cultura digitale

Cybersecurity, le insidie ignorate degli smartphone: ecco perché la formazione è una priorità

La quantità di dati che generiamo dal nostro smartphone, senza rendercene conto, è impressionante. Per questo quando pensiamo di occuparci della nostra sicurezza è come se la stessimo difendendo con un colabrodo. Partiamo con l’orientamento e inseriamo le tecnologie ad alta intensità di dati nel curricolo scolastico

Pubblicato il 06 Set 2022

Mirta Michilli

direttrice generale della Fondazione Mondo Digitale

privacy social

Il sociologo scozzese David Lyon, che si occupa da tempo di sicurezza e sorveglianza, definisce lo smartphone come un “Personal tracking device”[1]. Secondo Lyon il connettore principale tra persone e “sorveglianti” è il nostro telefonino, che registra anche le nostre reazioni ai fatti, come i like, le condivisioni di contenuti, i commenti.

La pandemia, inoltre, ha accelerato l’uso dello smartphone anche per accedere alle applicazioni di servizio, dalla gestione dell’identità digitale (più di 31 milioni di Spid attivi) a IO, l’app dei servizi pubblici con oltre 30 milioni di download (dati a luglio 2022). Questo significa che i nostri cellulari custodiscono informazioni e dati sempre più preziosi. Ma sono strumenti sicuri o sono vulnerabili?

Quanto (e come) ci spia lo smartphone? Tutte le trappole che ignoriamo

La nostra sicurezza è un colabrodo

Noi ci preoccupiamo soprattutto di tutelare le informazioni “statiche” che definiscono la nostra identità, ma siamo poco consapevoli di cosa facciamo con il telefonino, anche se sta sempre con noi come un’estensione del nostro corpo. La quantità di dati che generiamo, senza rendercene conto, è impressionante. Quando pensiamo di occuparci della nostra sicurezza è come se la stessimo difendendo con un colabrodo: informazioni e dati che ci riguardano scorrono via passando da una miriade di buchi…

Se decidiamo di installare un’app sul nostro dispositivo, forniamo una serie di autorizzazioni leggendo frettolosamente o non leggendo affatto le descrizioni che spiegano cosa viene usato e per quale scopo. Quando facciamo clic su “Accetto” sappiamo davvero su cosa stiamo esprimendo un consenso? Sono testi lunghi, noiosi, confusi, respingenti… Progetti come Trust aWare ci aiutano a capire se stiamo agendo in modo superficiale e cosa possiamo fare per proteggere le nostre informazioni personali. E questa non è un’impresa facile considerando che ci servirebbero più di 70 giorni lavorativi a tempo pieno per leggere le politiche sulla privacy dei servizi usati in un anno! Secondo il rapporto State of Mobile elaborato da App Annie, usiamo le app per quasi cinque ore al giorno, scegliendo tra 21 milioni di applicazioni disponibili tra App Store e Play Store.

Non abbiamo una formazione adeguata: non solo noi che siamo migranti digitali ma anche i nativi digitali, perché a oggi, salvo sporadiche sperimentazioni, le tecnologie ad alta intensità di dati, come l’intelligenza artificiale, non sono ancora entrate nel curricolo scolastico.

Tutte le incognite del nostro cellulare

Ho scelto l’esempio del cellulare perché è diventato lo strumento tecnologico più diffuso e nello stesso tempo è quello che conosciamo meno, più strumento social che vero e proprio terminale di dati. Faccio ancora un esempio. Quanti di noi sanno cos’è il codice Imei? È l’acronimo di International Mobile Equipment Identity e indica il codice univoco associato ad ogni telefono cellulare prodotto, utilissimo in caso di furto del telefono per richiedere alle autorità di pubblica sicurezza di bloccarlo. Telefoni Android e Apple hanno sistemi diversi per trovarlo se avete perso la confezione originale dell’acquisto. Come fare? Basta digitare la domanda su un motore di ricerca per trovare la soluzione.

Le competenze digitali di base

L’ultimo Indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI 2022), nonostante i progressi conseguiti a ritmi sostenuti, ci rivela che ancora oggi oltre metà dei cittadini italiani non dispone neppure di competenze digitali di base. Mentre credo non esistano dati sulla nostra presunzione di sapere, cioè su quanti di noi scambiano il “digital lifestyle”, lo stile di vita digitale, con la padronanza delle competenze minime per lavorare o partecipare. Il cosiddetto effetto Dunning-Kruger porta le persone con bassi livelli di competenza a sovrastimare le proprie abilità e conoscenze. Quando infatti si leggono i dati sull’uso di strumenti e servizi che richiedono perlomeno competenze di base, la percentuale di persone attive è ancora bassa. Ad esempio, solo il 40 % degli utenti di internet italiani fa ricorso ai servizi pubblici digitali, rispetto a una media UE del 65%.

Queste competenze digitali fanno ormai parte a tutti gli effetti delle competenze funzionali che tutti i cittadini dovrebbero possedere in una società della conoscenza inclusiva, perché garantiscono la possibilità di comprendere a fondo i fenomeni del nostro tempo, sempre più complessi e veloci nelle trasformazioni. “Man mano che le tecnologie si sviluppano, si alza sempre più la richiesta di competenze. Non possiamo più permetterci il lusso dell’ignoranza che ci siamo concessi per molto tempo”, sosteneva già molti anni fa Tullio De Mauro, tra i più attenti studiosi dei livelli culturali degli italiani.

Ecco perché non basta più dotare i giovani di un bagaglio fisso di abilità o conoscenze; è necessario che sviluppino resilienza, un ampio corredo di competenze, la capacità di interpretare velocemente i cambiamenti e di rispondere alle trasformazioni. Non possiamo finalizzare le attività di orientamento alla scelta della scuola o dell’università. Dobbiamo investire nell’orientamento come processo continuo che aiuti nuove e vecchie generazioni a leggere le coordinate per stare al mondo, a comprendere la realtà che cambia in continuazione a ritmi sempre più veloci. Solo così possiamo formare giovani orientati al futuro, capaci di capire come si trasforma il mercato del lavoro, esplorare le nuove professioni emergenti costruite su conoscenze e competenze multidisciplinari.

Comprendere quanto un cellulare ci renda vulnerabili se non ne padroneggiamo il funzionamento con adeguate competenze digitali, ci aiuta a visualizzare con più efficacia quanto abbiamo bisogno di formazione continua e di una scuola aperta a quello che succede nel mondo. Con un’adeguata formazione scolastica e una vera cultura digitale è facile capire quanto siano strategiche le figure degli esperti in sicurezza informatica. Secondo l’Agenzia nazionale per la cybersicurezza in Italia servono almeno 100mila figure specializzate, perché siamo il terzo paese al mondo più colpito da attacchi ransomware. La cybersecurity è un investimento sociale di interesse collettivo, non riguarda solo hacker, super esperti o squadre speciali. Per questo stiamo lavorando con le scuole e soprattutto i giovani (vedi Ambizione Italia per la cybersecurity), ma non solo, perché non dobbiamo dimenticarci di formare anche i cittadini più vulnerabili.

Note

  1. Tecnologia e diritti, Il tuo smartphone ti sorveglia, L’Espresso, 17 luglio 2022

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