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Cambiamento climatico, perché la cooperazione tra Paesi è la chiave di volta: lo scenario

L’inesorabilità del cambiamento climatico porta a dover riflettere su come limitare i danni: la soluzione è un’azione coordinata tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo, con interventi pubblici e di solidarietà. Ecco la situazione emersa durante la Cop27 e l’analisi di come si può migliorare

Pubblicato il 23 Nov 2022

Mario Di Giulio

Professore a contratto di Law of Developing Countries, Università Campus Bio-Medico Avvocato, Partner Studio Legale Pavia e Ansaldo

COP27_EGYPT

Un detto siciliano, spesso attribuito alla saggezza cinese, invita a farsi canna quando il vento tira forte. Come ogni perla di saggezza legata alla cultura contadina, il detto si presta a molteplici interpretazioni: dal non opporsi alla forza alla quale non ci si può opporre al semplice invito ad adattarsi quando non hai alterative. Nel cambiamento climatico e la lotta che più o meno i vari stati della terra stanno portando avanti, la parola “lotta”, complice anche una folle guerra che semina morte e distruzione, a danno degli uomini e dell’ambiente, sta lasciando sempre più spazio alla parola “adattamento”.

Considerata l’inesorabilità del cambiamento, per quanto comportamenti virtuosi siano stati iniziati, sempre più i paesi stanno cercando soluzioni per rispondere alle catastrofi naturali e all’inaridimento di vaste regioni della terra, per rinforzare la resilienza dell’ambiente e delle comunità. La logica del limitare le emissioni, sebbene necessaria, non è sufficiente: il danno ormai è fatto e bisogna cercare di porvi rimedio o almeno di limitarlo. Occorre un’azione coordinata con interventi di carattere pubblico e di solidarietà tra Paesi sviluppati e non: questa è infatti una partita che si vince o si perde tutti insieme.

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Migranti climatici, i numeri

In questo tentativo all’adattamento gioca anche un fattore di sicurezza internazionale, considerato che le stime demografiche prevedono nell’anno 2050 circa 217 milioni di migranti climatici (rapporto Groundswell della Banca Mondiale 2021) e nel solo 2020 ne sono stati stimati 30 milioni dall’Internal Displacement Monitoring Center del Norvewegian Refugee Council, mentre la storia ha insegnato, per chi la ricorda, che le migrazioni dei popoli non si fermano con muraglie o valli se non per un limitato, limitatissimo arco di tempo; se poi a separare popoli e continenti è solo un braccio di mare, l’idea di blocchi rischia di rivelarsi in una mera chimera, che ci distrare dall’individuazione di soluzioni valide, solide e durature.

La necessità di adattarsi al cambiamento climatico è stata sentita fin dai primi anni 2000. Nel 2011 le Seychelles, con l’aiuto dell’UNDP (United Nation Development Programme), hanno avviato un piano per diminuire le proprie vulnerabilità, sostanzialmente legate alla carenza di acqua e alle inondazioni costiere. Tale piano si poggia sulla conservazione dell’ecosistema, in particolare delle foreste, che compattano il suolo e facilitano la conservazione delle acque pluviali, e delle zone umide e della vegetazione ripariale che insieme ostacolano l’erosione delle coste.

Durante la COP 27, si è sempre più evidenziata la necessità di procedere con programmi di questo genere, anche attraverso forme di collaborazione e aiuto tra i vari paesi che, tra l’altro, rispondono anche a esigenze di giustizia globale, visto che il conto della devastazione climatica, dovuto dalle emissioni prodotte dai paesi più sviluppati, lo stanno maggiormente pagando i paesi che sviluppati non sono. I recenti esempi di siccità che stanno devastando stati quali il Kenya, dove in almeno 20 contee delle 23 caratterizzate da aridità o semi aridità non piove da quattro stagioni delle piogge, ne sono un esempio emblematico.

