trovare informazioni (e ricevere suggestioni) e per effettuare confronti tra le diverse marche.

Com’era inevitabile, però, di questo strumento hanno subito pensato di servirsi anche i contraffattori, aumentando esponenzialmente i rischi a cui sono esposti i diritti IP.

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La contraffazione via web

La contraffazione a mezzo della rete Internet produce conseguenze devastanti, che certamente sono particolarmente evidenti per il mondo del fashion, prodotti di design e luxury goods, ma non sono meno gravi per quasi tutti gli altri prodotti e servizi con conseguenze pregiudizievoli di estrema gravità sia per i titolari dei diritti violati, sia per l’affidabilità delle transazioni e la libertà di determinazione delle scelte dei consumatori (si pensi ad esempio a farmaci, pezzi di ricambio per automobili, giocattoli).

Di fronte a fenomeni di copiatura che spesso assumono proporzioni gigantesche, la tentazione della rassegnazione, come davanti a un cataclisma naturale, è certamente forte, ma è completamente fuori luogo: i maggiori ordinamenti – ed anzitutto quelli europeo ed americano, ma oggi sempre di più anche quelli dei mercati emergenti, a cominciare da quello cinese – offrono infatti strumenti efficaci ai titolari dei diritti, purché questi siano disposti a svolgere un ruolo attivo nel contrasto della contraffazione, sia mettendo in atto strumenti preventivi opportuni per mettere sull’avviso il pubblico, sia con un monitoraggio “intelligente” ed il susseguente contrasto degli illeciti.

Una soluzione equilibrata al problema della responsabilità

Questo problema ha assunto certamente un rilievo che non poteva essere previsto nel 2001, al momento dell’adozione della Direttiva sul commercio elettronico[1] e nemmeno in quello dell’attuazione di essa nel nostro Paese, operata nel 2003[2], che non ha colto tutte le opportunità offerte dalla Direttiva per delineare una soluzione equilibrata al problema della responsabilità dei soggetti operanti su Internet, dai pure players agli Internet service providers, e più in generale dei fornitori di servizi via web. Ciò nonostante, la giurisprudenza, e in particolare quella comunitaria, ma anche alcune significative pronunce nazionali, ha delineato, se non ancora dei confini precisi, certamente delle linee guida, per delineare i limiti della responsabilità degli attori del commercio elettronico, coordinando le norme della citata Direttiva sul commercio elettronico con quelle della Direttiva in materia di marchi d’impresa[3] e del Regolamento sul marchio comunitario[4].

Italia in prima fila nel contrasto alla contraffazione

E in queste azioni di contrasto l’Italia è in prima fila, sia sul piano giudiziario, anche con la concessione, in tempi estremamente rapidi, di provvedimenti cross border, in particolare a tutela dei marchi e dei design comunitari, e quindi con effetti paneuropei; sia su quello amministrativo, dove ad essersi mosse efficacemente sono da una parte l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – Agcm, che nel nostro Paese ha competenze non solo in materia Antitrust, ma anche nella repressione delle pratiche concorrenziali sleali – e il Garante delle Telecomunicazioni.

Da qualche anno, anzitutto, l’Agcm è sempre più attiva nella repressione dei siti che offrono sistematicamente prodotti-copia spesso imitando anche l’aspetto esteriore dei siti originali: al fine di contrastare la diffusione attraverso le reti telematiche o di telecomunicazione di pratiche commerciali sleali ed ingannevoli e di tutelare i consumatori ed il mercato, l’Agcm procede infatti all’oscuramento (ovviamente limitato all’Italia e attuato attraverso la Polizia Postale, ma comunque efficace) dei siti clone; una serie di segnalazioni di Indicam, l’Istituto di Centromarca per la Lotta alla Contraffazione, ha portato a mettere “fuori rete” alcune centinaia di siti clone, e altri interventi sono seguiti e continuano tuttora a ritmo serrato.

Se al centro dell’attenzione dell’Autorità Garante del mercato sono principalmente i siti che offrono prodotti-clone di originali protetti da marchi e design registrato, l’Agcom ha invece puntato il dito sulla violazione dei diritti d’autore. Un nuovo Regolamento emanato dal Garante e reperibile nel relativo sito prevede infatti una procedura semplice, economica e veloce (specie nei casi che presentano motivi di urgenza) per la rimozione dalla rete dei contenuti che violano diritti d’autore altrui.

Naturalmente queste nuove procedure, se sono particolarmente accattivanti per i titolari dei diritti, anche perché i passaggi successivi alla segnalazione si svolgono “d’ufficio” e quindi hanno costi e oneri molto ridotti, presentano i loro limiti, specie in termini di follow-up: è infatti frequente che siti e contenuti illeciti, una volta rimossi, riappaiano spesso in forma identica, semplicemente “trasferendosi” sotto altri indirizzi web. In molti casi, inoltre, il contraffattore non fa altro che togliere (spesso solo temporaneamente) le copie del produttore che lo ha denunciato o ha ottenuto dal Giudice civile un’inibitoria a suo carico, lasciando in linea (e continuando a vendere!) tutti gli altri cloni, con una sorta di “rotazione delle copie” che gli consente di continuare a guadagnare abbastanza da rendere conveniente la violazione dei diritti altrui, che diventa in molti casi una vera e propria industria del falso, che si approvvigiona in Estremo Oriente e lavora letteralmente on demand, creando e importando in Europa tutti e solo gli esemplari effettivamente ordinati da consumatori talvolta ignari della falsificazione, ma molto spesso convinti di avere fatto un “buon affare”, anche se a spese del vero creatore dell’opera copiata.

Per fronteggiare in modo efficace questi fenomeni, facendo in modo che davvero “la contraffazione non paghi” una possibile soluzione è probabilmente quella di intraprendere azioni giudiziarie “di gruppo” dei produttori e dei designers vittime della copiatura, attraverso una sorta di class action diretta ad ottenere provvedimenti giudiziari dotati di efficacia pan-europea e, soprattutto, ad ampio spettro, ossia riferiti a tutti o quasi tutti i cloni realizzati da un singolo imitatore, in modo da infliggergli in un sol colpo un danno rilevante e soprattutto da rendere non più conveniente per lui insistere nella sua illecita attività. Azioni pilota in tal senso sono concepibili in tutti i settori, purché siano condotte in modo estremamente serio e quindi vengano precedute da un serio lavoro sia di impostazione giuridica, sia di intelligence volta a ricostruire quanto più possibile la filiera dei falsi e a identificare i soggetti coinvolti e le basi dei falsificatori in Europa (e possibilmente anche i loro conti correnti…).

The Rise of Luxury Brand Counterfeits

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L’esaurimento dei diritti di proprietà intellettuale in rapporto all’attività dei pure player

Rispetto ai contraffattori tradizionali, i siti Internet di commercio elettronico, e specialmente quelli che si limitano a commerciare on line, senza spazi fisici accessibili dai consumatori (e per questo vengono appunto definiti come pure players), rendono più difficile distinguere i prodotti veri da quelli falsi, spesso semplicemente riprodotti con immagini “ufficiali” (e su questo ritorneremo), tratte dai cataloghi del produttore, alle quali non si sa se corrispondono o meno le caratteristiche dei prodotti realmente venduti, e di cui di regola si ignora l’origine, in particolare se comunitaria o extra-comunitaria (rectius: estranea allo Spazio Economico Europeo), con conseguente difficoltà di stabilire, anche quando sono realmente “originali”, se ad essi si applicano o meno le regole sull’esaurimento, e sempre si ignora la reale ubicazione “fisica”, con conseguente difficoltà pratica (quando non impossibilità) di colpirli con misure di descrizione o sequestro.

Limiti e le opportunità di difesa per i titolari

Il tema è particolarmente delicato per i prodotti effettivamente di origine comunitaria, ma destinati a mercati extraeuropei: poiché, come si diceva, il principio dell’esaurimento opera soltanto nell’ambito comunitario, cosicché eventuali prodotti originali reimportati in Europa da Paesi esterni all’U.E. e al S.E.E. sono considerati a tutti gli effetti come merci di contraffazione[5]), fermo restando che invece in ambito comunitario l’esaurimento opera ipso facto per effetto della vendita, cosicché «l’eventuale stipulazione, nell’atto di vendita che realizza la prima immissione in commercio nel SEE, di restrizioni territoriali al diritto di rivendita dei prodotti concerne solamente i rapporti tra le parti contraenti” e “non può ostare all’esaurimento previsto dalla direttiva»[6] .

