LA GUIDA

Perché lo smart working conviene ad aziende e lavoratori

Non è soltanto un modo di lavorare, lo smart working può diventare uno stile di vita capace di rivoluzionare il quotidiano di ognuno e non soltanto nella sfera professionale

Pubblicato il 08 Nov 2022

Giuditta Mosca

Giornalista, esperta di tecnologia

smart working

Lo smart working è tema diventato attuale grazie alla spinta pandemica ma ha origini più remote e non è soltanto un modo di lavorare, perché porta con sé molti cambiamenti in diversi ambiti. I datori di lavoro e i manager devono affidarsi a procedure e metodi di verifica innovativi, i lavoratori hanno occasione di trovare un nuovo equilibrio tra vita professionale e privata. Ma non si esaurisce tutto qui: vediamo benefici, come gli impatti sul caro bollette, e le sfide da affrontare.

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Cosa si intende per smart working

Non basta una sola definizione per comprendere l’entità del termine. Affidandoci all’interpretazione fornita dal ministero dell’Istruzione – che usa come mutuabili i concetti di lavoro agile e smart working – si tratta di “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali”, richiamando così la resilienza citata nella legge 81/2017 che determina anche la necessaria volontarietà delle parti, ossia azienda e lavoratore, affinché lo smart working possa essere attuato.

Ci sono descrizioni che provengono da ambienti specializzati, come l’Osservatorio Smart working del Politecnico di Milano il quale, per bocca del responsabile scientifico Mariano Corso, spiega che “Smart working significa ripensare il telelavoro in un’ottica più intelligente, mettere in discussione i tradizionali vincoli legati a luogo e orario lasciando alle persone maggiore autonomia nel definire le modalità di lavoro a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Autonomia, responsabilizzazione, valorizzazione dei talenti e fiducia diventano i principi chiave in questo nuovo approccio”.

In quest’ultima definizione vengono introdotti argomenti più ampi, che riguardano implicitamente anche una nuova mentalità di management aziendale (richiamata dalla responsabilizzazione sui risultati e la fiducia) che non può più controllare a vista i collaboratori.

Tra le altre definizioni possibili segnaliamo quella della British Standards Institution secondo la quale: “I principi su cui si basa lo smart working riconoscono che la tecnologia e i modelli di lavoro flessibile stanno cambiando in meglio il modo in cui lavoriamo. Stanno creando luoghi di lavoro moderni che supportano flessibilità e collaborazione per dare ai collaboratori un equilibrio migliore tra lavoro e vita priva. Questo si traduce in una maggiore produttività ed efficienza per il datore di lavoro”.

Aggiungendo una migliore efficienza per il datore di lavoro a quanto già evinto in precedenza, ovvero che lo smart working fa venire meno la rigidità temporale e spaziale e che si basa su un rapporto fiduciario senza precedenti che permette ai collaboratori di meglio coniugare vita privata e professionale, si ottiene una definizione più ampia (e ancora incompleta) di smart working.

Che differenza c’è tra lavoro agile e smart working

Definito lo smart working al meglio delle possibilità, va considerato in primis che fa riferimento alle medesime norme del lavoro agile. Oltre alla già citata legge 81/2017 vanno qui introdotte le modifiche apportate con la legge 73/2022 e la legge 122/2022 nelle quali il lavoro agile viene definito come una modalità di lavoro flessibile che può essere introdotta nelle aziende a determinate condizioni, sulle quali ci soffermiamo in seguito.

Non ci sono differenze normative ma alcune sul piano pratico. Lo smart working prevede che i lavoratori gestiscano i rispettivi compiti in modo autonomo senza una capillare descrizione né degli orari di lavoro né del luogo di lavoro. Trapela con chiarezza la volontà dell’azienda di lasciare al collaboratore il modo di trovare un equilibrio tra la vita privata e quella professionale la quale, tuttavia, deve garantire per lo meno una produttività e un’efficienza pari a quelle che il collaboratore deve garantire con il lavoro in presenza. Il lavoro agile sposta l’asticella più in alto, prevedendo anche la creazione di gruppi di lavoro in remoto, affinché a goderne sia l’organizzazione stessa dell’azienda. Lo smart working è il lavoro di un collaboratore in remoto, il lavoro agile è il lavoro di ogni collaboratore concertato all’interno di un settore o comparto aziendale che lavora in remoto.

Tuttavia, al di là delle differenze che sono ancora oggi oggetto di dibattiti, i termini “smart working” e “lavoro agile” sono ragionevolmente mutuabili.

