l'analisi

Occidente contro le big tech? Ma nulla intacca lo strapotere

Nonostante tutti gli attacchi al loro strapotere negli Usa e in Europa ben poco si è finora concretizzato per mettere un freno alle Big Tech. E il Financial Times si chiede se sia il momento giusto, oltreoceano, per intervenire. In Cina, invece, il contrasto è sempre più stringente. Ecco perché

Pubblicato il 09 Set 2022

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano

big tech

Hanno convenienza gli Stati Uniti – in un momento per giunta caratterizzato da una tensione fortissima a livello politico-militare (con la Cina in primo luogo e con la Russia) e da una crescente spinta a un faticoso e costoso processo di deglobalizzazione – a distruggere il settore di gran lunga di maggior successo cresciuto a casa loro, quello dominato dalle cosiddette Big Tech?

È la domanda che si pone il Financial Times nella nota rubrica Lex (“Tech regulation: change is coming, but it’ll take a while – It remains unclear how far the US will go to hobble its most successful home-grown sector”), osservando che nonostante tutti gli attacchi al loro strapotere negli Usa e in Europa (UE e UK) ben poco è successo finora.

Antitrust e big tech, accelerano anche gli Usa: quali impatti delle norme

Gli ostacoli che frenano l’azione Usa contro le Big Tech

Si sottolinea poi che è tutt’altro che chiaro se la nuova filosofia portata avanti da Lisa Khan, capo della Federal Trade Commission, che vorrebbe bloccare le acquisizioni “verticali” (anche piccole) oltre alle “orizzontali”, avrà successo nei tribunali e al limite presso la Corte Suprema.

E si osserva ancora anche come l’Antitrust bill – “American Innovation and Choice Online Act” la denominazione precisa – copromosso (a testimonianza dell’iniziale favore bipartisan) dalla senatrice democratica Amy Klobuchar e dal senatore repubblicano Chuck Grassley, volto primariamente a evitare che le imprese tech con una capitalizzazione di oltre 550 miliardi di $ (sostanzialmente le Big Tech) privilegino i loro prodotti e servizi nelle piattaforme di cui sono gatekeeper, si sia incagliato sul tema politicamente sensibile della content moderation, sul potere e la responsabilità (con il conseguente rischio di incriminazione) delle Big Tech stesse di escludere dalle loro piattaforme i portatori di fake news e di incitazioni all’odio.

La lotta alla misinformation

Un tema politicamente sensibile, questo della online misinformation, in tutto il mondo occidentale: in una recente indagine condotta in 19 Paesi dal Pew Research Center su quali siano considerate le maggiori minacce, riportata dal New York Times, esso risulta al secondo posto sia nella classifica totale, alle spalle del cambiamento climatico globale, sia in quella relativa agli US (ove il cambiamento climatico è solo al settimo posto), alle spalle dei cyberattacchi provenienti da altri Paesi.

Ed è proprio la molteplicità e la diversità degli obiettivi – promuovere la concorrenza, salvaguardare la privacy, combattere le distorsioni informative e le incitazioni all’odio – che, secondo Lex, rende più facile il lavoro ai lobbisti: che possono giocare anche sul fatto che, a differenza di un anno fa, i cittadini-consumatori sono più preoccupati dell’inflazione che del potere delle Big Tech; e che i servizi erogati gratuitamente, dai motori di ricerca e dai social network, continuano a essere estremamente popolari.

Il contrasto della Cina al potere delle Big Tech

Assolutamente più determinata, dall’altra parte del Pacifico, la posizione che Xi Jinping ha assunto – da due anni a questa parte – nei riguardi delle Big Tech cinesi, Alibaba e Tencent in primo luogo (ma non solo): una posizione volta sostanzialmente a distruggerle, per l’eccessiva visibilità dei loro capi e – forse ancor più – per l’enorme quantità di dati di cui esse disponevano sulle abitudini dei cinesi. Con una serie di conseguenze non positive per l’economia e soprattutto per i giovani, con una rinuncia a sfruttare il prestigio internazionale di cui godevano (e di cui Tencent gode tuttora anche se in misura minore), a favore però di un modello di stato che – secondo l’interessante interpretazione di The Wall Street Journal (“The Two Faces of China’s Surveillance State: The government’s new social contract promises the security and convenience of a perfectly engineered society to those who don’t resist.”) – utilizza la conoscenza dei dati e l’intelligenza artificiale da un lato per combattere le minoranze ostili come gli uiguri, ma dall’altro per rendere la vita più facile (con una serie di servizi che la tecnologia rende possibili) a chi invece accetta il contratto sociale proposto da Xi.

Un nuovo contratto sociale che, secondo gli autori dell’articolo, nasce da uno stato di necessità, dalla difficoltà in particolare del Paese – dopo una lunghissima crescita che lo ha portato a essere una potenza globale e ha proiettato il suo PIL a poca distanza da quello statunitense – a mantenere il ritmo di crescita: per una serie di ragioni, fra cui il livello di indebitamento raggiunto, l’invecchiamento della popolazione tra i più elevati del mondo, le modalità con cui ha gestito e continua a gestire la pandemia, almeno in parte il tech backlash e in misura sicuramente molto rilavante (per le conseguenze sul livello di attività dell’industria delle costruzioni) per lo scoppio della bolla immobiliare.

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