La quarta rivoluzione industriale bussa alle porte dell’Italia. La sfida per il nostro Paese si chiama fabbrica 4.0, ossia l’integrazione tra manifatturiero e nuove tecnologie. La nuova catena di montaggio è fatta di tutto il valore aggiunto che il digitale, in particolare, può dare al prodotto Se non ci colleghiamo a questo nuovo modo di concepire la fabbrica, rischiamo di restare fuori dalla competizione mondiale. L’Unione europea si è fatta carico del tema della fabbrica 4.0, un concetto che nasce nel contesto germanico e del Nord Europa, che l’Italia sta iniziando ad abbracciare soltanto adesso.
Ecco perché a metà settembre sono stato a Stoccarda con una delegazione di Confindustria per visitare Wittenstein, un’azienda 4.0, e il Fraunhofer, il più grande centro di ricerca tedesco, oltre che per incontrare la Bdi (la Confindustria tedesca). Da questa missione sono tornato con tre idee: non c’è qualcosa di incredibile in Germania che sia al di fuori della nostra portata. La vera differenza risiede nel fare squadra e nel concentrare le risorse in pochi grandi centri di ricerca, adottando un metodo. Oggi la dinamica non scorre più dalla fabbrica al prodotto; è il prodotto che stabilisce cosa l’azienda produce. Per questo, l’imprenditore deve comprendere bene cosa vuole il mercato, sapendo adattare in corso d’opera la produzione, grazie ai social, all’elemento umano, al predittivo, ai sensori, ovvero ogni strumento utile che lo tenga in contatto in tempo reale con il mercato e i consumatori. Abbiamo allora bisogno di un’industria sempre più flessibile, dove non dobbiamo però ipotizzare uno scenario dominato da robot. Tutt’altro. L’elemento umano è decisivo nella visione che abbiamo riscontrato in Germania: sarà la risorsa umana – adeguatamente formata, competente e dotata di skill specifiche – al centro della fabbrica 4.0.
Ma in che modo andrebbero ripensati i processi produttivi nel nostro Paese, secondo la logica della nuova fabbrica?
È un problema di cultura d’impresa: non può essere un tecnico o il responsabile IT a portare avanti questa visione. L’imprenditore deve essere consapevole del necessario cambio di marcia e del ripensamento dei processi. Prendiamo, ad esempio, l’e-commerce. Non basta un sito internet per vendere i prodotti. Chi decide di investire in questo senso, deve rivedere packaging, marketing, logistica, magazzino, i prodotti stessi. La Digital Transformation è l’occasione per ripensare e reingegnerizzare i processi produttivi, ma chi guida l’azienda ne deve essere profondamente convinto.
Ma quali fattori risulteranno decisivi nella trasformazione digitale dell’Italia? Il cambio necessario coinvolge processi sociali, economici e di government. Noi non chiediamo soldi alla politica. Serve – a mio avviso – una politica dell’innovazione che concentri i luoghi di ricerca, faciliti, per davvero, le pratiche burocratiche e agevoli le imprese che vogliono investire in questi settori. Serve una politica che metta al centro l’impresa come fattore di sviluppo e innovazione della nostra comunità. Oltre alle parole chiave già indicate – metodo, squadra, dimensionalità – a fare la differenza oggi è il fattore velocità, sia per quanto riguarda la cultura d’impresa a livello imprenditoriale, sia nel cambio di passo della Pa, che troppo spesso si assesta su un’altra dimensione. Resta poi un grande lavoro da fare sul fronte dell’alfabetizzazione digitale. In base ai dati di Fondazione Comunica, il 90 per cento di lavoratori e imprenditori italiani necessita di competenze digitali e il 55 per cento di questi sono inquadrabili come “analfabeti” digitali.