Recenti fatti di cronaca, concernenti presunte attività illecite svolte da alcuni influencers, consentono di mettere in luce la necessità di regolamentare un settore produttivo, come quello dei creator digitali, che cresce costantemente e genera nuove forme di ricchezza digitale, che, tuttavia, sfuggono sempre più spesso all’imposizione fiscale.
Per questo motivo è auspicabile l’inizio di un percorso di revisione dell’IRPEF che tenga debitamente in considerazione la libertà di iniziativa economica privata degli influencers, ma che al contempo sia in grado di adeguare il prelievo tributario alla rivoluzione digitale e di prevenire l’occultamento di fonti di reddito.
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La necessaria regolamentazione dell’attività professionale degli influencers
Come noto, in tempi recenti, in seguito a una segnalazione di operazioni bancarie sospette, il Nucleo speciale di Polizia valutaria di Roma ha trasmesso al Nucleo di Polizia Economico – Finanziaria della Guardia di Finanza di Ravenna un’indagine per riciclaggio relativa all’attività di influencer svolta, in particolar modo, da tre soggetti.
Secondo gli inquirenti, questi ultimi avrebbero ricevuto corrispettivi dalle sedi amministrative estere degli stessi social network sui quali operavano e altri compensi – anche mediante accrediti su carte prepagate – incassando all’incirca 400.000 euro in totale evasione di imposte.
L’attività professionale di influencer, non ancora opportunamente regolamentata[1], può essere inquadrata, tra le varie ipotesi, quale prestazione occasionale di lavoro autonomo di tipo artistico-professionale. Nello specifico, il soggetto che affronta professionalmente, in maniera continuativa, detta attività, è tenuto a riferirsi alle “categorie tradizionali, e solitamente tende a presentarsi come un imprenditore, oppure come un libero professionista, benché il più delle volte tale non sia nella realtà dei fatti[2]”, in particolar modo se ad essere considerati sono gli influencer che non raggiungono, stabilmente, specifiche soglie di reddito.
Influencer, i quesiti di natura costituzionale e tributaria
Dal caso che ci occupa, in effetti, sono emersi quesiti di natura costituzionale e tributaria, mostrando peraltro anche una certa tangenza anche al «penalmente rilevante». A tal fine, occorre dunque chiedersi: secondo quali regole può intendersi tutelata l’iniziativa economica privata degli influencers? Come riformare l’impianto normativo vigente allo scopo di adeguare il prelievo tributario alla rivoluzione digitale in atto e di prevenire l’occultamento di fonti di reddito? In quale momento, qualora i redditi non siano stati opportunamente dichiarati, può essere integrato il reato (finanche) di riciclaggio?
Il rinnovato art. 41 Cost.[3], nel sancire la libera iniziativa economica privata, prevede che la stessa non possa essere svolta in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, riservando alla legge il potere-dovere di determinare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali».
Il citato principio costituzionale, pertanto, pretende dal privato il rispetto di specifiche regole, le quali devono pur sempre essere in astratto ben individuate dal legislatore di riferimento. Tuttavia, come si vedrà più avanti, occorre evidenziare che ad oggi, in Italia, permangono – nonostante apprezzabili sforzi di auto-regolamentazione – ampie lacune normative all’interno del settore di riferimento, il quale risulta perlopiù appoggiato su di una prassi che non sempre è in grado di garantire gli interessi tutti dei lavoratori-influencers[4].
Può capitare, e nel caso che qui ci occupa sembrerebbe poter essere una chiave interpretativa, che i medesimi professionisti non conoscano le specifiche modalità operative (si pensi al fatto che diventano influencers sempre più i giovani e i giovanissimi) e che l’assenza di uno specifico ordine professionale, e delle relative regole di settore, non consentano di comprendere come e in quali tempi porre in essere i necessari adempimenti fiscali, o secondo quale criterio stipulare un tipo di contratto piuttosto che un altro.
In questo contesto, un altro aspetto da rilevare riguarda la condotta assunta come penalmente rilevante ai sensi dell’art. 648-bis c.p. (delitto di riciclaggio). Le indagini della Guardia di Finanza, in particolare, hanno fondato il sospetto di un’attività di riciclaggio sulla base del fatto che gli influencers in questione avrebbero ricevuto compensi dalle sedi amministrative estere dei social, così ostacolando l’identificazione della supposta provenienza delittuosa dei proventi.