Sempre in relazione all’esaurimento, non va inoltre dimenticato che esso riguarda in linea di massima anche la pubblicità, nel senso che se i prodotti sono originali e di origine comunitaria «il rivenditore ha, oltre alla facoltà di mettere in vendita tali prodotti, anche quella di usare il marchio per promuovere l’ulteriore commercializzazione dei prodotti stessi»[7], ma non è comunque senza limiti. I Giudici comunitari, infatti, dopo avere richiamato con approvazione l’insegnamento generale per cui «il pregiudizio arrecato alla reputazione del marchio può costituire, in via di principio, un motivo legittimo, ai sensi dell’art. 7, n. 2, della direttiva, perché il titolare si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti messi in commercio nella Comunità dal titolare stesso o con il suo consenso», hanno affermato che «nel caso in cui un rivenditore utilizzi un marchio per promuovere l’ulteriore commercializzazione di prodotti contrassegnati col marchio stesso, dev’essere contemperato l’interesse legittimo del titolare del marchio, ad essere tutelato contro i dettaglianti che facciano uso del suo marchio a fini pubblicitari avvalendosi di modalità che potrebbero nuocere alla reputazione del marchio stesso, con l’interesse del dettagliante a poter mettere in vendita i prodotti in questione avvalendosi delle modalità pubblicitarie correnti nel suo settore di attività», cosicché in particolare, in caso di prodotti di lusso (nel caso di specie si trattava di prodotti a marchio Dior), il dettagliante deve «adoperarsi per evitare che la sua pubblicità comprometta il valore del marchio, danneggiando lo stile e l’immagine di prestigio dei prodotti in oggetto nonché l’aura di lusso che li circonda»: pur aggiungendo che di per sé «il fatto che un rivenditore, il quale commercia abitualmente con articoli della medesima natura ma non necessariamente della medesima qualità, utilizzi per prodotti contrassegnati con il marchio modalità pubblicitarie che sono correnti nel suo settore di attività pur non corrispondendo a quelle utilizzate dal titolare stesso e dai suoi distributori autorizzati non costituisce un motivo legittimo, ai sensi dell’art. 7, n. 2, della direttiva, che consenta al titolare di opporsi a tale pubblicità, a meno che non venga dimostrato, alla luce delle circostanze di ciascun caso di specie, che l’uso del marchio fatto dal rivenditore a fini pubblicitari nuoce gravemente alla reputazione del marchio stesso»; ipotesi quest’ultima che la Corte di giustizia esemplificava scrivendo che «Un grave pregiudizio del genere potrebbe intervenire qualora il rivenditore non avesse avuto cura, nell’opuscolo pubblicitario da lui diffuso, di evitare di collocare il marchio in un contesto che rischierebbe di svilire fortemente l’immagine che il titolare è riuscito a creare attorno al suo marchio»[8]. Ed oggi non vi è dubbio che la vendita via web non può che essere considerata una “modalità corrente” in tutti i settori, e specialmente per prodotti di moda e luxury goods, cosicché non può essere indiscriminatamente vietata e tanto meno considerata in sé screditante.

È chiaro, dunque, che la pratica applicazione di questi principî agli operatori che offrono le loro merci via web può risultare particolarmente difficoltosa, anche se un’attenta applicazione dei principî generali può offrire ai titolari dei diritti significative possibilità di difesa.

Si pensi all’insegnamento della nostra giurisprudenza secondo cui, anche in caso di merci “comunitarie”, è sempre considerato illecito il comportamento del soggetto che rivenda i prodotti originali abusando della reputazione del marchio, ad esempio dando al medesimo nella propria pubblicità un rilievo assolutamente sproporzionato[9]: e questo principio chiaramente si applica anche alla rete web, ed anzi può risultare particolarmente importante invocarlo per configurare come illecite le pubblicità web, anche di prodotti originali, usate in abbinamento a testi o ricerche relative a marchi o design altrui.

Le tecniche di gachage

Del pari illecite sono le forme di cosiddetto gachage, ossia l’utilizzo (e la pubblicizzazione) di prodotti di forte richiamo, di regola disponibili in piccole quantità, venduti a prezzi bassissimi come “specchietto per le allodole” per la clientela, che viene così indotta a raggiungere il punto vendita, fisico o – oggi – virtuale e magari ad acquistare gli altri prodotti presenti[10]: nel caso di Internet sono frequenti i mix tra (pochi) prodotti originali e (molti) prodotti non originali o di provenienza extracomunitaria e quindi comunque vietati.

Proficuo, in questa prospettiva, potrebbe anche essere invocare il divieto di pubblicità ingannevole, riconducibile all’art. 2598, n. 3 c.c.. La giurisprudenza, in alcuni casi, ha infatti avuto modo di applicare questo divieto anche ad ipotesi in cui l’inganno derivava dall’omissione di dati (ad esempio, la circostanza che i prodotti offerti in vendita siano stock di anni precedenti, come frequentemente avviene anche sul web).

Né va trascurata la frequente violazione dei diritti d’autore o dei diritti connessi effettuata in questi casi, ad esempio utilizzando materiali iconografici “ufficiali”, tratti dai cataloghi o dai siti dei titolari dei diritti violati, i quali possono invocare la relativa esclusiva per far cessare o comunque ostacolare le vendite “parallele”.

È chiaro che in tutti questi casi diventa fondamentale essere in grado di controllare il più possibile la circolazione dei prodotti originali, in particolare munendoli di strumenti di identificazione che consentano agli acquirenti di identificare facilmente i falsi, e comunicare il più possibile, anche in rete, l’esistenza di questi strumenti, magari ricorrendo a strumenti di certificazione dei siti affidabili, e addirittura disciplinando l’accesso a Internet da parte dei rivenditori, imponendo loro il rispetto di regole precise a tutela della reputazione del marchio. Ancora una volta ad essere pagante è il mix tra prevenzione e repressione, protezione e comunicazione.

Le tecniche di agganciamento in rete: parole chiave, siti pirata e “favoreggiatori” della contraffazione

Tutto questo rappresenta però solo un versante del problema, importante ma non unico. Sulla rete Internet, a fianco delle forme di mercato parallelo, che mettono in difficoltà i sistemi distributivi dei prodotti originali, particolarmente insidiosi per la moda ed i luxury goods sono da un lato l’abbondantissima offerta di falsi spacciati come prodotti autentici che la rete facilita attraverso il sostanziale anonimato – un vero e proprio passamontagna telematico – che essa offre; e dall’altro lato le forme di agganciamento a favore di prodotti o servizi dichiaratamente diversi da quelli autentici, ma comunque offerti in vendita attraverso forme di richiamo parassitario alla celebrità dei marchi più famosi.

Utilizzo del marchio nel nome a dominio o comunque nel sito, veri e propri siti-clone, ripresa di immagini protette, “aste” on line, links ai marchi altrui, sponsorizzati e non, oppure ottenuti attraverso sistemi analoghi ai metatags e le altre forme più avanzate di cui parleremo poi. Ed ovviamente fashion e lusso, caratterizzati proprio dal fortissimo valore simbolico dei loro segni distintivi – marchi e non solo: si pensi allo stile di molti dei nostri “creatori del gusto e della moda” – sono i candidati ideali ad essere la vittima di queste operazioni.

In entrambi i casi oggi non si dubita poi dell’illiceità di queste condotte: dal varo della prima Direttiva comunitaria sui marchi d’impresa, nel 1988, si è progressivamente affermata la concezione della contraffazione come comprensiva di ogni forma di parassitismo ed i successivi interventi normativi succedutisi nel corso degli anni hanno proceduto all’adeguamento dei diversi strumenti giuridici, sostanziali e processuali, per contrastarla efficacemente, prendendo progressivamente atto della circostanza che, nella realtà di mercato il pericolo di confusione è sempre più una realtà del passato, o comunque una realtà riguardante i marchi meno famosi, mentre le “nuove frontiere” della contraffazione, e quindi anche della protezione dei segni distintivi più famosi (le “marche”, come preferiscono chiamarle gli esperti di economia e di marketing: e tali sono pressoché tutte quelle del mondo del fashion e dei luxury goods), riguardano piuttosto le forme di sfruttamento parassitario del “valore di comunicazione” di questi segni da parte di terzi non autorizzati. E Internet, che è il cuore della comunicazione del mondo d’oggi, è stato infatti anche il primo banco di prova e l’avanguardia di questa nuova e più concreta protezione dei diritti di proprietà industriale.