Verso una nuova solidarietà

Nel dibattito sollevato dal COP27 emerge quindi sempre più con chiarezza la necessità di accompagnare i paesi in via di sviluppo e quelli meno sviluppati verso forme di adattamento climatico, che richiedono interventi finanziari di rilievo per paesi che sono già ampiamenti indebitati e con scarsa possibilità di fare ricorso alla leva fiscale, per le ragioni più varie quali l’assenza di meccanismi di tracciamento delle risorse finanziarie, assenza di volontà politica, accordi scellerati con le società straniere con regimi di alta esenzione dalle tasse e basse ricadute occupazionali.

In questo contesto quindi si profila una nuova forma di cooperazione volta ad assicurare interventi che possano agevolare la resilienza e l’adattamento climatico: quindi non più solo prestiti privati, che devono essere rimborsati a condizioni onerose, ma anche finanziamenti pubblici e veri e propri contributi a fondo perduto. È di questi giorni l’appello dell’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore che invita la Banca Mondiale a rivedere il proprio approccio allo sviluppo, considerato da Al Gore troppo favorevole alle compagnie produttrici di energia da fonti fossili (giustificata con la opportunità di fornire risorse economiche ai paesi in via di sviluppo), e rivolgersi finalmente ad investimenti rispettosi dell’ambiente.

Il rischio dello sfruttamento delle risorse fossili

Tra l’altro lo sfruttamento delle risorse fossili dei Paesi africani crea il rischio di volgere, ancora una volta, lo sviluppo di questi paesi in una direzione errata: dal momento che essi saranno tentati di fare affidamento su tali risorse per i piani di sviluppo economico , contraendo debiti elevati, quando è probabile che in pochi anni i paesi occidentali faranno cadere la domanda di risorse fossili per rivolgersi totalmente alle fonti energetiche rinnovabili: si tratta di un vero proprio “fossil fuel colonialism”, dove i paesi sviluppati utilizzano in modo opportunistico tali risorse, con scempio dell’ambiente, per poi abbandonarne il consumo senza che i paesi interessati siano in grado di sfruttare in proprio tali risorse.

Ecco l’Africa’s dash for gas, che si presenta come una spada a doppia lama: essa infatti pone da un lato la dipendenza energetica dell’Occidente nelle mani di regimi spesso non stabili e dall’altro lato pone la dipendenza economica dei paesi in via di sviluppo da una domanda di energia non duratura, dal momento che si tratta di una richiesta da parte di stati (quelli sviluppati) che sono in via di transizione ecologica.

Perché serve un nuovo approccio all’adattamento climatico

È necessario quindi cambiare approccio, aiutando i paesi in via di sviluppo ad adattarsi al cambiamento climatico, attraverso azioni volte a limitare l’impatto sociale, ambientale e lavorativo derivante dai cambiamenti climatici. Queste azioni possono andare dalla protezione dei sistemi forestali per il consolidamento dei terreni e il contrasto all’evaporazione delle acque piovane, la creazione di bacini impluvi, il cambiamento delle coltivazioni con la scelta di piante maggiormente resistenti al calore e alla siccità, ai sistemi educativi che consentano una maggiore conoscenza della sessualità così limitando le nascite non desiderate, il consolidamento delle coste attraverso sistemi naturali quale la difesa delle foreste di mangrovie e delle barriere coralline.

È chiaro infatti ormai che non basta ridurre le emissioni per risolvere il problema, perché tali azioni possono rallentare il fenomeno ma non eliminarlo.

Conclusioni

Dal novero delle azioni da svolgere, appare abbastanza evidente che le iniziative necessarie possano non avere ricadute economiche tali da incentivare l’utilizzo di fondi privati, sebbene non manchino le voci che ritengono possibile tale ricorso (vedi ad es. Climate adaption in Africa offers investment opportunities for private sector, edito How we made it in Africa nel corrente mese di novembre 2022): al di là però dalle affermazioni di principio, le dichiarazioni appaiono più semplici desiderata che la rappresentazione di possibilità concrete.

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