Da quando nel 2008 apparve per la prima volta al grande pubblico tramite il bitcoin, la blockchain si è evoluta e, superando il ruolo di enfant prodige delle nuove tecnologie, ha ben oltrepassato i confini della moneta digitale. Oggi, l’impiego della blockchain può fornire nuova linfa per la piena attuazione dei paradigmi regolatori dell’attività della Pubblica amministrazione (fissati innanzitutto dall’articolo 97 della Costituzione e storicamente difficoltosi: su tutti, buon andamento e imparzialità), coniugando tali principi con la sempre più forte esigenza di protezione dei dati.
Blockchain bridge, vantaggi pratici e rischi: ecco i consigli per gestirli e difendersi
Blockchain in Italia, i dati
Secondo l’Osservatorio Blockchain & Distributed Ledger del Politecnico di Milano sono 26 le iniziative attualmente in essere in Italia (erano 18 nel 2020), al pari della Francia e superando la Germania (rispettivamente, 26 e 22 progetti). Nello specifico, il mercato italiano del 2021 dimostra una flessione a livello di investimenti rispetto al 2019 (28 milioni contro i 30 del 2019, pur con un incremento rispetto ai 23 milioni del 2020), cui tuttavia sembrerebbe fare da contraltare una maggiore “maturità” dei progetti, la maggior parte dei quali avrebbe ormai superato la fase di mera start-up, divenendo operativa. Nel frattempo, il MISE ha annunciato – tramite il Decreto direttoriale 24 giugno 2022 – un fondo di 45 milioni di euro da destinarsi allo “sviluppo delle tecnologie e delle applicazioni di intelligenza artificiale, blockchain e internet of things”, chiarendo le modalità e i termini di presentazione delle domande.
Certamente l’Italia sconta, tutt’oggi, alcune criticità tipiche del sistema-Paese (in primis naturalmente un generale ritardo e una complessità – anche, e forse soprattutto, normativa – non indifferente), tuttavia vi sono – dall’altro lato – innegabili segnali di incoraggiamento per il futuro, a partire dalla Componente 1 della Missione 1 del PNRR, dedicata innanzitutto alla digitalizzazione della PA: in un periodo storico come quello presente, saper capitalizzare le opportunità d’investimento sarà la vera chiave per poter vincere la sfida dell’innovazione.
Le applicazioni del modello SSI
Tra le applicazioni più promettenti si segnala certamente la possibilità di innovare l’accesso ai servizi al cittadino tramite l’SSI – Self Sovereign Identity: una tecnologia (peraltro già apparsa nelle pagine di questo giornale) la cui diffusione – e accettazione – su larga scala permetterebbero agli utenti di riappropriarsi delle proprie “identità digitali” e delle informazioni collegate (compresa l’eventuale istruzione o l’eventuale carriera, o dati sanitari), lasciando che siano gli utenti stessi a poter decidere quante e quali informazioni condividere (a quali consentire accesso) di volta in volta, in base al servizio di cui si vuole usufruire.
Un modello, in poche parole, alternativo al necessario coinvolgimento di un provider esterno (come richiesto invece dal c.d. “modello federale” sul quale è costruita la SPID – che nel solo 2021, secondo i risultati dei Digital Maturity Indexes elaborati dall’Osservatorio Agenda Digitale del Politecnico di Milano, ha contato 580 milioni di accessi). Non a caso l’SSI – e le possibilità connesse – sono state oggetto di interesse da parte delle proposte elaborate dal gruppo di esperti nell’ambito della Strategia italiana in materia di tecnologie basate su registri condivisi e blockchain del MISE, che espressamente favorisce l’introduzione, l’impiego e l’utilizzo di identità decentralizzate; mentre un ulteriore esempio è dato dai progetti MHMD (MyHealthMyData) e DECODE, nati rispettivamente nel 2020 e nel 2018 in seno all’Unione, aventi l’obiettivo di “minimizzare il rischio di un utilizzo fraudolento dei dati sanitari” e di “garantire ai cittadini un maggiore controllo circa le operazioni di storage, management e uso dei propri dati personali”.
L’impiego dell’SSI nell’accesso ai servizi pubblici, insomma, potrebbe ragionevolmente costituire un ulteriore passo avanti nella realizzazione di un ammodernamento della PA coerente con i principi di efficienza e di sicurezza, conformemente a quanto richiesto dal Piano Triennale per l’ICT (alle cui linee guida sulla sicurezza – fin dalla sua prima formulazione, 2017-2019 – devono adeguarsi i servizi digitali e le applicazioni mobili della PA).
Blockchain per le norme anticorruzione
Il ricorso alla blockchain sembra poi particolarmente adatto a perseguire quegli specifici scopi istituzionali per cui la trasparenza ha assunto, negli ultimi tempi, un nuovo valore: il riferimento, ovviamente, è alla normativa volta a prevenire e contrastare fenomeni corruttivi, a partire dalla L. n. 190/2012 e dal D.Lgs. n. 33/2013, c.d. Testo Unico in materia di trasparenza (oltre che, successivamente, dal D.Lgs. n. 97/2016 – FOIA, oltre che dalle linee guida Anac sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute nel D.Lgs. n. 33/2013, modificato dallo stesso D.Lgs. n. 97/2016): l’utilizzo di transazioni “chiuse”, non influenzabili o alterabili tramite soggetti esterni, rappresenterebbe una rivoluzione copernicana per la galassia dell’anticorruzione (già nel 2019 l’OECD Global Anti-corruption & Integrity forum individuava nell’accentramento di potere – e nelle possibilità di cattivo uso dello stesso – le precondizioni maggiormente favorevoli alla nascita e diffusione del fenomeno corruttivo).