Oggi il problema non è dunque tanto quello di stabilire se queste condotte parassitarie sono illecite, ma identificare quali soggetti ne devono rispondere, appunto per evitare che l’anonimato e comunque la mancanza di luoghi fisici identificabili facciano della rete un porto franco della contraffazione; e la rete, così com’è stata il banco di prova della nuova tutela “allargata” dei diritti IP, è oggi il luogo nel quale si sperimentano i tentativi di rinvenire un limite a questa tutela allargata, che contemperi la tutela effettiva di questi diritti in ciò che concretamente rappresentano nel mercato e prima ancora nel “mondo della vita” con le esigenze pro-concorrenziali che del mercato sono il carattere fondante.

In particolare la Corte di Giustizia europea si è occupata ripetutamente della contraffazione web, dopo la sua sentenza del 2010 nel caso Google AdWords[11], con la quale i Giudici comunitari avevano precisato che la possibilità per il gestore di servizi di vendita on line di avvalersi delle limitazioni alla responsabilità dell’intermediario previste dagli artt. 12-15, Dir. n. 31/2000/CE sul commercio elettronico dipende dal fatto che la sua attività «sia di ordine “meramente tecnico, automatico e passivo”, con la conseguenza che detto prestatore “non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”»[12], escludendo che questo caso si verificasse ogni qual volta il prestatore svolge un ruolo «nella redazione del messaggio commerciale che accompagna il link pubblicitario o nella determinazione o selezione di tali parole chiave»[13].

Il profilo territoriale e l’idoneità della destinazione delle offerte a configurare l’illecito in un Paese

Questi principî sono stati confermati ed approfonditi dalla Corte europea nella sua successiva pronuncia nel caso L’Oréal v. Ebay[14], che ha anche preso espressamente posizione sul delicato problema del profilo territoriale della contraffazione realizzata a mezzo della rete Internet.

Al riguardo il problema è essenzialmente quello di stabilire se la semplice accessibilità ai navigatori di un determinato Paese di un sito il cui domain name o il cui contenuto contrasti con i diritti di proprietà intellettuale esistenti in quel Paese possa essere considerata evento dannoso verificatosi (anche) nel Paese in questione. Nel nostro Paese un noto provvedimento del Tribunale di Roma aveva ritenuto che a tal fine fosse sufficiente la mera accessibilità nel nostro Paese di un sito web (diffuso dagli Stati Uniti) contrassegnato da un domain name corrispondente a un marchio tutelato in Italia[15]. Contro la conclusione raggiunta da tale ordinanza sembra però militare un rilievo di ordine pratico prima ancora che giuridico: se infatti la mera diffusione dall’estero di un sito contraddistinto da un domain name che, nel Paese del foro, violerebbe un altrui diritto di marchio, costituisse contraffazione in tale Stato, ciò legittimerebbe il titolare del marchio ad ottenere un’inibitoria nello Stato in questione; e se di questa inibitoria fosse poi possibile chiedere il riconoscimento e l’esecuzione nel Paese del server (il che, almeno in ambito europeo, sembra consentito dal sistema del Regolamento CE n. 44/2001 e prima di esso delle Convenzioni di Bruxelles-Lugano[16]), il sistema rischierebbe di venire paralizzato. In questi casi sembra perciò logico (almeno in assenza di una auspicabile soluzione concordata internazionalmente) ritenere che la sola attività che possa essere ritenuta contraffattoria in un Paese diverso da quello dove è ubicato il server da cui è diffuso un sito web (e che quindi sia idonea, se allegata, ad attribuire un titolo di giurisdizione ai giudici di tale Stato) sia quella specificamente diretta ai navigatori di quel Paese[17]; per non incorrere in sanzioni nel Paese considerato, il titolare del sito straniero dovrebbe cioè evitare di rivolgere offerte commerciali ai soggetti di tale Paese, ovvero di diffondere messaggi a loro direttamente indirizzati, come nel caso in cui essi siano redatti nella lingua parlata in quel Paese (sempre che essa non coincida con quella di altri Paesi dove non esistono problemi di contraffazione: e in quest’ultimo caso è ragionevole ritenere che gli possa essere imposta l’adozione di appositi disclaimers)[18].

A conclusioni analoghe è in effetti pervenuta la Corte di Giustizia europea, che, respingendo la tesi opposta di EBay, ha affermato che «le norme della direttiva 89/104 e del regolamento n. 40/94 si applichino dal momento in cui appare evidente che l’offerta in vendita del prodotto contrassegnato da un marchio che si trova in uno Stato terzo è destinata a consumatori che si trovano nel territorio per il quale il marchio è stato registrato», in quanto «In caso contrario (…) gli operatori che fanno ricorso al commercio elettronico, proponendo in vendita, in un mercato online destinato a consumatori che si trovano nell’Unione, prodotti contrassegnati da un marchio che si trovano in uno Stato terzo, che possono essere visualizzati sullo schermo e ordinati mediante detto mercato online, non avrebbero, relativamente alle offerte in vendita di questo tipo, nessun obbligo di conformarsi alle norme dell’Unione in materia di proprietà intellettuale» e «Una situazione del genere vanificherebbe l’effetto utile di tali norme»[19], pur precisando correttamente che «la mera accessibilità di un sito Internet nel territorio per il quale il marchio è stato registrato non è sufficiente a concludere che le offerte in vendita che compaiono in esso sono destinate a consumatori che si trovano in tale territorio» e che quindi «è compito dei giudici nazionali valutare caso per caso se sussistano elementi pertinenti per concludere che un’offerta in vendita, che compare in un mercato online accessibile nel territorio per il quale il marchio è stato registrato, sia destinata a consumatori che si trovano in tale territorio», considerando che «Allorché l’offerta in vendita è accompagnata da precisazioni riguardo alle aree geografiche verso le quali il venditore è disposto a spedire il prodotto, tale tipo di precisazione riveste un’importanza particolare nell’ambito della suddetta valutazione»[20]: il che appare coerente con quanto aveva appunto sostenuto al riguardo la nostra dottrina.

Non va inoltre dimenticato che, come già si è accennato, sempre la Corte di Giustizia europea ha chiarito che «una misura coercitiva, quale ad esempio una penalità coercitiva (astreinte), disposta da un tribunale dei marchi comunitari in applicazione del proprio diritto nazionale, al fine di garantire il rispetto di un divieto, da esso emesso, di prosecuzione di atti costituenti contraffazione o minaccia di contraffazione, produce effetti negli Stati membri diversi da quello cui detto giudice appartiene – ai quali si estende la portata territoriale di un divieto siffatto – alle condizioni previste dal capo III del regolamento n. 44/2001 per quanto riguarda il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni giurisdizionali»[21]. E lo stesso vale per i disegni e modelli comunitari, dove a stabilire l’efficacia cross border dei provvedimenti è proprio la normativa comunitaria e in particolare il terzo comma dell’art. 90 del Regolamento C.E. n.6/2002, a mente del quale «Un tribunale dei disegni e modelli comunitari la cui competenza è fondata sull’ articolo 82, paragrafi 1, 2, 3 o 4, può ordinare misure provvisorie e cautelari, che, fatte salve le procedure di riconoscimento ed esecuzione prescritte dal titolo III della Convenzione di esecuzione, sono applicabili sul territorio di qualsiasi Stato membro. Tale competenza non spetta a nessun altro organo giurisdizionale»: previsione questa pressoché identica a quella di cui all’art. 103, comma 2° del Regolamento C.E. n. 207/09 in tema di marchi comunitari.

Ciò significa che i provvedimenti di inibitoria, anche cautelare, emessi da un Giudice nazionale di un Paese europeo che disponga di un titolo di giurisdizione per conoscere della contraffazione di un marchio o di un modello comunitario che gli è stata sottoposta, hanno normalmente efficacia sull’intero territorio dell’Unione Europea; e ciò verosimilmente vale ogni qual volta sussistono diritti paralleli in più Paesi che possano dirsi violati in ciascuno di essi, dal momento che è solo per le questioni di validità e non anche su quelle di contraffazione che l’art. 22, comma 1° n. 4 del regolamento C.E. n. 44/2001 sulla competenza giurisdizionale in Europa prevede una riserva di giurisdizione a favore dei Giudici del Paese della registrazione, anche questa, del resto, limitati a quelli tra essi «per i quali è prescritto il deposito ovvero la registrazione», e quindi comunque non per il diritto d’autore, che è tutelato a prescindere da ogni formalità[22]. Ed anche per quanto riguarda la validità si è del resto opportunamente messo in luce che «Il giudice che conosce della contraffazione può rinviare integralmente la causa, può sospenderla fino a che il giudice di un altro Stato membro, competente ai sensi dell’art. 16, n. 4, abbia deciso sulla validità del brevetto, e può infine deciderla egli stesso quando il convenuto sia in malafede»[23]; il che fa sì che anche in presenza di diritti IP diversi dal diritto d’autore e dal marchio e modello comunitario un Giudice nazionale dotato di un idoneo titolo di giurisdizione che sia adito per una contraffazione che si estende a più Paesi europei, può conoscerne (e dunque emettere provvedimenti dotati di efficacia transfrontaliera), pur in presenza di eccezioni di nullità del titolo straniero fatto valere, quando queste eccezioni appaiano prima facie puramente pretestuose, essendo comunque vietato un uso strumentale della norma allo scopo di sottrarre la causa (in questo caso, di contraffazione) al suo giudice naturale.

