timori antitecnologici

Il capitalismo della sorveglianza è davvero peggio del controllo dello Stato? Sfatiamo qualche mito

La logica conclusione dell’intera teoria del capitalismo della sorveglianza sta nella costituzione di una necessaria sorveglianza sul comportamento dei cittadini oltre quella dei già sorveglianti capitalisti: quindi una sorveglianza al quadrato. Come dire, cadere dalla padella nella brace

Pubblicato il 28 Nov 2022

Emmanuele Somma

Segretario del Partito Pirata

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L’espressione “Capitalismo della sorveglianza” è una formula di successo ma nasconde più problemi di quanti non ne spieghi.

Molto più del libro di Shoshana Zuboff, l’espressione “Capitalismo della Sorveglianza” ha conosciuto un successo planetario. Catalizza, in una formula facile e ben spendibile, l’intera gamma dei timori antitecnologici di una popolazione che, ancora oggi a più di 30 anni di distanza dalla sua diffusione pubblica, vive Internet con paura e sospetto. Rappresenta anche una fortunata inversione di una formula altrettanto popolare e condivisa: “Sorveglianza del capitalismo”.

What Is Surveillance Capitalism? | Shoshana Zuboff

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In verità, la tesi del capitalismo della sorveglianza ha una base teorica debole. Propone una narrazione affascinante ma non giustificata da dati, fatti e conoscenze, e se mette in luce un aspetto deleterio dell’attuale fase storica, l’abuso dei profili online, contribuisce a nascondere problemi più gravi e preoccupanti.

Una breve sintesi della teoria del capitalismo della sorveglianza

Soshana Zuboff ha (non) sintetizzato nelle 700 e passa pagine di The Age of Surveillance Capitalism la sua nuova teoria critica adatta al mondo attuale. Anticipata da una serie di articoli sul Frankfurter Allgemeine Zeitung, questa teoria si fonda su una ennesima riproposizione del classico confronto tra i fattori della produzione industriale. Una molto approfondita analisi delle componenti di questa teoria si trova nel lungo articolo di Evgenyi Morozov su The Baffler, intitolato evocativamente « I vestiti nuovi del capitalismo ». In sostanza, a parte lo sfortunato incidente di aver riproposto una dizione proveniente dalla precedente analisi marxista con lo stesso nome sul Monthly Review (molto più radicale), la Zuboff sostiene che il capitalismo ha cambiato pelle e dismesse completamente le forme, le leggi e gli obiettivi classici del sistema capitalista, sia entrato in una nuova fase in cui né lavoro, né capitale siano più al centro della scena, ma lo sono i dati e il loro sfruttamento.

La critica classica al capitalismo si è sempre basata sul fatto che, per via di qualche mai troppo ben identificato fattore, i capitalisti sarebbero stati in grado di convincere i lavoratori a offrire un surplus del proprio lavoro sulla base del quale verrebbe a costituirsi questo tanto contestato capitale con cui le classi borghesi dominerebbero indisturbate il mondo. A qualche centinaio di anni di distanza dalla definizione di questa teoria è quantomeno difficile liquidarla superficialmente anche se, dichiaratamente, non prende in considerazione una tanto grande varietà di fattori. Queste mancanze hanno dato modo ad una infinità di scuole o pensatori, a sostegno o contro, di esercitarsi intellettualmente (con non troppe ricadute pratica, va detto). Le tante incarnazioni delle teorie critiche al capitalismo si sono esercitate nell’includere o escludere fattori o agenti, ragioni o patimenti.

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Quella della Zuboff è una nuova incarnazione di teoria critica del capitalismo in cui però non c’è più bisogno del lavoro perché il surplus può essere estratto direttamente dai consumatori. In questo strano modello di capitalismo, i lavoratori svaniscono e i consumatori fanno tutto da sé: generano il valore e anche quel surplus che è estratto dalle aziende adattate a questo compito. Il surplus è generato con la creazione di dati, tanti dati, troppi dati: un surplus appunto. Le aziende accusate di essere capitaliste della sorveglianza non sono mai valutate in relazione al prodotto che offrono (il motore di ricerca per Google, il social network per Facebook, ecc.) o ai lavoratori che impiegano (programmatori, progettisti, creativi, ecc.), tutto quello che importa è l’espropriazione dei dati.

Il modello è un po’ sbilenco e non viene mai messo alla prova di una critica, in particolare viene trascurata ogni possibile logica alternativa, anche quelle ormai ben note nel campo. Il capitalismo della sorveglianza è pura invenzione narrativa, affascinante ma poco realistica. Morozov ha gioco abbastanza facile ad azzoppare ognuna delle tesi su cui si fonda.

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Una non-critica del capitalismo

Due sono i principali punti d’attacco alla teoria del capitalismo della sorveglianza. Il primo è la contestazione del modello universalistico proposto dalla Zuboff, laddove sostiene una totale mutazione del capitalismo, e persino delle sue leggi fondamentali: il nuovo capitalismo è data-capitalism, o non è.

Questa critica, come detto, è molto ben svolta da Morozov. In sostanza si contesta che concentrandosi sul dettaglio dell’economia dei dati e della sorveglianza si perde di vista, ma soprattutto si finisce per giustificare, il corpo intero del modello capitalista di cui la connotazione “di sorveglianza” è invece solo una narrazione.