A ben vedere, ai fini della configurabilità del reato di riciclaggio, la condotta del soggetto agente deve essere in concreto idonea ad ostacolare l’identificazione della provenienza del bene, non essendo sufficiente la sola ricezione di somme oggetto di distrazione[5]. Pertanto, l’elemento essenziale consisterebbe nell’idoneità del comportamento antigiuridico a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene, in presenza del quale il concreto intento di lucro renderebbe palese la volontà di compiere un’attività di riciclaggio.
Dai fatti narrati, tuttavia, non sembrerebbe poter emergere tale volontà; il denaro, in effetti, veniva ricevuto dall’estero unicamente perché le sedi amministrative dei vari social erano poste al di fuori dei confini territoriali italiani, e i giovani influencers, proprio secondo i fatti narrati, non avrebbero realizzato alcuna attività volta ad ostacolare l’identificazione della provenienza dei frutti del loro lavoro.
La tassazione dei proventi degli influencers
Come noto, l’elemento fondamentale che caratterizza l’attività professionale dell’influencer è il numero di followers, il cui ruolo nella genesi del reddito è assimilabile a quello di un fattore di produzione tradizionale.
Nello svolgimento quotidiano della propria attività, infatti, l’influencer si avvale di un capitale immateriale (i.e. il seguito virtuale) che si combina con gli altri fattori produttivi e sfocia nel confezionamento del contenuto digitale da cui sono ricavati i profitti[6]; il seguito virtuale, pertanto, condiziona notevolmente il processo di erogazione del contenuto virtuale, determinando, in concreto, l’insorgenza di una posizione influente sul mercato che esprime un indice di ricchezza e, quindi, di capacità contributiva[7], che, come tale, è suscettibile di imposizione fiscale.
Si può dunque affermare che gli influencers sono portatori di una capacità contributiva autonoma e del tutto nuova rispetto agli indici di ricchezza applicati sino ad oggi, coincidente con la forza economica che un elevato numero di followers sui social network è in grado di garantire.
Ciò posto, occorre domandarsi se tale manifestazione di ricchezza sia intercettabile, ai fini fiscali, dall’impianto normativo vigente.
In attesa di una presa di posizione ufficiale da parte dell’Amministrazione Finanziaria, la difficoltà di ricondurre i compensi percepiti dagli influencer nelle categorie reddituali di cui all’art. 6, comma 1 del T.U.I.R. deriva essenzialmente dalle concrete modalità di svolgimento delle attività promozionali e dall’organizzazione sottostante.
In questo senso, l’assetto normativo vigente non sembra cogliere a pieno le peculiarità della rivoluzione digitale in atto. I ricavi degli influencers, infatti, sfuggono alle maglie di un’imposizione fiscale superata e inadeguata, in quanto la disciplina vigente ignora le caratteristiche di un settore produttivo che cresce a ritmi vertiginosi, coinvolge milioni di utenti e genera miliardi di euro di profitti in tutto il mondo.
A fronte di tale lacuna normativa, sussistendo in concreto un indice di capacità contributiva riconoscibile, quale il numero di followers, emerge con evidenza la necessità di riformare il sistema vigente di tassazione dei lavoratori autonomi, adeguandolo alle nuove forme di produzione della ricchezza digitale[8].
L’obiettivo dell’intervento normativo non dovrebbe consistere in un inasprimento della tassazione degli influencers, bensì nella puntuale definizione dei “confini” della base imponibile IRPEF a essi riferibile, basata su un’indagine esaustiva delle attività svolte e dei servizi prestati; in altri termini, occorrerebbe agevolare l’azione accertativa dell’Amministrazione Finanziaria, conferendo in tal modo maggiore certezza al prelievo fiscale su una categoria sinora scarsamente considerata dal Legislatore.
In particolare, l’intervento chiarificatore del Legislatore potrebbe riguardare la riconducibilità delle attività remunerate degli influencers nell’ambito delle “arti o professioni” menzionate dall’art. 53, comma 1 del T.U.I.R., ovvero in quello dell’esercizio dell’impresa.
Come evidenziato da alcuni studiosi di diritto tributario[9], infatti, non è agevole far “combaciare” gli elementi che il T.U.I.R. prende in considerazione ai fini dell’inquadramento della fattispecie concreta con le caratteristiche degli influencers: a tal fine, infatti, non è chiaro se il confezionamento dei contenuti digitali possa ricomprendersi nel concetto di “arte”, né se possa presentare la natura intellettuale che tradizionalmente caratterizza diverse attività produttive di reddito di lavoro autonomo.