I rapporti tra inserzionista e gestore di piattaforme eCommerce

La Corte di Giustizia europea ha poi confermato che «il titolare di un marchio può vietare al gestore di un mercato online di fare pubblicità – partendo da una parola chiave identica a tale marchio selezionata da tale gestore nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet – ai prodotti recanti detto marchio messi in vendita nel suddetto mercato, qualora siffatta pubblicità non consenta, o consenta soltanto difficilmente, all’utente di Internet normalmente informato e ragionevolmente attento di sapere se tali prodotti o servizi provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata a quest’ultimo oppure, al contrario, da un terzo», sottolineando in particolare, in relazione al caso di specie, ma con considerazioni che assumono portata generale, che «nei limiti in cui la eBay ha utilizzato parole chiave corrispondenti a marchi della L’Oréal per promuovere offerte in vendita di prodotti di marca provenienti dai suoi clienti venditori, essa ne ha fatto uso per prodotti o servizi identici a quelli per i quali tali marchi sono stati registrati», dal momento che nella Direttiva «l’espressione ‘per prodotti o servizi’ non si riferisce esclusivamente ai prodotti o ai servizi del terzo che fa uso dei segni corrispondenti ai marchi, ma può riguardare anche i prodotti o i servizi di altre persone»[24].

La sentenza ha anche confermato che costituisce uso del marchio soltanto da parte dell’inserzionista, ma non anche da parte del provider «il fatto di far comparire, per i propri clienti venditori, offerte in vendita da essi provenienti», ribadendo però in pari tempo che «Nei limiti in cui consente ai propri clienti di fare tale uso, il ruolo del gestore del mercato online non può essere valutato alla luce delle disposizioni della direttiva 89/104 e del regolamento n. 40/94, ma deve essere esaminato nella prospettiva di altre norme di diritto, quali quelle enunciate nella direttiva 2000/31, in particolare alla sezione 4 del capo II della medesima, che riguarda la ‘responsabilità dei prestatori intermediari’ nel commercio elettronico e che comprende gli artt. 12‑15 della stessa direttiva»[25].

I limiti all’esenzione di responsabilità del gestore

Proprio sotto questo profilo si devono registrare i più significativi sviluppi contenuti nella pronuncia della Corte. In primo luogo i Giudici europei hanno affermato che, qualora il gestore di un mercato on line «abbia prestato un’assistenza consistente segnatamente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte, si deve considerare che egli non ha occupato una posizione neutra tra il cliente venditore considerato e i potenziali acquirenti, ma che ha svolto un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte. In tal caso non può avvalersi, riguardo a tali dati, della deroga in materia di responsabilità di cui all’art. 14 della direttiva 2000/31»[26].

In secondo luogo la Corte ha rilevato che, anche la di fuori di quest’ipotesi, l’operatività della deroga è comunque preclusa in «qualsiasi situazione nella quale il prestatore considerato viene ad essere, in qualunque modo, al corrente di … fatti o circostanze» che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, e quindi «segnatamente, (nel)la situazione in cui il gestore di un mercato online scopre l’esistenza di un’attività o di un’informazione illecite a seguito di un esame effettuato di propria iniziativa, nonché (nel)la situazione in cui gli sia notificata l’esistenza di un’attività o di un’informazione siffatte» (e quindi anche quando l’informazione non proviene da una pubblica autorità), con la precisazione che «In questo secondo caso, pur se, certamente, una notifica non può automaticamente far venire meno il beneficio dell’esonero dalla responsabilità previsto all’art. 14 della direttiva 2000/31 – stante il fatto che notifiche relative ad attività o informazioni che si asseriscono illecite possono rivelarsi insufficientemente precise e dimostrate –, resta pur sempre (il) fatto che essa costituisce, di norma, un elemento di cui il giudice nazionale deve tener conto per valutare, alla luce delle informazioni così trasmesse al gestore, l’effettività della conoscenza da parte di quest’ultimo di fatti o circostanze in base ai quali un operatore economico diligente avrebbe dovuto constatare l’illiceità»[27]: così individuando lo standard di diligenza richiesto al gestore in un livello non sostanzialmente diverso da quello applicabile a ogni altro intermediario.

Ancor più significativa è la parte della decisione in cui la Corte ha considerato il contenuto che possono assumere le inibitorie (injunctions) che, sempre secondo la Dir. n. 2000/31/CE, coordinata anche con la Dir. n. 2004/48/CE sull’enforcement dei diritti di proprietà intellettuale, possono venire emanate nei confronti del gestore del servizio, riconoscendo espressamente che le stesse possono essere anche dirette alla prevenzione di ulteriori illeciti. Sotto questo profilo la Corte ha anzitutto chiarito, in base a quanto previsto dall’art. 11 Dir. n. 2004/48/CE che «l’ingiunzione rivolta al responsabile di una violazione consiste, logicamente, nel vietargli la prosecuzione della violazione, mentre la situazione del prestatore del servizio mediante il quale è commessa la violazione è più complessa e si presta ad altri tipi di provvedimenti ingiuntivi» e che anche in base alla ratio di tale Direttiva «la competenza attribuita (…) agli organi giurisdizionali nazionali deve consentire a questi ultimi di ingiungere al prestatore di un servizio online, quale colui che mette a disposizione degli utenti di Internet un mercato online, di adottare provvedimenti che contribuiscano in modo effettivo, non solo a porre fine alle violazioni condotte attraverso tale mercato, ma anche a prevenire nuove violazioni»[28].

Le sanzioni per il gestore e le misure preventive di ulteriori illeciti

A questo proposito, e sempre in base al coordinamento tra le due Direttive richiamate, i Giudici comunitari hanno rilevato che le misure che così possono venire imposte al gestore del servizio «non possono consistere in una vigilanza attiva di tutti i dati di ciascuno dei suoi clienti per prevenire qualsiasi futura violazione dei diritti di proprietà intellettuale attraverso il sito di tale prestatore», né «avere l’oggetto o l’effetto di imporre un divieto generale e permanente di messa in vendita, in tale mercato, di prodotti contrassegnati da detti marchi», ma che tuttavia al gestore può essere ordinato di «sospendere l’autore della violazione di diritti di proprietà intellettuale per evitare che siano commesse nuove violazioni della stessa natura da parte dello stesso commerciante nei confronti degli stessi marchi» ed anche di «adottare misure che consentano di agevolare l’identificazione dei suoi clienti venditori», affermando in termini generali che «se è certamente necessario rispettare la protezione dei dati personali, resta pur sempre il fatto che, quando agisce nel commercio e non nella vita privata, l’autore della violazione deve essere chiaramente identificabile» e concludendo che tali misure «devono essere effettive, proporzionate, dissuasive e non devono creare ostacoli al commercio legittimo» e «devono garantire un giusto equilibrio tra i diversi diritti e interessi»[29].

Da ultimo, poi, con una pronuncia di poche settimane, fa la Corte europea ha stabilito che «i diritti fondamentali riconosciuti dal diritto dell’Unione devono essere interpretati nel senso che non ostano a che sia vietato, con un’ingiunzione pronunciata da un giudice, a un fornitore di accesso ad Internet di concedere ai suoi abbonati l’accesso ad un sito Internet che metta in rete materiali protetti senza il consenso dei titolari dei diritti, qualora tale ingiunzione non specifichi quali misure tale fornitore d’accesso deve adottare e quest’ultimo possa evitare sanzioni per la violazione di tale ingiunzione dimostrando di avere adottato tutte le misure ragionevoli, a condizione tuttavia che, da un lato, le misure adottate privino inutilmente gli utenti di Internet della possibilità di accedere in modo lecito alle informazioni disponibili e, dall’altro, che tali misure abbiano l’effetto di impedire o, almeno, di rendere difficilmente realizzabili le consultazioni non autorizzate dei materiali protetti e di scoraggiare seriamente gli utenti di Internet che ricorrono ai servizi del destinatario di questa stessa ingiunzione dal consultare tali materiali messi a loro disposizione in violazione del diritto di proprietà intellettuale, circostanza che spetta alle autorità e ai giudici nazionali verificare»[30]: il che in buona sostanza significa che al fornitore di servizi web può essere imposto un filtraggio non sistematico, ma “mirato”, in presenza di specifici illeciti.

