Il dizionario inglese Collins ha recentemente individuato in Permacrisis la parola dell’anno. Il dizionario la definisce: «Un periodo esteso di instabilità e insicurezza»; un vocabolo scelto perché “riassume […] quanto il 2022 sia stato terribile per moltissime persone” (Alex Beecroft, Head of Collins Learning)*.
Oltre a Permacrisis, prima della lista, sono state scelte altre nove parole dell’anno tutte collegate, in qualche modo, ad uno stato di incertezza ed instabilità vissuti come permanenti. Si tratta dei vocaboli più utilizzati dalla popolazione individuati attingendo ad un Corpus Analitico di oltre 4.5 billioni di parole apparse in diverse fonti multimediali (social media compresi): in ordine alfabetico: Carolean; Kiev; Lawfare; Partygate; Quiet quitting; Splooting; Sportswashing; Vibe shift; Warm bank.
BREAKING NEWS The Collins Word of the Year is… permacrisis.
Find out more about #CollinsWOTY 2022 and see the full list here: https://t.co/gmsnCqA0yv#wordoftheyear #CollinsDictionary #permacrisis pic.twitter.com/sorHPfjG7D
— Collins Dictionary (@CollinsDict) November 1, 2022
Dialogare con il mondo in modo costruttivo per uscire dalla crisi permanente
Per certi versi, questa dichiarazione non ci stupisce, eppure penso che debba costringerci, in qualche modo, a prendere una posizione precisa se speriamo di uscire positivamente da questo stato di crisi percepito, purtroppo, come permanente. Un aiuto ritengo potrebbe arrivare dall’antropologia, e da alcune sue nuove prospettive. Mi riferisco alle idee espresse nell’ultimo saggio dell’antropologo inglese Tim Ingold, che nel suo “Corrispondences”* pubblicato nel 2021, in un libro apparentemente molto provocatorio, ci lancia dei segnali per tornare a dialogare con il mondo in modo costruttivo.
Il presupposto da cui parte l’autore è che i disequilibri tipici del mondo contemporaneo – di carattere economico, climatico, sanitario, educativo – scoraggino la generazione del pensiero, e quindi che viviamo in un momento di assenza del pensiero. Poiché la generazione del pensiero, infatti, presuppone un tumulto e una perdita di controllo momentanea, quest’attività è tipica dei momenti di quiete ed equilibrio, e si arresta, pertanto, quando questo equilibrio viene a mancare. Come è successo in questi ultimi anni per tutti noi.
Pensare, afferma l’autore, vuol dire farsi scuotere da una nuova idea, calcolando il rischio delle sue conseguenze, assumendosi la responsabilità di ciò che essa comporta, prendendosi cura, come un amante fa con la persona amata, di tutto ciò che è coinvolto dallo sconvolgimento della novità. Abbiamo smesso di pensare, perché abbiamo smesso di assumerci le responsabilità per le conseguenze delle nostre azioni, quindi, meglio detto, abbiamo smesso di pensare perché abbiamo smesso di amare il mondo, e la soluzione ai nostri problemi è quella di reinnamorarsene di nuovo.
Rivedere il nostro modo di esprimerci nei confronti del mondo
Citando Hanna Arendt, che giunge a conclusioni simili osservando la crisi conseguente alla Seconda guerra mondiale, Ingold ci offre una soluzione che riguarda la revisione del nostro stesso modo di esprimerci nei confronti del mondo.
La sua proposta è quella di avviare (o riavviare) un approccio dialogico nei confronti del mondo esterno, anziché cercare l’interazione a tutti i costi, tipica della nostra era. Scrive Ingold: “Pensate ad un fiume e alle sue sponde. Potremmo parlare della relazione di una sponda con l’altra e, attraverso un ponte, ci troveremmo in mezzo alle due; ma le sponde si formano e si riformano continuamente, mentre le acque del fiume scorrono” (Ingold, 2021: 10). Per comprendere il mondo mentre si genera e rigenera davanti ai nostri occhi, muta improvvisamente direzione e ci pone di fronte all’imprevedibile, è necessario passare dall’interazione alla corrispondenza.
Corrispondere con il mondo vuol dire “procedere in suo accordo”. Quando la comunicazione non era ancora digitalizzata e la corrispondenza scritta era l’unica forma di gestire i contatti tra persone distanti, amici e/o familiari, tale principio si imponeva da sé. Scrivere a qualcuno implicava la spontaneità di tradurre le proprie esperienze non con l’obiettivo di perorare una qualche causa, ma per mantenere una linea di pensiero derivata dalla conoscenza dell’altro e del suo mondo, nonché delle sue aspettative. Nella corrispondenza, i temi di discussione sono normalmente aperti e si svolgono a mano a mano che il meccanismo di risposta si arricchisce di nuove esperienze e di nuovi flussi di idee. Ingold ci invita a considerare la vita sociale come una lunga corrispondenza, in cui alla base c’è l’ascolto ma anche un certo rigore e una certa precisione, tipica di chi vuole che la corrispondenza non fallisca.
Questo vuol dire osservare le cose assumendo, non le forme di conoscenza proprie del mondo accademico, ma quelle proprie della poesia, dell’arte e del design che, cercando, per esprimersi, le giuste metafore per la descrizione del mondo, non fanno altro che provare a corrispondere con esso.
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Un dialogo aperto per salvare il Pianeta
Nel suo libro, Ingold ci prova egli stesso. Ogni paragrafo del testo può essere recepito come una lettera indirizzata a noi lettori in cui, partendo da sollecitazioni che derivano di volta in volta dal mondo fisico reale, o dal mondo immaginario dell’arte, egli ci offre delle sue illuminazioni trasformando i fatti in campi aperti di indagine. I fatti, cioè, non vengono semplicemente descritti, ma diventano spunti di riflessione a cui ognuno di noi può contribuire provando a corrispondere e far corrispondere le proprie esperienze e il proprio modo di vederli. Solo avviando un dialogo aperto sugli avvenimenti del nostro tempo, senza chiuderci nel timore di non poter prevedere le conseguenze delle nostre azioni in un momento di instabilità, pare dirci Ingold, abbiamo una possibilità di salvarci e salvare questo Pianeta.
“Forse – dice Ingold – abbiamo bisogno di una nuova comprensione del linguaggio, una comprensione che lo riattivi come pratica di “fare linguaggio”. In un linguaggio vivo – non semanticamente bloccato in una struttura categoria ma autocreantesi attraverso l’inventività dei parlanti – le parole possono essere tanto vive e mobili quanto le pratiche a cui corrispondono. […] Liberiamoci dalla paura di incontrare il mondo con le parole.[…] Lasciamo però che queste parole siano di augurio, non di scontro; che siano domande, non interrogatori o udienze; risposte, non rappresentazioni; aspettative, non previsioni” (Ingold, 2021: 220-221).
Penso che “Corrispondenze” sia un libro da leggere e, quella proposta, una prospettiva da valutare, se speriamo di liberarci presto di questa triste parola dell’anno.
Bibliografia
* Tim Ingold, Corrispondences, Polity Press Ltd., Cambridge 2021; trad.it. Corrispondenze, Raffaele Cortina Editore, Milano 2021
Tim Ingold, Lines, Routledge 2016; tra.dit. Siamo linee. Per un’ecologia delle relazioni sociali, Treccani 2020