Come è regolato lo smart working

Con l’inizio della pandemia sono state apportate diverse revisioni alla succitata legge 81/2017, pensate per semplificare il riconoscimento dello smart working. Il riferimento normativo attuale, ossia la legge 142/2022 che converte con alcune modifiche il decreto legge 115/2022 (decreto Aiuti bis), estende fino al 31 dicembre del 2022 lo smart working nel settore privato e in quello pubblico, limitatamente a diverse categorie di lavoratori che possono svolgere le proprie professioni in modalità agile anche in assenza di un accordo individuale con i rispettivi datori di lavoro.

Tra queste categorie figurano i lavoratori fragili e i dipendenti con figli minori di 14 anni o disabili. I criteri principali per i genitori sono che entrambi siano lavoratori, che nessuno dei due percepisca aiuti pubblici e che faccia richiesta di lavorare in smart working solo uno dei due alla volta. Le aziende non possono opporsi alle richieste dei lavoratori a meno che le mansioni che questi ricoprono non siano compatibili con le attività professionali svolte da remoto.

Quali sono i vincoli degli smart worker

A prescindere dal luogo dal quale svolge le proprie mansioni, lo smart worker rimane un dipendente e ha doveri e obblighi nei confronti del datore di lavoro. Tra questi, deve portare a termine i propri compiti con lo stesso impegno e la stessa diligenza che profonderebbe se lavorasse in presenza e, in ogni caso, raggiungere gli obiettivi eventualmente prefissati con il proprio superiore funzionale o con il proprio datore di lavoro.

Benché abbia diritto alla disconnessione, se l’azienda prevede delle fasce orarie all’interno delle quali il lavoratore deve essere sempre e comunque reperibile, lo smart worker deve organizzarsi affinché tali fasce vengano sempre rispettate. Inoltre, al di là della privacy e della riservatezza con cui deve trattare dati e informazioni aziendali, il lavoratore deve usare e custodire in modo diligente eventuali dispositivi elettronici di cui l’azienda lo ha dotato per permettergli di lavorare.

Cosa deve fornire il datore di lavoro per lo smart working

L’articolo 18, comma 1, della legge 81/2017 parla esplicitamente della possibilità che lo smart working richieda l’uso di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Strumenti questi che il datore di lavoro non è tenuto a fornire ai dipendenti, tant’è che il secondo comma dell’articolo 18 attribuisce al datore di lavoro la responsabilità della sicurezza e del corretto funzionamento degli strumenti tecnologici che eventualmente assegna al lavoratore ma non obbliga a fornirne.

Successivamente, l’accordo siglato il 7 dicembre 2021 tra governo e parti sociali, ha stabilito che “di norma” il datore di lavoro fornisce il necessario per lo svolgimento delle attività professionali in smart working. Sebbene l’accordo abbia sciolto alcuni nodi, alcuni di questi sono rimasti in una sorta di limbo.

Al di là della strumentazione digitale, il datore di lavoro deve fornire la formazione in materia di protezione dei dati e di tutela della salute del lavoratore. Non per ultimo deve fornire, mediante comunicazione scritta, tutte le informazioni relative ai controlli che possono essere effettuati, per esempio sulla tipologia di file eventualmente prelevati dal lavoratore (mp3, video, eccetera).

Quanti giorni di smart working si possono fare

La risposta la dà, ancora una volta, l’articolo 18, comma 1, della legge 81/2017: “La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.

Ciò significa che, salvo accordi particolari presi tra azienda e lavoratore, non c’è un limite ai giorni di lavoro che possono essere svolti in remoto. I vincoli riguardano invece gli orari dell’attività professionale che non possono essere diversi da quelli che, per contratto, il lavoratore de rispettare.

Quanto risparmia l’azienda con lo smart working

In un’intervista rilasciata a Repubblica.it, Mariano Corso ha stimato in 300-500 euro al mese il costo di una singola postazione di lavoro a Milano o Roma. Altri media citano cifre diverse, come fa per esempio il Corriere della Sera che parla di un risparmio per le aziende di circa 500 euro l’anno per postazione.

Difficile quindi dire quanto risparmia un’azienda, meno proibitivo dire su cosa risparmia. Lo facciamo con qualche esempio: a Torino, Eni ha chiuso il quartier generale scegliendo delle sedi più piccole e l’Inps ha fatto altrettanto. Tim ha concentrato le proprie sedi in tre immobili anziché sette.