Ed in effetti, già prima del varo della Direttiva sul commercio elettronico nella nostra dottrina era emersa una soluzione “intermedia” tra le due estreme che o escludevano in ogni caso la responsabilità del provider per il contenuto del sito ospitato, assimilando il suo ruolo «a quello di un centro commerciale che abbia concesso in locazione la bancarella sulla quale l’autore ha esposto i prodotti incriminati»[31], oppure lo ritenevano responsabile in ogni caso, in quanto esso andrebbe equiparato «ad una sorta di editore, il quale ha l’obbligo di vigilare affinché attraverso la sua pubblicazione non vengano perpetrati delitti o illeciti di natura civilistica»[32]: e si era quindi ipotizzato di distinguere caso per caso, a seconda che, in concreto, sia o meno configurabile una colpa a carico del provider, anche in considerazione del tipo di servizio da lui effettivamente prestato[33].

In tal modo anche il tema della responsabilità dei gestori di questi servizi e quello delle misure di contrasto alla contraffazione web vengono ricondotti sostanzialmente alle regole generali, quanto meno quando la contraffazione sia operata a livello commerciale, nella prospettiva di fornire in ogni caso una tutela effettiva contro ogni attività che venga ad interferire con ciò che i segni distintivi concretamente rappresentano nel «mondo della vita».

Il caso Interflora e gli sviluppi della giurisprudenza comunitaria in materia di keywords

Sul tema delle keywords (ma in questo caso senza occuparsi direttamente della responsabilità del gestore, che non era parte in causa) la Corte europea era tornata anche nella sua sentenza nel caso Interflora v. Marks & Spencer[34], che affrontava il tema dell’illiceità di essi da un lato sulla base della regola di cui all’art. 5.1.a della Direttiva n. 89/104/CEE (ora divenuta, nella versione codificata, la Direttiva n. 2008/95/CE), ossia nel caso dell’uso di marchi identici per prodotti o servizi identici, e dall’altro in relazione a quella dell’art. 5.2 della medesima Direttiva, ossia all’ipotesi dell’indebito vantaggio/pregiudizio legati alla capacità distintiva o alla rinomanza del marchio.

Sotto il primo profilo in questa sentenza i Giudici comunitari confermano la loro impostazione per cui l’identità di segni e prodotti non configura un’ipotesi di tutela «assoluta», perché essa è comunque subordinata all’interferenza dell’uso del terzo con una delle funzioni del marchio; sotto il secondo essi considerano le diverse ipotesi sia di pregiudizio, sia di indebito vantaggio, riconducendo sostanzialmente le prime alle classiche figure del blurring e del tarnishment, già da lungo tempo note all’esperienza giuridica nord-americana, mentre sotto il secondo parlano per la prima volta esplicitamente di «parassitismo», identificandolo «in particolare» nel «caso in cui, grazie ad un trasferimento dell’immagine del marchio o delle caratteristiche da questo proiettate sui prodotti designati dal segno identico o simile, sussista un palese sfruttamento parassitario nella scia del marchio che gode di notorietà»[35].

Sennonché proprio la rigidità classificatoria impedisce alla Corte in questo caso di cogliere con chiarezza l’elemento unificante di tutte queste ipotesi, che invece emergeva con chiarezza da altre precedenti pronunce, e cioè il valore del marchio come simbolo di un messaggio (o, se si preferisce, la funzione di comunicazione del marchio, che riassume in sé tutte le altre) che fa scattare la tutela ogni volta che nell’uso non autorizzato di un segno eguale o simile ad esso vi sia un richiamo a tale valenza simbolica non giustificato da altre esigenze prevalenti. La rigidità di questo schema emerge con chiarezza proprio in relazione al ragionamento svolto dalla Corte in relazione alle “funzioni” del marchio, per la quale i Giudici europei propongono una “nuova” e discutibile tripartizione, parlando al riguardo di funzione d’origine, funzione pubblicitaria e funzione di investimento, dove, se la prima è ovviamente quella “classica”, che sino all’attuazione della Direttiva segnava da noi il limite alla protezione del marchio, la seconda non viene invece definita, ma è genericamente ricondotta all’«utilizzo pubblicitario di un marchio … da parte del suo titolare»[36] e giustapposta alla (ulteriore) funzione d’investimento, intesa come connessa al fatto che il marchio venga «utilizzato dal suo titolare per acquisire o mantenere una reputazione che possa attirare i consumatori e renderli fedeli»[37].

Anche questa sentenza ha segnato comunque un passo avanti, là dove ha sottolineato che l’uso del marchio altrui come parola-chiave è potenzialmente lesivo non solo della prima (sui presupposti già indicati nella sentenza Google), ma anche di questa terza funzione del marchio, sul presupposto che «il marchio gode già di una reputazione» (e cioè in pratica in quanto sia già stato usato, se si considera la nozione di rinomanza accolta dalla Corte di Giustizia sin dalla sua pronuncia nel caso General Motors) e «qualora l’uso da parte del terzo di un segno identico a tale marchio per prodotti o servizi identici leda tale reputazione e metta quindi in pericolo la conservazione della stessa»[38], e cioè sostanzialmente alle stesse condizioni per cui il marchio è tutelato contro tarnishment e blurring; analogamente il «parassitismo» è ravvisato nell’ipotesi in cui «l’inserzionista si inserisce nella scia di un marchio che gode di notorietà, al fine di beneficiare del suo potere attrattivo, della sua reputazione e del suo prestigio, nonché al fine di sfruttare, senza qualsivoglia compensazione economica e senza dover operare sforzi propri in proposito, lo sforzo commerciale effettuato dal titolare del marchio per creare e mantenere l’immagine di detto marchio»[39].

Secondo la Corte, uno spazio di liceità per le keywords costituite dal marchio altrui si può quindi ravvisare solo quando in questo modo l’inserzionista intenda offrire «un’alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi del titolare del marchio che gode di notorietà» e lo faccia «senza offrire una semplice imitazione dei prodotti e dei servizi del titolare di tale marchio, senza provocare una diluizione o una corrosione e senza nemmeno arrecare pregiudizio alle funzioni di detto marchio»[40], così riconducendo la sfera di liceità essenzialmente alle ipotesi in cui sussista un «giusto motivo» per l’uso del marchio altrui, secondo la previsione dell’art. 5.2 della Direttiva, richiamata espressamente nel punto 89 della decisione: in pratica, come la Corte aveva già indicato in altre pronunce, anche in materia di pubblicità, quando vi sia la necessità dell’uso del marchio altrui per consentire una concorrenza effettiva. E anche questo conferma che è appunto qui, nel giusto motivo, e nella conseguente ricerca di un punto di equilibrio tra concorrenza ed esclusiva, che va cercato il nuovo confine della tutela dei marchi e conseguentemente è su questo punto che le imprese dovranno prestare la massima attenzione, anche sul piano probatorio, per ottenere una tutela adeguata dei loro diritti: e questo punto di esclusiva dovrà necessariamente tener conto non solo del profilo del “pregiudizio”, su cui sinora questa giurisprudenza sembra essersi maggiormente concentrata, ma anche su quello dell’“indebito vantaggio”, che è del pari rilevante, poiché la legge lo pone, in alternativa al primo (e quindi senza richiedere che sussistano entrambi, come pure normalmente avviene), come presupposto della tutela del marchio. Ed è appena il caso di notare che anche questo è un percorso analogo a quello che la giurisprudenza comunitaria ha seguito, occupandosi della contraffazione fuori dal mondo della rete, anche qui partendo dal tema del pregiudizio, per poi giungere a inquadrare anche i casi di indebito vantaggio.

Il caso Sisley vs Amazon e la giurisprudenza italiana in materia di piattaforme eCommerce

Su un altro tema di grande rilievo è stata proprio la giurisprudenza italiana a spostare in avanti le frontiere della protezione della reputazione dei marchi sul web. Con ordinanza cautelare collegiale del 3 luglio 2019, resa nel procedimento instaurato dalle società Société c.f.e.b. Sisley, Sisley Italia S.r.l. e Société d’investissement et de license (S.I.L.), rappresentate dagli avv.ti prof. Cesare Galli e Mariangela Bogni, nei confronti di Amazon EU S.a.r.l., Amazon Europe Core S.a.r.l. e Amazon Services Europe S.a.r.l., la celeberrima maison francese, produttrice di cosmetici di alta gamma, ha ottenuto un importante riconoscimento della validità del proprio sistema di distribuzione selettiva, fondato su una rete di distributori rispondenti a rigorosi standard qualitativi, e un’inibitoria, a valersi per il territorio italiano, indirizzata nei confronti di Amazon, soggetto estraneo alla rete distributiva autorizzata, diretta a far cessare un’attività ritenuta dal Tribunale “lesiva del prestigio e dell’immagine del brand Sisley”.

