Transizione green

ESG nelle mani della finanza, servono standard condivisi: tutti i nodi da sciogliere

Lo sviluppo degli ESG è spinto dagli investitori finanziari e dalla normativa: ecco perché i rischi sono uno scollamento con gli interessi della collettività e il confinamento della sostenibilità alla compliance

Pubblicato il 17 Ott 2022

Riccardo Giovannini

EY Italy, Climate Change and Sustainability leader

DL Energia: fotovoltaico e pompe di calore promuovono la transizione energetica delle imprese

La straordinaria crescita dell’attenzione sui temi della sostenibilità e dell’ESG (+53%) e il conseguente sviluppo di pratiche operative delle aziende si trova oggi ad affrontare delle sfide importanti: una definizione condivisa di cosa significa la sostenibilità nelle aziende e quali debbano quindi essere i conseguenti sistemi di rating e valutazione.

Il fattore sociale nell’ESG: come attivare strumenti operativi per il lavoro sostenibile

Non è un mistero, infatti, che molte aziende ricevano, a seconda dell’agenzia di rating o dei sistemi di analisi, delle valutazioni sostanzialmente diverse ed è un fatto che i portafogli di investimento composti da aziende cosiddette sostenibili siano diventati così ampi che le loro performance non si discostano da quelle dell’insieme delle aziende quotate.

In ultimo, non è difficile ascoltare pubblicità che promuovono valutazioni ESG pressoché automatizzate, quasi in una logica “self service” al punto da interrogarci sulla credibilità dei soggetti erogatori di questi servizi in un futuro prossimo.

Le cause dello sviluppo degli ESG

Negli ultimi anni lo sviluppo degli ESG e della sostenibilità è stato indotto per una parte importante dagli investitori e, per un’altra, dall’input del legislatore europeo che sta progressivamente regolando la materia a beneficio, in primis, proprio degli investitori stessi. Investitori che appaiono essere sempre più numerosi e “sostenibili” tanto che nel 70% dei casi confermano la volontà di voler investire in realtà attente al proprio impatto sociale e ambientale.

Nel contempo, analizzando più in profondità le modalità operative con cui si interfacciano con le aziende, il loro “muoversi” appare più il risultato di un ossequioso “following” al “mantra sulla sostenibilità” affermato già qualche anno da Larry Fink, CEO di Blackrock, che non una reale e consapevole convinzione che tali concetti vadano seriamente e concretamente applicati per il bene della collettività.

A questo si aggiunge l’azione del legislatore europeo, e a seguire quelli nazionali, che già da qualche anno, e molto di più nei prossimi anni, stanno accrescendo le indicazioni e i vincoli che, in tema di informativa pubblica, le aziende devono fornire a beneficio in primis, ancora una volta, dell’investitore finanziario.

Da questi elementi, che stanno caratterizzando lo “scenario della sostenibilità” pare evincersi che lo sviluppo di un tema così rilevante – che riguarda lo sviluppo strategico delle aziende e gli interessi di tutti i suoi stakeholder – sia indotto prevalentemente non solo da un solo stakeholder, ossia quello finanziario, ma proprio da quello che storicamente ha più di altri dimostrato una scarsa attitudine e sensibilità verso i temi ambientali e sociali. Si configura, quindi, una situazione di squilibrio fra quelli che sono gli interessi della collettività, intesa come comunità di diversi stakeholder attenti all’argomento, e i soggetti che sono chiamati a tutelarli.

Una dimostrazione estremamente concreta e pragmatica di questa situazione è riscontrabile nella prevalente attenzione che lo stakeholder finanziario presta prevalentemente alla gestione del rischio di “non sostenibilità” delle imprese, perfettamente consistente con la consolidata cultura della “gestione del rischio” che pervade nel profondo l’operatività delle istituzioni finanziarie, piuttosto che allo sviluppo strategico delle stesse imprese e di una contestuale riduzione significativa dei loro impatti.

ESG: serve rifocalizzare il tema

Quindi cosa sta accadendo? Cosa si dovrebbe fare? Probabilmente sarebbe utile provare a rifocalizzare il tema, cercando innanzitutto di fissare una definizione del concetto di sostenibilità nelle aziende che sia condivisibile non solo dalle società di rating ma, in primis, da tutti gli stakeholder (consumatori, comunità, lavoratori).

Attraverso questo passaggio sarà, conseguentemente, possibile misurare realmente l’impegno delle aziende e convergere verso una sorta di uniformità delle valutazioni delle prestazioni di sostenibilità al pari di come oggi avviene per quelle di carattere economico e finanziario.

È del tutto noto, infatti, che sulle valutazioni economiche e finanziarie possono formarsi delle opinioni diverse in funzione delle diversa interpretazione che può essere attribuita ad alcuni indicatori, ma certamente la scelta di “cosa focalizzare” e ”cosa misurare” sono elementi ormai già acquisiti, chiari e condivisi, mentre nelle performance di sostenibilità delle aziende questo non lo è affatto.

Tali riflessioni risultano ancor più rilevanti in quanto in questa fase, dove la normativa sta avendo un’accelerazione molto forte, esse consentirebbero di minimizzare il rischio, di cui già si colgono i primi segnali, che la sostenibilità venga relegata ad un tema di compliance normativa, come tanti altri dell’operatività delle aziende, con buona pace dell’aspettativa di un reale e concreto contributo delle aziende allo sviluppo sostenibile della nostra società civile e dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Le questioni normativa e tassonomica

Ma la normativa non dovrebbe di per sé dare un contributo proprio nel fare maggiore chiarezza? Non dovrebbe proprio intervenire sul concetto di sostenibilità delle aziende e definire elementi attraverso cui poterla valutare? La risposta dovrebbe, usando prudenzialmente il condizionale, essere positiva, ma ovviamente qualche dubbio sussiste.

La tassonomia, che ha lo specifico obiettivo di dare uniformità di definizione e interpretazione a questa tematica, sta realmente andando a svolgere questo ruolo? Il nuovo standard di rendicontazione della sostenibilità, la CSRD, in corso di finalizzazione, sta andando nella direzione di una reale e pragmatica applicabilità da parte delle migliaia di imprese, che ne saranno coinvolte entro i prossimi due anni? Se ci poniamo queste domande dopo aver evidenziato, all’inizio di questo scritto, alcune aree di miglioramento è evidente che sussiste più di un dubbio.

Ancor di più, sarebbe utile valutare se gli strumenti già disponibili vadano rivisti, fino anche alle loro basi se necessario, o se invece sia più opportuno continuare ad “accatastare” indicazioni e/o prescrizioni che rischiano di generare, per molti stakeholder, più confusione che chiarezza e di ostacolare, di fatto, questa consapevolezza di sostenibilità che ha raggiunto una rilevanza e attenzione presso la maggior parte degli stakeholder mai registrata in passato.

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