Sedi più piccole significa minori costi di affitto o mutuo, di manutenzione, minori spese energetiche (luce e gas su tutte). Si può quindi delineare, sebbene in modo approssimativo, che il risparmio per le aziende è proporzionale alla diminuzione di postazioni di lavoro. Minori costi che possono quindi essere espressi in percentuale rispetto a quelli che un’azienda sostiene avendo tutti i lavoratori in presenza.

Quanto costa il lavoro a casa

Uno studio svolto da Altroconsumo ha calcolato che un nucleo famigliare in cui vive uno smart worker può spendere una cifra vicina agli 800 euro l’anno in più soltanto per l’energia elettrica e per il gas.

I minori costi per gli spostamenti casa-lavoro (carburante, parcheggio, pedaggi, eccetera), per la manutenzione dei mezzi di trasporto e per i pasti fuori sede riescono a compensare questo maggiore esborso.

Si può controllare chi lavora da casa?

Si tratta di un tema tutt’altro che banale: se il datore di lavoro ha – a rigore di logica e per principio – pieno diritto (se non persino il dovere) di controllare i lavoratori e le attività che svolgono, vanno tenute in debito conto le norme sulla privacy.

Il 22 aprile 2021 il Garante per la privacy e l’Ispettorato nazionale del lavoro hanno siglato un accordo che si concentra soprattutto su due aspetti, ovvero sul ruolo dell’Ispettorato che deve rilasciare le autorizzazioni per l’istallazione di strumenti per dare possibilità a un datore di lavoro di controllare i propri dipendenti e, contemporaneamente, il ruolo del Garante nell’evitare che i dipendenti siano vittime di discriminazioni e abusi da parte dei datori di lavoro.

Gli strumenti di controllo non sono soltanto videocamere ma anche dispositivi indossabili o mobili che potenzialmente mettono a rischio la privacy dei lavoratori, l’uso di software per il controllo remoto o proxy e filtri per verificare l’uso che il lavoratore fa del web.

L’accordo ha una durata di due anni e si erige sul decreto legislativo 151/2015 che prevede sistemi di verifica e controllo esclusivamente per soddisfare le esigenze produttive, di sicurezza e organizzative dei datori di lavoro e non per vigilare sulla qualità della prestazione professionale fornita.

Come detto il datore di lavoro deve quindi informare il lavoratore sul tipo di controlli che intende fare e su come verranno trattati i suoi dati. L’azienda deve elencare quali strumenti vengono usati per svolgere i controlli, come funzionano, con quale finalità e quale frequenza vengono fatti.

Nella fattispecie, a titolo di esempio, nel caso in cui un’azienda controllasse in che modo gli smart worker fanno uso della linea internet, questi ultimi devono essere resi edotti su:

  • Quali sono i limiti imposti dall’azienda (per esempio il divieto di download di file non afferenti alla sfera professionale se non durante i tempi di pausa)
  • In che modo i controlli vengono svolti e con quale frequenza
  • Conseguenze per chi dovesse violare le regole

I controlli non sono soltanto di natura telematica. Le aziende possono anche incaricare investigatori a patto che il lavoratore sia sospettato di ordire contro il patrimonio aziendale e non per verificare la qualità della sua prestazione professionale.

Il Garante per la privacy vigila, così come ha fatto a maggio del 2021 contro il Comune di Bolzano, reo di avere controllato le attività sul web di una dipendente in smart working, lamentando in particolare i suoi accessi a Facebook e YouTube senza peraltro averle fornito sufficiente documentazione riguardo ai limiti dell’uso del computer di lavoro e riguardo la tipologia e la metodologia dei controlli.

Quali aziende famose fanno smart working

Tim ed Enel le abbiamo citate già ma ci sono altre aziende che hanno scelto lo smart working, anche se in diverse formule di somministrazione.

Google (anche in Italia) permette lo smart working previo accordo tra azienda e lavoratore. Apple, per il momento soltanto a Cupertino, prevede tre giorni di lavoro in ufficio e due in remoto. Twitter, prima dell’avvicendamento al timone, aveva persino ridotto i propri uffici stimolando i dipendenti a lavorare da casa e altrettanto ha fatto il Ceo di Airbnb, Brian Chesky.

Stellantis riconosce l’utilità, soprattutto per i giovani, di lavorare anche in presenza. Per questo gradisce che i dipendenti vadano in ufficio almeno un giorno a settimana.

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