Pechino verso un “indice dei libri proibiti”? Le nuove accuse di censura

Un episodio isolato o un modus operandi praticato da Pechino con modalità estese e capillari? Una scrittrice denuncia WPS Office di spiare e rimuovere i documenti salvati digitalmente, in presenza di presunti contenuti illegali. La Cina (di nuovo) al centro delle polemiche per i limiti alla circolazione delle informazioni

Pubblicato il 05 Ago 2022

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale

Photo by Michael Dziedzic on Unsplash

La notizia di un presunto blocco che il software cinese di elaborazione WPS Office (alternativo all’equivalente competitor occidentale Microsoft Office) avrebbe effettuato nei confronti di una scrittrice, impedendo la pubblicazione di un romanzo ha fatto scattare l’allarme: potrebbero presto materializzarsi, in Cina, gli effetti di un vero e proprio “indice dei libri proibiti”?

Obiettivo, come per il Great Firewall digitale, isolare qualsiasi voce “ostile” alla narrazione ufficiale sostenuta dalle autorità governative, con tecniche restrittive sempre più sofisticate che applicano forme trasversali di censura nei confronti della maggior parte dei media tradizionali e digitali, compresa l’arte, la cultura e la letteratura.

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Il casus belli

Secondo quanto riportato da un recente articolo di approfondimento a cura del MIT – Technology Review, un presunto blocco di WPS Office avrebbe impedito la pubblicazione di un romanzo nella sua iniziale versione di bozza caricata e archiviata su server accessibili da remoto tramite programmi desktop, improvvisamente sparito dalla piattaforma a causa di “contenuti sensibili” ostativi alla diffusione del relativo documento.

L’autrice ha, quindi, accusato la società di “spiare” e rimuovere i documenti salvati digitalmente, in presenza di presunti contenuti illegali giustificativi di un eventuale blocco unilateralmente imposto.

Potrebbe anche non trattarsi di un episodio isolato, ma di un “modus operandi” praticato con modalità ben più estese e capillari, alla luce di quanto segnalato, dopo che la vicenda è stata resa nota all’interno di numerosi forum tematici, da diversi utenti destinatari della medesima “purga” e costretti a disinstallare il servizio. C’è forse sullo sfondo lo zampino della censura governativa di Xi Jinping?

Le smentite

Al netto delle rituali smentite comunicate sulle prospettate restrizioni incriminate, sembra manifestarsi nel caso di specie l’impatto applicativo della disciplina vigente in materia di sicurezza informatica sul complessivo ecosistema digitale, ponendo a carico degli operatori telematici l’obbligo di conformare qualsivoglia servizio online alle stringenti prescrizioni introdotte da Pechino.

Al riguardo, l’azienda, dopo aver precisato di garantire il rigoroso rispetto della privacy individuale, senza effettuare operazioni restrittive, come il controllo, il blocco o l’eliminazione dei file locali dell’utente, ha richiamato esplicitamente la legislazione settoriale cinese che prevede la responsabilità delle piattaforme telematiche per i contenuti illeciti ivi condivisi verosimilmente proprio nell’ottica di giustificare la possibilità di adottare misure di monitoraggio attivo sulle attività veicolate online al fine di assicurare, in regime di controllo preventivo, l’integrale applicazione delle citate disposizioni legislative. In altre parole, WPS sembra così implicitamente confermare l’eventualità, sia pure come extrema ratio, di ricorrere al blocco dei “contenuti sensibili” memorizzati, accedendo ai relativi documenti archiviati dagli utenti, qualora ciò si renda necessario in diretta applicazione delle prescritte norme.

Privacy vs interessi pubblici

Se così fosse, di fatto, comunque non si tratta di una novità assoluta nel contesto cinese. Sono, infatti, frequenti – e pressoché socialmente accettate, nonché giuridicamente autorizzate – le intrusioni nella sfera personale degli individui realizzate con l’avallo (anche indiretto) del governo di Pechino, da cui discende una rilevante compressione del diritto alla privacy sacrificata sull’altare degli interessi pubblici sottesi alla salvaguardia della sicurezza nazionale, nel rispetto di quanto previsto dal documento “Public Pledge of Self-Regulation and Professional Ethics for China Internet Industry”, adottato in attuazione del libro bianco  su Internet, ove è stata formalizzata la centralità della sovranità digitale come prioritario pilastro fondante il sistema regolamentare vigente in Cina.

Il caso di WeChat

Emblematico, in questo senso, il caso di WeChat, approfondito dal report di Citizen Lab, secondo cui, sulla base di una serie di puntuali evidenze documentate, l’app social più popolare in Cina sarebbe in grado di effettuare, anche a fini di un’eventuale rimozione, una massiva sorveglianza di immagini e file condivisi all’interno della piattaforma grazie all’utilizzo di sofisticati algoritmi di censura finalizzati a monitorare i contenuti condivisi dagli utenti. La scansione delle informazioni raggiungerebbe un livello talmente elevato da estendersi persino al flusso comunicativo associato agli account non registrati in Cina. Lo studio descrive nel dettaglio le modalità attuative della censura realizzata mediante l’implementazione tecnica della piattaforma che si avvale di un server centralizzato con il compito di identificare qualsiasi messaggio scambiato tra gli utenti del social per verificare la presenza di possibili parole chiave da rimuovere, prima che giungano al relativo destinatario, ove rientranti in una “lista nera” di informazioni ostili.

Le critiche a TikTok

Dello stesso tenore risultano anche le critiche mosse a TikTok (tra le principali piattaforme dotate di sistemi in grado di tracciare i dati personali dei propri utenti). La società cinese è di recente al centro di una complessa indagine promossa dalle autorità USA per verificare il rischio di possibili problemi di sicurezza, prospettando il pericolo di predisporre un “sofisticato strumento di sorveglianza che raccoglie grandi quantità di dati personali e sensibili”.

Prende forma il “Golden Shield Project”

Rifiutando la visione occidentale dei media, il modello di governance digitale cinese prescrive il controllo centralizzato dei flussi comunicativi esistenti come strumenti essenziali “per la stabilità politica”, imponendo a editori e giornalisti una sottomissione di fedeltà assoluta al Partito di Xi Jinping.

Pertanto, anche alla luce della crescita esponenziale dell’industria dell’editoria e della letteratura registrata negli ultimi anni, le autorità statali hanno applicato una “censura più severa”, mediante una capillare attività di screening virtuale, per garantire la conformazione delle pubblicazioni al rispetto dei valori nazionali generali secondo precisi standard qualitativi stabiliti dal Governo di Pechino funzionali a orientare correttamente l’opinione pubblica, evitando la diffusione di contenuti fuorvianti in grado di destabilizzare la società, mettendo a rischio l’ordine pubblico interno.

In conclusione, prende forma il “Golden Shield Project” come imponente sistema di sorveglianza e censura generale di cui si sta dotando Xi Jinping, grazie al perfezionamento di una vera e propria “arte dell’occultamento”, per consentire di attivare, in via centralizzata e con modalità immediate, il blocco generalizzato dell’accesso alle risorse immesse online.

Si realizza così l’effetto restrittivo di limitare la circolazione delle informazioni in un sistema unidirezionale di contenuti corrispondenti alla narrazione dettata dalle fonti governative ufficiali, trovando peraltro fertile nella società la tendenza culturale all’autocensura, indotta anche dalla previsione di sanzioni e divieti con finalità dissuasive e deterrenti volte ad agevolare la conformazione standardizzata della collettività modellata sulla falsariga del “pensiero unico”.

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