Si tratta di un precedente “storico”, perché impone anche al commercio elettronico e al suo gigante di seguire le regole che valgono nel “mondo reale” (e che derivano dal diritto comunitario, anzitutto della concorrenza): in particolare esso sancisce che il “modello di business” di Amazon, che “mescola” a fini di massimizzazione della sua profitability ogni genere di prodotto, di qualunque livello qualitativo, non può ledere i diritti di chi ha fatto invece una scelta di “qualità assoluta”, ricorrendo legittimamente a sistemi di “distribuzione selettiva”, che questa mescolanza sono proprio diretti ad evitare, a salvaguardia della reputazione del marchio. Esso dunque conferma che, nel settore della proprietà intellettuale – dove dal 2003 in Italia funziona un sistema di Sezioni Specializzate –, il nostro Paese è all’avanguardia in Europa, tanto che le nostre norme e la prassi giurisprudenziale in materia di enforcement dei diritti IP erano state considerate “best practice” dall’Osservatorio UE sulla Contraffazione.

In particolare, con questa ordinanza la Sezione Specializzata in Materia di Impresa del Tribunale di Milano:

– ha anzitutto ritenuto “conformi ai principi sanciti dal Reg CE n.330/2010 e dalla giurisprudenza comunitaria” le “condizioni commerciali che Sisley sottopone ai propri rivenditori” ed ha affermato, quindi, “la liceità del sistema di distribuzione selettiva” dei cosmetici “di lusso o comunque di prestigio” della maison;

– ha poi accertato che la “commercializzazione, offerta in vendita, promozione e pubblicizzazione” di tali prodotti sulla piattaforma Amazon.it, non appartenente al sistema di distribuzione selettiva Sisley, dovevano “ritenersi lesive del prestigio e dell’immagine del marchio Sisley” per le ragioni di cui al punto n. 7 della decisione, ove si legge che “(…) dalle produzioni delle reclamanti, come si evince anche dall’immagine tratta da internet riprodotta alla pag.12 del reclamo, emerge la circostanza che i prodotti Sisley vengono mostrati e offerti mescolati ad altri articoli, quali prodotti per la casa e per le pulizie, prodotti comunque di basso profilo e di scarso valore economico. Anche nella sezione ‘Bellezza Lux(u)ry’ (pag.16 del reclamo) il marchio Sisley è accostato a marchi di fascia bassa, di qualità, reputazione e prezzo molto inferiori o comunque di gran lunga meno prestigiosi. Laddove si consideri che, nei propri contratti, Sisley esplicitamente richiede che i propri prodotti vengano venduti in profumerie di lusso o in reparti specializzati di profumeria e cosmesi di grandi magazzini, con personale qualificato, in un determinato contesto urbano, appare indubbiamente inadeguata, rispetto agli standard richiesti, la messa in vendita dei prodotti in questione accanto a contenitori per microonde, prodotti per la pulizia dei pavimenti e per gli animali domestici (foto di pag.12 del reclamo già richiamata). Devono pertanto ritenersi lesive del prestigio e dell’immagine del marchio Sisley la commercializzazione, l’offerta in vendita, la promozione e la pubblicizzazione di prodotti di quest’ultima accanto a materiale pubblicitario di prodotti di altre marche, anche di segmenti di mercato più bassi, nella stessa pagina internet. Ancora, appaiono lesivi anche l’accostamento a prodotti non appartenenti alla sfera del lusso e la presenza di link che indirizzano a siti di prodotti del tutto diversi. Infine, la mancanza di un idoneo servizio clienti, analogo a quello assicurato dalla presenza nel punto vendita fisico di una persona in grado di consigliare o informare i consumatori in maniera adeguata, giudicata esigenza legittima da parte della Corte di Giustizia, in quanto riferita alla qualificazione del personale, concorre a compromettere quell’aura di esclusività che ha sempre contraddistinto l’immagine del marchio Sisley, assicurando alla sua titolare fama ed elevata considerazione nel mercato dei cosmetici”;

– conseguentemente, il Tribunale ha “inib(ito) con effetto immediato a Amazon Europe Core S.a.r.l., ad Amazon EU S.a.r.l. e ad Amazon Services Europe S.a.r.l. di commercializzare, offrire in vendita, promuovere o pubblicizzare sul territorio italiano, con le modalità indicate in narrativa”, e segnatamente con le “modalità attuali, descritte al punto 7” dell’ordinanza sopra richiamato, “i prodotti recanti i marchi Sisley” internazionali e comunitari oggetto delle registrazioni azionate nel ricorso.

Il provvedimento cautelare è esecutivo ed i suoi effetti sono stabilizzati ai sensi dell’art. 669 octies, 6° comma c.p.c. e dell’art. 132, 4° comma del Codice della Proprietà Industriale, ferma la facoltà (ma non l’obbligo) di entrambe le parti di intraprendere un giudizio di merito che, quanto al titolare del marchio, sarebbe rivolto anche ad ottenere la condanna di controparte al risarcimento del danno ed alla retroversione degli utili.

Questa pronuncia – che è stato un landmark case seguito da altre pronunce ad esso allineate, sia in Italia sia in altri Paesi dell’Unione Europea – ha dato dunque un segnale molto importante per la tutala dei brand di eccellenza sul web, che conferma ancora una volta come la giurisprudenza italiana sia all’avanguardia ed estremamente ricettiva rispetto alle esigenze di una tutela avanzata dell’immagine e del prestigio dei prodotti di marca, anche nel contesto dell’e-commerce, che ha un ruolo sempre più rilevante nelle abitudini di consumo. Una tutela di cui beneficiano, oltre al titolare del brand, anche i membri della rete distributiva, cui vengono chiesti significativi investimenti al fine di garantire al consumatore un’esperienza di acquisto di alto profilo, anche con riguardo alla presentazione di un’assistenza qualificata al cliente, giustamente enfatizzata dalla decisione milanese, sulla scorta della giurisprudenza comunitaria. E quindi una tutela che si rivolge, in ultima analisi, anche ai consumatori.

I nuovi scenari: i servizi pubblicitari mirati e i profili di possibile responsabilità dei provider

L’ultima frontiera (almeno per il momento) della pubblicità via web è probabilmente rappresentata dai servizi di posizionamento mirato dei banners pubblicitari sui vari siti Internet, collocati in base al comportamento del navigatore, oppure in base all’inerenza col contenuto del sito visitato, ma in entrambi i casi abbinando i riferimenti ad un marchio famoso – perché cercato dall’utente o menzionato, legittimamente, nel sito – con pubblicità e links a siti di terzi che invece a quel marchio sono totalmente estranei: il che presuppone necessariamente un’analisi magari automatizzata, ma comunque mirata e quindi un controllo dei contenuti del sito nel quale banners e links sono inseriti, ovvero di quelli visitati dai surfers.

E lo stesso accade nei social networks, sempre più importanti nell’orientare le preferenze d’acquisto dei consumatori e sempre più spesso utilizzati, oltre che come veicoli per pubblicità di prodotti-copia, anche in abbinamento, sempre in modo “mirato” a banners e links che fanno riferimento ai contenuti inseriti dagli utenti nelle pagine in questione.

In tutti questi casi è anzitutto evidente la responsabilità dell’inserzionista, che può evitare senza difficoltà questi abbinamenti, esattamente come avviene nel caso dei servizi di keywords, dove è possibile escluderli semplicemente abbinando una keyword negativa (il segno meno seguito dal marchio che non si desidera abbinare), per evitare ogni rischio: ed è chiaro che l’illiceità sussiste non solo ogni volta che il contenuto dei banners ed i segni che vi vengono usati si prestano a indurre il consumatore a confondersi sull’effettiva provenienza dei prodotti o servizi offerti[41], ma anche ogni volta che questi prodotti o servizi sono resi più appetibili dal richiamo al segno distintivo altrui.

È però altrettanto evidente che anche in questo caso non può andare esente da responsabilità il gestore del servizio o della piattaforma di vendite on line che, per riprendere le parole della giurisprudenza richiamata sopra, «ha svolto un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte».