I nodi decentralizzati consentirebbero di rendere il processo impermeabile a infiltrazioni esterne, oltre che certificato e ex post immutabile: tutte caratteristiche che hanno portato alcuni (tra cui Goldman Sachs) a ridenominare la blockchain come “Technology of Trust”. Naturale, allora, che tra i più promettenti impieghi della blockchain vi siano quelli connessi alla tutela della genuinità dei processi di certificazione e di tracciabilità della filiera, anche per quanto specificatamente riguarda la tutela del Made in Italy (dove il ruolo della fiducia del cittadino-consumatore è di estrema rilevanza): il primo progetto pilota inaugurato dal MISE – datato 2019 – specifica espressamente l’importanza della segregazione degli accessi e delle tecniche di crittografia per “impedire l’accesso non autorizzato alla rete” e contemporaneamente identificare la provenienza – e dunque la storia – dei vari asset, garantendo l’immutabilità e una Ground Truth all’intero processo.
Blockchain per l’aderenza al Codice appalti
Integrità e tracciabilità del trasferimento delle informazioni potrebbero trovare impiego anche per le procedure ad evidenza pubblica, come in quelle previste dal Codice dei contratti pubblici. La direzione intrapresa dal legislatore tramite il Codice Appalti è – in tutta evidenza – una sempre maggiore ricerca di trasparenza, proprio in funzione di argine e contrasto ad eventuali fenomeni corruttivi. I meccanismi della blockchain, tra cui il riconoscimento e l’obbligatoria validazione di ogni transazione, permetterebbero non solo un elevato grado di sicurezza – e dunque di fiducia, ndr – ex ante, potendo bensì anche assicurare, ex post, la tracciabilità e la verificabilità dei singoli atti e delle singole fasi della procedura pubblica, determinando istantaneamente, al momento stesso della realizzazione dell’operazione, l’immutabilità della medesima.
Ne guadagnerebbero, in misura certamente inedita rispetto al passato, la genuinità della procedure di scelta del contraente e di valutazione dell’offerta (che, ricordiamo, sarebbe incorruttibile e immodificabile), impattando quindi anche sulla discrezionalità della scelta (e, dunque, sulle possibili condotte concussive-corruttive dell’agente umano). Simili opportunità di sviluppo della blockchain fanno già parte, oltre ad altre – come la gestione digitale dei certificati pubblici – dell’infrastruttura IBSI, ed è dunque ragionevole attendersi uno sviluppo futuro più marcato e, soprattutto, diffuso su larga scala.
Conclusione del contratto pubblico e controversie: il ruolo degli smart contract
Ma l’utilizzo della tecnologia blockchain non è limitato al perseguimento degli interessi generali nella sola fase dell’individuazione del contraente, potendo anzi favorire la bontà dell’azione amministrativa anche nella successiva fase della conclusione del contratto con la P.A. attraverso gli smart contract (cui opera un puntuale riferimento anche la Strategia del MISE nella sezione dedicata all’SSI, sopracitata). L’espresso riconoscimento normativo degli smart contracts, inizialmente avvenuto ad opera dell’art. 8 ter co. 2 del D.l. 135/2018, ha costituito certamente una prima, importante manifestazione di apertura del legislatore alle nuove possibilità offerte dallo strumento tecnologico, ed ha ulteriormente confermato l’opportunità di un ricorso generalizzato: si pensi alla contrazione dei tempi di transazione, o alla rivisitazione del ruolo svolto dalle parti nell’elaborazione del contenuto del contratto.
O ancora, ad esempio, alle eventuali controversie nell’esecuzione del contratto, la cui – immediata – risoluzione sarebbe affidata al protocollo informatico e non (più) alla decisione delle parti o, addirittura, di un soggetto esterno (su tutti, un arbitrato o un Tribunale). Certo uno smart contract dovrebbe per sua natura includere anche clausole extra-informatiche, in grado di coprire l’imprevedibile (l’esigenza di un’interpretazione analogica, insomma, non verrebbe meno tout court), ma è pur vero che l’alea contrattuale verrebbe ridotta al minimo (a tutto beneficio della speditezza e della certezza dell’operazione, oltre che di una evidente riduzione dei costi anche nascosti della stessa).
Blockchain per la PA: come funziona l’e-voting
Infine, pur se con solo qualche accenno, deve ricordarsi il possibile binomio tra blockchain e partecipazione pubblica (in particolare, e-voting): se è vero che permangono alcune criticità di non poco conto, specie connesse alla gestione delle credenziali di accesso e autenticazione in capo ai singoli utenti (con evidenti rischi per la genuinità del voto), è altrettanto vero che alcuni esempi di Blockchain-enabled e-voting (c.d. BEV) sono già comparsi al di fuori dell’Italia: possono ricordarsi gli esempi della provincia sudcoreana di Gyeonggi-do, dell’e-voting estone (attenzionato anche dal Connecting Europe Facility program – CEF Digital), o – ancora – dal partito danese Alleanza Liberale, divenuto il primo partito ad utilizzare un sistema di votazione interna tramite blockchain. Casi pratici che dimostrano la fattibilità – non solo astratta – di una soluzione tecnica che potrebbe offrire non poche opportunità per il gioco democratico: si pensi solamente al voto per i fuorisede, divenuto argomento sempre più rilevante e sul quale già si concentrano alcune proposte apparse con l’inizio della XIX legislatura.