La posizione della Zuboff stessa è veramente ambigua sul tema quando, a differenza delle critiche più radicali del Monthly Review, e soprattutto in linea con il suo precedente libro The Support Economy appare essere affascinata da un capitalismo del patrocinio (advocacy capitalism), ovvero quello delle aziende che, proprio come quelle del capitalismo di sorveglianza, estraggono i dati dei consumatori, ma li usano solo per migliorare i propri servizi, dare suggerimenti ai clienti o indirizzarli verso nuovi prodotti. Insomma, quelle che non forniscono prodotti di previsione (come si faccia questa suddivisione non è chiara, però). Così come Google è sulla graticola in The Age of Surveillance Capitalism, Apple era sul podio in The Support Economy.

Zuboff non ha una storia professionale da anticapitalista e sebbene le sue tesi assorbano consistenza teorica da approcci storicamente critici con il capitalismo tout-court (come quelle di Toni Negri), non superano mai una soglia di verace opposizione al capitalismo.

Si potrebbe quindi dire che la teoria è molto più critica della “sorveglianza” che non del “capitalismo”. Ma anche questo appare poco giustificato perché al capitalismo di patrocinio (anche citato come capitalismo di difesa, in opposizione a quello di sorveglianza che quindi sarebbe un capitalismo di attacco), apprezzato dalla Zuboff e quasi proposto come alternativa salvifica, sono permesse le stesse identiche pratiche del capitalisti della sorveglianza, né la privacy dei consumatori verrebbe tanto meglio tutelata, ma in questo caso, poiché non sarebbe la previsione l’unità di prodotto, allora tutto andrebbe (magicamente?) bene. Ma c’è di più.

Una non-critica della sorveglianza

Il secondo punto d’attacco alla teoria del capitalismo di sorveglianza è di natura strettamente politica. La teoria vanta una completa mutazione del capitalismo, tanto che tutti ne sarebbero affetti, eppure sostiene la Zuboff che un’evoluzione possibile starebbe nell’esacerbare la falsa dicotomia tra imprese di capitalismo-sorvegliante (cattive) e imprese di capitalismo-patrocinante (buone), per riportare le prime, in forza di azioni legali o tramite moral suasion, alle seconde.

La dicotomia però permette di fare catalogazioni arbitrarie a seconda del punto di vista e soprattutto apre uno spazio di arbitraggio sui comportamenti delle imprese per stabilire cosa è sorveglianza e cosa è mero patrocinio. I suggerimenti di Amazon sono sorveglianza o patrocinio? Gli elettrocardiogrammi dell’iWatch per stimolare una vita più sana, cosa sono? Gli avvisi di Google Maps su quale strada è meno trafficata sanno di Grande Fratello o no? Quale di questa è una feature pericolosa e dunque condannabile? Chi decide?

Questo ruolo di censore, sottratto alla scelta autonoma del consumatore, sempre paternalisticamente da tutelare, ricade sull’autorità pubblica che dovrà quindi esercitare una sorveglianza sul capitalismo di sorveglianza per discriminare i comportamenti adeguati da quelli inadeguati. Ma i comportamenti di chi?

Il capitalismo di sorveglianza è un capitalismo di sorveglianza-sui-cittadini/consumatori; quindi, la paternalistica mano dell’autorità pubblica pronta a sorvegliare i capitalisti della sorveglianza, che ormai non hanno più né lavoratori, né mezzi di produzione, ma solo il surplus generato dai cittadini, non potrà fare altro che sorvegliare… i cittadini stessi, ovvero quello che c’è in fondo alla catena del valore.

La logica conclusione dell’intera teoria del capitalismo della sorveglianza sta nella costituzione di una necessaria sorveglianza sul comportamento dei cittadini oltre quella dei già sorveglianti capitalisti: quindi una sorveglianza al quadrato.

Conclusioni

In definitiva, per tutelarsi dal regime narrativo del capitalismo della sorveglianza raccontato dalla Zuboff, sarà necessario offrirsi al regime burocratico statale e per sottrarsi dai poteri, ampi ma limitati, di un impero delle nuvole (secondo la definizione Vili Lehdonvirta nel suo Cloud Empires) bisogna consegnarsi ancora più completamente al potere degli Stati terreni. Una riprova eclatante può ritrovarsi nell’azione dell’Unione Europea in vena di riconquistare la propria sovranità digitale, per mezzo della residency dei dati. A questo punto, nessuno può pensare sia una casualità il fatto che tutta la propaganda europea si basi proprio sulle teorie del capitalismo della sorveglianza.

Al cittadino/consumatore, con buona pace dell’affermazione dei principi di autodeterminazione informativa, non resta che passare dalla padella della sorveglianza delle piattaforme alla brace della sorveglianza dei poteri pubblici.

Con una differenza, sotto la padella nessuna Zuboff ha dimostrato che ci sia un fuoco della sorveglianza acceso, quello che c’è potrebbe essere solo quello del solito capitalismo. Che la brace dei poteri pubblici scotti, con le agenzie di intelligence, i captatori giudiziari, le indagini fiscali e via dicendo, è invece una certezza.

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