È infatti chiaro che in tutti i casi in cui il servizio offerto comprende un posizionamento che dipende proprio dal rapporto tra i dati relativi alle offerte del contraffattore e i riferimenti ai marchi o ai prodotti del titolare dei diritti violati, il prestatore di servizio non può trincerarsi dietro il carattere “automatico” dei meccanismi attraverso i quali il servizio opera, poiché essi sono stati da lui stesso predisposti, ed anzi già questa predisposizione, se è idonea a creare questi collegamenti abusivi, non può non qualificarsi quanto meno come una forma di contributory infringement non diversa, nella sostanza, dall’ipotesi in cui il gestore di un sito internet organizzava «per mezzo di un motore di ricerca o con delle liste indicizzate» le informazioni (fornitegli da alcuni utenti) essenziali perché gli (altri) utenti potessero «orientarsi chiedendo il downloading di quell’opera piuttosto che un’altra»: ipotesi ritenuta illecita, anche penalmente, dalla nostra Corte di legittimità[42].

Tutto questo, ancora una volta, presuppone un ruolo attivo delle imprese a tutela dei propri diritti: con l’adozione degli strumenti preventivi più opportuni per mettere sull’avviso il pubblico; con il monitoraggio e la segnalazione degli illeciti ai gestori dei siti e la richiesta di rimuoverli utilizzando i dati forniti non solo in relazione alla specifica segnalazione, ma anche a quelle dello stesso genere che dovessero nuovamente verificarsi, come di regola avviene, visto che i contraffattori cambiano solo il colore o la foggia del loro “passamontagna telematico” e ricominciano da capo: il che è previsto espressamente dalla Direttiva sul commercio elettronico, che non distingue tra i diversi dati, purché l’intermediario ne disponga effettivamente e che, come abbiamo visto, vieta esclusivamente di imporgli un dovere generale di sorveglianza preventiva, ma in pari tempo gli impone di attuare, servendosi di questi dati, misure effettive non solo di repressione, ma anche di prevenzione degli illeciti.

Esistono dunque, anche nel nostro ordinamento (e forse nel nostro ordinamento più che in altri) strumenti efficaci per il contrasto della contraffazione web; nel loro complesso, anzi, le più recenti pronunce giudiziarie e gli interventi di AGCM e AGCOM sembrano indicare un “salto di qualità” nella lotta alla contraffazione web, che fa leva anche sulla maggiore sensibilità giuridica e culturale che sembra emergere anche nella Magistratura rispetto a questi fenomeni, testimoniata anche da una relazione estremamente circostanziata su forme di contraffazione in rete e responsabilità dei soggetti coinvolti, tenuta recentemente dalla Presidente della Sezione dell’Impresa del Tribunale di Milano (la più importante d’Italia, anche per numero di casi esaminati) dott.ssa Marina Tavassi.

Siamo dunque in un momento decisivo: e una maggiore consapevolezza dei propri diritti e degli strumenti per difenderli in capo alle imprese e alle loro Associazioni può davvero “fare la differenza” e mettere in grado di rispondere in modo pienamente efficace alle sfide della contraffazione web.

