Il tribunale di Milano ha recentemente confermato in sede di reclamo cautelare, con una decisione del 4 novembre 2022, l’inibitoria emessa nei confronti di Cloudflare a favore delle case discografiche Sony, Warner ed Universal.
La questione posta all’attenzione del Tribunale di Milano è di particolare attualità a livello internazionale, inserendosi nel contesto della definizione degli obblighi in capo ai vari provider della società dell’informazione per contrastare le attività di pirateria online.
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Il caso
Il caso riguardava tre siti bittorrent, di notorietà internazionale, esclusivamente dedicati alla messa a disposizione abusiva di contenuti protetti dal diritto d’autore, come musiche e video. Benché si tratti di attività palesemente illegali, la lotta dei titolari dei diritti nei confronti di questi siti è particolarmente complessa, sia perché essi cambiano forme ed indirizzi continuamente, sia perché esistono sempre nuovi mezzi per aggirare i blocchi.
Nel tempo le varie giurisdizioni, di cui l’Italia è stata pioniera, hanno elaborato la figura dei blocchi emessi nei confronti degli intermediari della società dell’informazione cd. “puri”: ossia provider di servizi neutrali, non consapevoli né partecipanti all’attività illecita, i cui servizi sono tuttavia utilizzati per accedere a quest’ultima. Secondo la giurisprudenza più recente i titolari dei diritti possono ottenere dai tribunali o dalle autorità amministrative competenti (come AGCOM in Italia) blocchi cautelari diretti a impedire l’accesso ai servizi illeciti. Questi ordini sono stati finora indirizzati alle telecom, ossia ai provider di accesso alla connessione Internet.
Quando queste ultime ricevono l’ordine cautelare, intervengono sui propri sistemi in modo da bloccare la connessione e impedire l’accesso al sito illegale. Da qualche tempo a questa parte gli ordini contro i provider cosiddetti “puri” sono anche diventati dinamici, nel senso che quando il sito varia indirizzo IP o nome a dominio (come tipicamente avviene subito dopo l’emissione dell’inibitoria) il titolare dei diritti non è più costretto a presentare un nuovo ricorso all’autorità giudiziaria o amministrativa, ma può inviare una segnalazione al provider (a condizione che abbia evidenza che il nuovo indirizzo o il nuovo nome a dominio siano soggettivamente e oggettivamente riferibili al servizio online illecito che è oggetto dell’inibitoria).
Il servizio di DNS pubblico per eludere gli ordini di inibitoria
La tecnologia, e in particolare quella digitale e di Internet, è tuttavia soggetta a evoluzioni dinamiche velocissime, che rendono presto obsoleti i sistemi tecnologici, a fronte dell’avvento di nuove soluzioni informatiche. Da qualche tempo a questa parte si è affermato un nuovo servizio informatico, ossia il servizio di DNS pubblico, che viene fornito agli utenti della rete da alcuni provider nazionali o internazionali. In pratica, attraverso questo servizio gli utenti identificano e si collegano al sito di loro interesse senza utilizzare il servizio di DNS del proprio operatore telecom (che si limita a fornire la connessione), ma quello del provider di DNS pubblico.
In pratica, e per semplificare, è come se si trattasse di una rubrica telefonica informatizzata: il servizio di DNS interroga la rete e tramite passaggi successivi rintraccia il nome a dominio che identifica il sito ricercato dall’utente, mettendo questo in connessione con il sito stesso. Questi servizi di DNS pubblico, spesso forniti gratuitamente agli utenti, servono a vari fini: secondo alcuni per accelerare la ricerca; secondo altri per navigare in internet senza censure. Sotto quest’ultimo profilo, succede anche che alcuni utenti possano utilizzare il servizio di DNS pubblico per bypassare i blocchi imposti dal servizio di DNS del proprio operatore telecom e – per quanto concerne la questione decisa dal Tribunale di Milano – in questo modo possano eludere gli ordini di inibitoria imposti dalle autorità italiane agli stessi operatori telecom.
Il caso trattato dal Tribunale di Milano
Tornando infatti al caso di specie, era avvenuto che le case discografiche avessero richiesto e ottenuto da AGCOM degli ordini di inibitoria nei confronti degli operatori italiani diretti a bloccare l’accesso ai siti bittorrent illeciti. Gli ordini erano stati in effetti implementati dagli operatori italiani (le telecom); e tuttavia risultava comunque possibile bypassare questi blocchi utilizzando servizi di DNS pubblico, come appunto quello di Cloudflare. Le case discografiche si sono allora rivolte al tribunale di Milano per ottenere che quest’ultimo bloccasse l’accesso ai siti illeciti anche tramite il servizio DNS pubblico in questione.
Resistendo in giudizio, Cloudflare aveva sollevato una serie di argomenti difensivi, fra cui in particolare la carenza di giurisdizione del giudice italiano, la carenza di periculum in mora (da un lato perché i servizi di DNS pubblico sarebbero offerti da molti operatori, e dall’altro lato perché si tratterebbe di inibitorie inefficaci e sempre superabili). Il Tribunale del reclamo ha ritenuto che le argomentazioni di Cloudflare non fossero accoglibili.
Ha quindi innanzitutto affermato la giurisdizione italiana, perché in materia di tutela dei diritti d’autore e connessi quest’ultima si determina sulla base del danno, il quale nel caso di specie si verificava sul territorio nazionale. Il Tribunale ha inoltre ritenuto che l’ordine di inibitoria si fondasse sulla circostanza che i servizi di DNS pubblico fossero utilizzati per fini illeciti, essendo irrilevante la neutralità del provider.
Inoltre, il Tribunale ha chiarito che l’ordine di inibitoria non poteva essere considerato un generale obbligo di sorveglianza, trattandosi invece del dovere di impedire una specifica attività – qualificata dal Tribunale stesso come illecita – nell’ambito dei generali doveri di diligenza che incombono a tutti gli operatori professionali, riguardo alle misure dirette a prevenire attività illecite reiterabili. Quest’obbligo, infine, secondo il Tribunale, non grava solo sui provider espressamente elencati dalle norme in materia di commercio elettronico, come i mere conduit (o telecom), i caching (o motori di ricerca), o gli hosting, bensì è configurabile anche nei confronti di altri operatori.
Per quanto riguarda il periculum, questo sussiste in tutti i casi in cui vi sia una permanente diffusione illecita dei contenuti protetti, che è causa di un pregiudizio irreparabile, nella misura in cui coloro che diffondono i contenuti estendono in modo irrecuperabile la sottrazione alle case discografiche di fruitori dei contenuti in maniera lecita.
Da ultimo, il Tribunale ha considerato anche il tema della allegata ineseguibilità dell’ordine di inibitoria: secondo Cloudflare, infatti, per la sua natura tecnica il servizio DNS non potrebbe essere soggetto a limitazioni all’accesso. Su questo punto il Tribunale ha ritenuto che “non è al riguardo configurabile alcun onere preventivo a carico delle parti ricorrenti, né alcun obbligo in capo all’autorità giudiziaria all’atto della pronuncia dell’ordine cautelare, di descrivere le specifiche modalità tecniche di esecuzione dell’ordine”, ma è invece la parte cui è rivolto l’ordine di inibitoria che può e deve rappresentare eventuali difficoltà tecniche a questo riguardo, se ritiene che l’esecuzione presenti complessità di qualsiasi genere. A questo proposito è in corso fra le stesse parti uno specifico procedimento di esecuzione cautelare, volto proprio a chiarire se l’ordine inibitorio presenti effettivamente delle difficoltà tecniche, quali queste siano, e se le stesse – ove esistenti – siano comunque superabili.