Le considerazioni svolte, invero, possono essere estese anche al carattere di “professionalità” delle attività svolte, richiesto dall’art. 53 del T.U.I.R. Il rischio, come emerge della prassi dell’Amministrazione Finanziaria, è che le diverse forme di ricchezza attribuibili agli influencers siano erroneamente ricondotte nel “calderone” dei redditi diversi; tale qualificazione reddituale, invero, se da un lato assicura l’assoggettamento a imposta, dall’altro non garantisce un’applicazione del tributo adeguata alle peculiarità delle attività svolte sulle piattaforme digitali dagli influencers.
Quanto alla possibilità di applicare alla ricchezza prodotta dagli influencers il regime tipico del reddito d’impresa ex artt. 6 e 55 del T.U.I.R., se l’economicità dell’attività emerge dalla ricchezza prodotta, il fattore organizzativo sembra ancora piuttosto difficile da definire.
In questo senso, occorre domandarsi se la combinazione dell’utilizzo di piattaforme digitali, dispositivi mobili, profili social e di un seguito virtuale, possa far ritenere che la prestazione del servizio reso dall’influencer sia organizzato in forma di impresa. Anche su questo aspetto è auspicabile un chiarimento da parte del Legislatore, che si esprima in termini netti sulla “linea di demarcazione” tra i redditi da lavoro autonomo e reddito d’impresa.
Conclusioni
Da ultimo, come rilevato dall’Associazione Italiana Influencer[10], in Italia non sono attualmente previsti codici ATECO specifici per la categoria generale degli influencer/creatori digitali e, particolare, per le figure professionali che in essa devono intendersi ricomprese (i.e. streamers, content creators, podcaster etc.).
Di conseguenza, il Legislatore dovrebbe intervenire anche sull’integrazione dell’attuale sistema NACE-ATECO, individuando un’apposita classificazione per le attività svolte dai soggetti ricompresi nella categoria degli influencer/creator digitali, focalizzando l’attenzione sulla crescente concentrazione di giovani che esercitano tali professioni, il cui operato potrebbe essere danneggiato dalla mancanza di un impianto normativo che tenga debitamente in considerazione le trasformazioni della società in cui viviamo.
Note
- Sul punto si veda, tra gli altri, T. Treu, Rimedi, tutele e fattispecie: riflessioni a partire dai lavoratori della Gig economy, LD, 2017, 3/4, 395 ss. ↑
- Così L. Torsello, Il lavoro degli influencers: percorsi di tutela, Labour&Law Issues, vol. 7, n. 22, 2021, 5. Profilo affrontato ormai anche dalla giurisprudenza di legittimità: ex plur, Cass., 25 settembre 2012, n. 16924; Cass., 29 gennaio 2016, n. 1748. ↑
- V. L. cost. 11 febbraio 2022, n. 1, recante “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente”, pubblicata nella G. U. n. 44 del 22 febbraio 2022. ↑
- Si pensi che negli Stati Uniti e nel Regno Unito sono stati di recente inaugurati specifici sindacati di categoria con poteri di indirizzo legislativo. Si tratta dell’American Influencer Council (AIC) e del Creator Union (TCU). ↑
- Sul punto, per approfondire, si rimanda alla Sentenza Cass. Pen., 18 gennaio 2018, n. 5459. ↑
- Sul punto si veda anche Spinello, Influencer: le tasse da pagare per i redditi prodotti dal marketing digitale, in AgendaDigitale.eu, 25 maggio 2022. ↑
- Sul punto cfr. scarascia mugnozza, Prime riflessioni sulla tassazione degli influencers, in Riv. dir. trib. int., 2021, 2, p. 134, secondo cui “si rammenta che secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale la capacità contributiva, intesa come idoneità del soggetto ad eseguire la prestazione coattivamente imposta, “deve essere desumibile dalla concreta esistenza del presupposto economico, al quale va ragguagliato l’ammontare del prelievo”. ↑
- Sul punto si veda anche Scarascia Mugnozza, op. cit, p. 145 ↑
- Al riguardo si vedano Magliaro- Censi, Dall’immagine alla notorietà: la tassazione delle nuove forme di ricchezza nell’epoca dei social, in Il Fisco, 2021, 20, p. 1921 ss.; Scarascia Mugnozza, op. cit., p. 146. ↑
- Sul punto cfr. Ierussi-Monteleone, Partita IVA per influencer e content creator: primi passi verso l’inquadramento fisco previdenziale, in AgendaDigitale.eu, 13 settembre 2022. ↑