Note

  1. Direttiva n. 2000/31/C.E.
  2. Con il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, emanato in forza della delega conferita al Governo dalla legge 1° marzo 2002, n. 39 (Legge comunitaria 2001).
  3. Direttiva n. 89/104/C.E.E., ora divenuta nella versione codificata la Direttiva n. 2008/95/C.E.
  4. Regolamento C.E. n. 40/94, ora divenuto nella versione codificata il Regolamento C.E. n. 207/2009.
  5. Così espressamente Corte Giust. C.E., 16 luglio 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, 1228 e ss. e nella nostra giurisprudenza nazionale App. Milano, 22 luglio 1994, in Giur. ann. dir. ind., 1995, 537 e ss.; Trib. Bologna, ord. 21 agosto 1995, ibidem, 1212 e ss.; Trib. Milano, 20 novembre 1995, ivi, 1996, 501 e ss.; Trib. Treviso, 20 marzo 1996, ibidem, 722; App. Milano, 11 ottobre 1996, ivi, 1997, 395 e ss.; ecc.
  6. Corte Giust. C.E., 30 novembre 2004, nel procedimento C-16/03, punti 50-55 della decisione.
  7. Corte Giust. C.E., 4 novembre 1997, nel procedimento C-337/95, Dior/Evora.
  8. Così ancora Corte Giust. C.E., 4 novembre 1997, nel procedimento C-337/95, cit., punti 43-47 della decisione, che al punto 56 ha ancora ribadito che «il titolare di un marchio non può inibire a un rivenditore, che smercia abitualmente articoli della medesima natura ma non necessariamente della medesima qualità dei prodotti contrassegnati con il marchio, l’uso del marchio conformemente alle modalità correnti nel suo settore di attività al fine di promuovere l’ulteriore commercializzazione di quei prodotti, a meno che non venga dimostrato, alla luce delle circostanze di ciascun caso di specie, che l’uso del marchio a tal fine nuoce gravemente al prestigio del marchio stesso».
  9. Si vedano in proposito Trib. Milano, 23 luglio 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, 838 e ss.; e Trib. Milano, 9 marzo 1987, ivi, 1989, 96 e ss.
  10. In tal senso si veda, da ultimo, Trib. Ancona, Sez. distaccata di Senigallia, in Giur. ann. dir. ind., 2003, 430 e ss.
  11. C. Giust. UE, 23.3.2010, cause riunite C-236/08 a 238/08.
  12. Punto 113 della decisione, che richiama il considerando 42 della Direttiva sul commercio elettronico.
  13. Punto 118 della decisione.
  14. C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09.
  15. Trib. Roma, ord. 9 marzo 2000, che ha riformato in sede di reclamo Trib. Roma, ord. 2 febbraio 2000, entrambe in Foro it., 2000, I, 2333 e ss. e in Dir. inf., 2000, 360 e ss., e la prima anche in Giur. it., 2000, 1677 e ss. (con nota di Candellero) e in Giur. ann. dir. ind., 2000.
  16. Sia il Regolamento (che ha preso il posto della Convenzione di Bruxelles del 1968), sia la Convenzione di Lugano del 1988 (tuttora operante nei rapporti tra i Paesi dell’Unione Europea e quelli del SEE) prevedono un meccanismo di riconoscimento automatico dei provvedimenti giurisdizionali adottati nei Paesi aderenti conformemente alle previsioni delle stesse Convenzioni; al di fuori dell’ambito di operatività delle Convenzioni, il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze straniere sono disciplinati dagli artt. 64 e ss. della legge n. 218/95.
  17. Come aveva in effetti ritenuto, tra l’altro con un’ampia motivazione, il provvedimento reclamato di Trib. Roma, ord. 8 febbraio 2000.
  18. In questo senso si sono espressi in dottrina Cerina, Contraffazione di marchio sul World Wide Web e questioni di giurisdizione, ne Il dir. ind., 1997, 302 e ss. che richiama anche alcuni precedenti americani, uno dei quali, pubblicato per esteso nello stesso luogo, è stato citato anche dal Giudice Designato del Tribunale di Roma nell’ordinanza poi riformata in sede di reclamo; e Galli, Segni distintivi dell’industria culturale, in AIDA, 2000, 391 e ss., a p. 409 e Id., I domain names nella giurisprudenza, Milano, 2001, p.; nel senso dell’idoneità a questo scopo dell’inserimento di disclaimers si veda anche Tosi, Nomi di dominio e tutela dei segni distintivi in Internet tra «domain grabbing», «linking», «framing» e «meta-tag», cit., 186. Ulteriori riferimenti stranieri relativi al problema si leggono in Cohen, Jurisdiction Over Cross Border Internet Infringements, in EIPR, 1998, 294 e ss.; si veda inoltre l’ampia bibliografia straniera richiamata da Cerina, Il problema della legge applicabile e della giurisdizione, in AA.VV., I problemi giuridici di Internet² a cura di E. Tosi, Milano, 2001, pp. 422-424. In argomento cfr. anche Mayr, I domain names ed i diritti sui segni distintivi: una coesistenza problematica, cit., 247-248 (richiamato con approvazione sul punto da T. Tosi, La tutela della proprietà industriale, cit., pp. 240-241), secondo il quale «Un’unica fattispecie si presenta … realmente lesiva dei diritti del titolare del marchio italiano: ed ha luogo quando ad un’offerta in vendita posta sulle pagine di Internet faccia seguito l’effettivo invio del prodotto in Italia», salva la possibilità per il titolare di ottenere «provvedimenti inibitori e cautelari» anche a fronte della mera offerta in vendita; e Musso, Noms de domainee et marques dans l’Internet, cit., p. 59, che considera la mera visibilità del sito una forma di pubblicità passiva di per sé inidonea a ledere altrui diritti e sostiene che «Cette violation se produirait tant dans le cas d’un envoi ‘physique’ successif de la marchandise, pour lequel la connaissance de la localisation des destinataires deviendrait ainsi nécessaire pour la livraison, que dans le cas d’une distribution effectuée sous forme électronique par le réseau même … si la nature ou les caractéristiques du produit, le lieu de paiement etc. permettent de remonter à sa destination ‘réelle’». Nel senso che comunque si debba fare riferimento alla legge del Paese in cui avviene il downloading per stabilire se e quando questo va considerato illecito, si veda Bariatti, Internet e il diritto internazionale privato: aspetti relativi alla disciplina del diritto d’autore, cit., 71. Nella nostra giurisprudenza nazionale, coerente con l’impostazione proposta sopra sembra essere un’affermazione del Tribunale di Verona, secondo cui «Costituisce contraffazione in Italia l’uso confusorio di un marchio italiano altrui nel contesto di un sito Internet straniero e quale domain name del sito stesso, le cui pagine web siano scritte in lingua italiana e siano chiaramente rivolte al mercato nazionale» (così Trib. Verona, ord. 14 luglio 1999); in una prospettiva analoga si è mosso anche il Tribunale di Reggio Emilia, che ha ritenuto che si fosse in presenza di una (possibile) violazione di un marchio in Italia «nel caso di utilizzazione di un domain name registrato all’estero per indirizzare gli utenti (evidentemente anche italiani: n.d.r.) ad un sito web nel quale vengono offerti o pubblicizzati beni e servizi», escludendo viceversa che la mera registrazione di un domain name effettuata all’estero possa costituire violazione di un marchio italiano (così Trib. Reggio Emilia, ord. 30 maggio 2000, pubblicata, come la precedente in Galli, I domain names nella giurisprudenza).
  19. Punti 61 e 62 della decisione.
  20. Punti 64 e 65 della decisione. Sui problemi di giurisdizione e di legge applicabile – e prima ancora di identificazione dei Paesi nei quali può dirsi verificato l’illecito – che si pongono in relazione all’offerta via web di prodotti contraffatorî si veda già Galli, I domain names nella giurisprudenza, Milano, 2001.
  21. Corte Giust. C.E., 12 aprile 2011, nel procedimento C-235/09, DHL France, punti 52 e ss. della decisione; in senso analogo cfr. già Corte Giust. C.E. 14 dicembre 2006, nel procedimento C‑316/05, Nokia.
  22. Nella nostra giurisprudenza nazionale espressamente in tal senso (pur trattandosi di un’affermazione incidentale e priva di motivazione) si è espressa Pret. Roma, 21 dicembre 1994 in Gius, 1995, 545, nel famoso caso che vedeva contrapposti Al Bano e Michael Jackson, secondo cui i provvedimenti cautelari di inibitoria in materia di diritto d’autore potrebbero avere «un contenuto di tutela volto ad espandere i propri effetti in tutto il mondo». Più puntualmente, sempre la nostra giurisprudenza ha avuto modo di stabilire (in tema di denominazioni di origine registrate a livello comunitario) che «Le misure inibitorie concesse ex art. 700 c.p.c. dal giudice italiano che abbia competenza internazionale sulla domanda possono avere efficacia transfrontaliera qualora si dia applicazione a una norma comunitaria regolamentare applicabile uniformemente in tutti gli Stati membri» (così Trib. Bolzano, 22 aprile 1998, in Giur. it., 1999, 112).
  23. Così espressamente l’Avvocato Generale Geelhoed, al punto 41 delle sue Conclusioni presentate il 16 settembre 2004 nel procedimento C-4/03, poi deciso dalla sentenza di Corte Giust. C.E., 13 luglio 2006. Sul tema si veda ampiamente Galli, La Corte di Giustizia C.E. restringe drasticamente lo spazio delle azioni cross-border in materia di brevetti, in Corr. Giur. – Int’l Lis, 2006.
  24. C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09, L’Oréal v. eBay, punti 91-97 della decisione.
  25. Punti 98-105 della decisione.
  26. C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09, L’Oréal v. eBay, punto 116 della decisione.
  27. Punti 118-124 della decisione.
  28. C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09, L’Oréal v. eBay, punti 128-134 della decisione.
  29. C. Giust. UE, 12.7.2011, causa C-324/09, L’Oréal v. eBay, punti 135-144 della decisione.
  30. Così Corte Giust. U.E., 27 marzo 2014, nel procedimento C-314/12, Telekabel.
  31. Così Trib. Cuneo, ord. 23 giugno 1997, in Galli, I domain names nella giurisprudenza, cit., p..
  32. In tal senso Trib. Macerata, ord. 2 dicembre 1998, in Galli, I domain names nella giurisprudenza, cit., p., che su questa base ha ritenuto un service provider responsabile dell’illecito consistente nell’adozione, per un sito da esso ospitato, di un domain name che costituiva violazione dell’altrui marchio e titolo di una pubblicazione.
  33. Espressamente in tal senso Sammarco, Assegnazione dei nomi a dominio su Internet, interferenze con il marchio, domain grabbing e responsabilità del provider, cit., 79 e ss.; e Galli, I domain names nella giurisprudenza, cit., p. ; cfr. anche E. Tosi, Le responsabilità civili, cit., p. 312 e ss. e S.[imona] L.[avagnini], nota a Trib. Torino, ord. 24 luglio 1995, in AIDA, 1996, 570 e ss., a p. 574: tutti questi autori riferivano ampiamente anche delle soluzioni che sono state date riguardo a questi problemi negli Stati Uniti. Si veda inoltre Costanzo, I newsgroups al vaglio dell’Autorità giudiziaria (ancora a proposito della responsabilità degli attori d’Internet), in Dir. inf., 1998, 811 e ss., alle pp. 814-815, che fa leva sull’assenza di poteri di controllo e vigilanza sui contenuti dei siti per negare la responsabilità del service provider rispetto ad essi; Fazzini, Problemi di competenza territoriale e responsabilità dei service providers in Internet, in AIDA, 1999, 675 e ss., alle pp. 683 e ss., il quale, dopo avere escluso che in relazione ai service providers possano venire in considerazione le fattispecie di cui agli artt. 2049, 2050 e 2051 c.c., concludeva che essi «sono soggetti a responsabilità extracontrattuale quando siano a conoscenza dell’illecito consumato attraverso il server di cui hanno il controllo e non si attiv(i)no in tempi ragionevolmente rapidi per impedire all’autore dell’illecito l’ulteriore fruizione del server»; D’Arrigo, La contraffazione del «marchio virtuale»: il caso Altavista, in Dir. inf., 2000, 346 e ss., a p. 358, a sua volta nel senso di non considerare il provider indiscriminatamente responsabile degli illeciti compiuti a mezzo Internet; Palazzolo, Il ‘domain name, in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, 167 e ss., alle pp. 176-179, il quale rinviene «un criterio di imputazione (per la responsabilità extracontrattuale del provider: n.d.r.) nel mancato rispetto delle norme che regolano l’attività di intermediario atipico svolta dal provider»; e Cerasani, Il conflitto tra domain names e marchi d’impresa nella giurisprudenza italiana, cit., 655-658, secondo la quale di regola una responsabilità preventiva sarebbe configurabile «in capo … ai soli service providers, e solo in caso di violazioni macroscopiche ed evidentissime», mentre sarebbe «sempre prospettabile una responsabilità ‘successiva’, dell’uno come dell’altro tipo di providers, per l’omessa eliminazione del messaggio confusorio, qualora la confusione/contraffazione fosse conosciuta o conoscibile a stregua di diligenza professionale».
  34. C. Giust. UE, 22.9.2011, causa C-323/09.
  35. C. Giust. UE, 22.9.2011, causa C-323/09, punto 74 della decisione.
  36. C. Giust. UE, 22.9.2011, causa C-323/09, punto 55 della decisione.
  37. C. Giust. UE, 22.9.2011, causa C-323/09, punti 60-61 della decisione.
  38. C. Giust. UE, 22.9.2011, causa C-323/09, punto 63 della decisione.
  39. C. Giust. UE, 22.9.2011, causa C-323/09, punto 89 della decisione.
  40. C. Giust. UE, 22.9.2011, causa C-323/09, punto 91 della decisione.
  41. In tal senso, a proposito di keywords, ma con considerazioni estensibili anche a questo secondo caso, Trib. Bologna, 1° luglio 2011, n. 1742, inedita.
  42. Cass. pen., 23 dicembre 2009, 1055, relativa ad un noto caso di download illegale di opere protette dal diritto d’autore per mezzo di un sistema c.d. peer to peer.

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