Nel mondo delle professioni digitali, è come se domanda e offerta fossero due rette parallele che non si incontrano. Un vero e proprio paradosso composto, da un lato da aziende hanno un bisogno senza precedenti di competenze, dall’altro da un tasso di occupazione che resta stagnante
Come reazione e possibile soluzione a questa situazione, si registra un boom dei cosiddetti “coding bootcamp”, corsi intensivi di 3-6 mesi formano gli studenti a scrivere e testare righe di codice con un approccio diventato fortemente pratico. Le premesse sono buone, ma non mancano le criticità.
Gap di competenze: i numeri del paradosso
Per comprendere a pieno lo scollamento tra domanda e offerta nel settore delle competenze digitali, prendiamo i dati di due recenti studi.
Il primo è a firma di Microsoft e ci dice che alle aziende serviranno 98 milioni di sviluppatori di software entro il 2025. Purtroppo, l’Europa è particolarmente indietro in questa corsa alla digitalizzazione. Secondo i dati del nuovo studio di EitDigital, il gap di professionisti digitali nei paesi dell’Unione Europea potrebbe superare quota 6 milioni. A questo si aggiunge un secondo dato preoccupante: la crescita costante dei NEET, giovani che non studiano e non cercano lavoro, una fascia di popolazione ad alto rischio di marginalizzazione sociale.
Nascita e boom dei coding bootcamp
I primi coding bootcamp sono nati nel 2011 negli Stati Uniti ed avevano per lo più una formula tradizionale (corsi offline con molta teoria). Nascevano sull’onda degli hackaton e degli startup weekend: eventi intensivi di qualche giorno o di qualche settimana in cui si realizzavano app e/o si mettevano sul mercato intere startup.
Oggi invece i bootcamp sono diventati online, le startup si sono dotate di piattaforme (LMS, learning management software) per fare training e per aiutare gli studenti a scrivere e testare righe di codice e soprattutto il format di formazione è diventato fortemente pratico. L’obiettivo dei coding bootcamp è mettere sul mercato giovani programmatori con una prima infarinatura di programmazione pronti per entrare con ruoli junior o da tirocinanti nelle aziende che hanno bisogno di sviluppatori. Per raggiungere questi obiettivi in poche settimane, le startup hanno sfrangiato i corsi della parte teorica, hanno creato format educativi molto pratici e creato piattaforme in grado di aiutare gli studenti a scrivere e testare codice.
Coding a scuola: quanto è diffuso in Italia e le nuove frontiere di applicazione
Le principali startup edtech italiane
In Italia ci sono diverse startup che operano nel settore, alcune delle quali stanno crescendo in maniera importante. È il caso di Boolean Careers, Epicode, Develhope. Alcune di queste startup hanno fatto accordi con banche e istituti finanziari per creare linee di finanziamento per i propri corsisti. In alcuni casi il modello di business è basato su una sorta di condivisione del rischio con gli studenti. In specifiche condizioni, gli studenti non pagano il corso subito, ma solo una volta trovato lavoro nel settore della programmazione. Questa formula è nata negli Stati Uniti, ma ora si sta diffondendo anche nei bootcamp europei ed italiani. E per coloro invece che possono pagare il corso, sono disponibili convenzioni con istituti di credito per poter pagare a rate i bootcamp.
NEET nel mirino dei coding bootcamp
Il target dei coding bootcamp è rappresentato dai NEET – giovani ad altissimo rischio esclusione, che, disillusi, non avanzano negli studi e non cercano lavoro. Ed è proprio su questi giovani, che un boost come quello dei bootcamp potrebbe fare la differenza.
Che il settore sia in esplosione non lo dimostra solo la crescita delle principali startup di coding ma anche la facilità di raccolta capitale e la frenesia di operazioni di M&A nel settore. Boolean Careers si è fusa con il gruppo Alpha Test (azienda specializzata in test di ammissione universitari), Epicode invece si è integrata con Strive School (azienda partecipata da YCombinator, l’acceleratore di startup più blasonato del mondo) e ha nei mesi scorsi raccolto 10 milioni di euro per accelerare la crescita. Develhope invece si sta sviluppando al Sud, un mercato particolarmente a rischio di divario lavorativo, dove disillusione, mancanza di opportunità e rischio di fuoriuscita definitiva dal mondo del lavoro sono possibilità molto concrete.
I corsi proposti dai coding bootcamp
La maggior parte dei corsi proposti dai bootcamp ruotano intorno al verticale della programmazione per il web (corsi per diventare front end developer, full stack developer, java developer, etc). Alcuni corsi sono invece realizzati su specifici framework di sviluppo di aziende tech (come Salesforce) e/o cofinanziati da aziende partner. L’integrazione con il mondo del lavoro è parte integrante del modello di business di queste realtà, che a differenza dei corsi universitari in computer science intercettano i bisogni di aziende e i cambiamenti nei linguaggi di programmazione in modo molto più efficace e rapido. Offrendo opportunità concrete ai propri corsisti. In alcuni casi, sono le stesse aziende che hanno bisogno di sviluppatori a finanziare i corsi. Ed anche questa è una rivoluzione: invece di fare recruiting le aziende formano personale.
I punti critici dei coding bootcamp
Non mancano le critiche. La principale è che in 3-6 mesi non si diventa programmatori. I format pratici e operativi dei coding bootcamp permettono agli studenti di avere una prima infarinatura della professione di sviluppatore. Ma servono anni per avere la capacità di risolvere problemi complessi di programmazione. Il risultato è che buona parte dei corsisti, una volta terminati i bootcamp, finiscono in ruoli di stage o tirocinio e hanno competenze decisamente superficiali. Questo fa cortocircuito con le promesse di carriere importanti che alcuni bootcamp promettono ai propri corsisti. È dunque necessario un fine tuning del modello, ovvero fare promesse più adeguate alle competenze generate attraverso i corsi per non disattendere le aspettative una volta finito l’hype mediatico.
Considerazioni critiche a parte, non si può negare però che queste startup si fanno carico non solo degli onori del mercato ma anche degli oneri. Parte dei ricavi dipendono direttamente dalle assunzioni degli studenti e questo significa fare imprenditoria sociale, in un tempo complesso come il nostro. Soprattutto in segmenti critici come i NEET l’aprire una porta verso la professionalità è già di per sé lodevole. Sarà dunque molto interessante seguire nel tempo queste realtà e vedere come il modello evolverà sulla base della risposta del mercato e degli studenti.