Gli ultimi sviluppi sul fronte della guerra dei chip tra Stati Uniti e Cina non danno segni di disgelo tra le due sponde del Pacifico. Negli ultimi mesi si sono anzi moltiplicati i divieti del Dipartimento del Commercio Americano sulle esportazioni di semiconduttori e apparecchiature necessarie alla loro produzione.
Chip: Taiwan e quel delicato equilibrio che impedisce l’escalation Usa-Cina
La Cina inietta mille miliardi di yuan nel settore dei chip
In risposta alle crescenti pressioni statunitensi e nella ricerca della tanto agognata autonomia strategica, che tuttavia tarda ad arrivare, la Cina sta lavorando a un pacchetto di sostegno di oltre 1.000 miliardi di yuan per supportare il settore. Oltre che aiuti alle imprese atte alla produzione, assemblaggio e R&D nel campo dei chip, il piano cinese prevede anche politiche fiscali preferenziali nonché una nuova assertività nei fora internazionali. La Cina ha infatti avviato una controversia presso l’Organizzazione Mondiale per il Commercio per le misure di controllo alle esportazioni portate avanti dagli Stati Uniti.
Taiwan grande alleato degli Usa
Nel braccio di ferro con Pechino, un grande alleato degli Stati Uniti sembra essere Taiwan. È del 6 dicembre la nuova dichiarazione dei vertici di TSMC i quali hanno annunciato l’intenzione di aumentare i propri investimenti in Arizona, dove l’azienda è già impegnata nella costruzione di un impianto per la produzione di chip da 12 miliardi di dollari. La Taiwanese TSMC, leader mondiale indiscusso nella produzione di semiconduttori, porterà i suoi investimenti ad una cifra pari a 40 miliardi di dollari che finanzieranno la costruzione di un impianto produttivo ancora più all’avanguardia.
L’impianto, che dovrebbe entrare in funzione nel 2026, sarà il primo negli Stati Uniti, secondo quanto dichiarato dall’azienda, a produrre chip di tre nanometri, i più avanzati sul mercato. D’altro canto, si pensi che la Semicondutor Manufacturing International Corporation cinese, ha da poco abbattuto la soglia dei sette nanometri.
Nel frattempo, aziende cinesi come Alibaba, che anche si affidano a TSMC, stanno iniziando a modificare i loro prototipi di chip in modo da produrre componenti con un’inferiore velocità di elaborazione che possano così eludere le sanzioni statunitensi, al momento principalmente focalizzate sui chip di ultima generazione. Questo nonostante le aziende cinesi abbiano già investito anni e miliardi di dollari per progetti di chip ultramoderni in grado di alimentare supercomputer, algoritmi di intelligenza artificiale e data centers.
La strategia Usa è un’arma a doppio taglio?
Posto che a fronte degli investimenti Taiwanesi, gli Stati Uniti possano dare un importante slancio al settore dei semiconduttori, c’è da chiedersi quale sia la reale efficacia della strategia americana, almeno sul breve termine. Secondo alcuni, i controlli alle esportazioni americane potrebbero finire per indebolire le aziende statunitensi stesse contribuendo altresì alla spinta al disaccoppiamento dell’economia cinese.
Nell’ottica di queste sempre maggiori pressioni sulle finanze statunitensi, per le quali la guerra ai semiconduttori è già costata miliardi di dollari, si possono leggere le crescenti strette di Washington sugli alleati.
Un fronte anticinese compatto non è facile da raggiungere
È di metà novembre, ad esempio, la richiesta inoltrata dal sottosegretario al Commercio Americano a Giappone e Olanda per avanzare nuove azioni verso la Cina.
Washington avrebbe, infatti, fatto pressioni su Olanda e Giappone affinché venisse vietato l’export non solo dei chip di ultima generazione, ma anche dei prodotti meno sofisticati. Entrambi i governi hanno concordato in linea di principio di adottare “almeno alcune” delle restrizioni statunitensi.
Seppure Washinton abbia quindi esercitato con un certo grado successo queste pressioni ad unirsi a pieno titolo al fronte statunitense, un compatto fronte anticinese, in un momento in cui la domanda globale di semiconduttori rallenta, sembra complicato da raggiungere. Secondo Reuters, il rallentamento della domanda di chip rappresenta una potenziale preoccupazione per Washington. Le vendite totali di chip sì ridurranno del 4% nel 2023, una netta inversione rispetto alla crescita del 26% nel 2021. Secondo il quotidiano, ciò renderà le aziende sempre più diffidenti nell’accogliere rapidamente e pienamente le richieste di Washington. Questa esitazione giocherà a favore della Cina, la quale potrà guadagnare tempo per accumulare componenti e strumenti stranieri e aiuterà il presidente Xi Jinping a corteggiare nuovi potenziali i partner commerciali.[1]
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Conclusioni
Le due maggiori economie mondiali stanno quindi imponendo complessi e stratificati controlli statali su un’industria che un tempo incarnava i principi del libero scambio e della most favorite nation, e sembra esserci sempre meno spazio per un futuro allentamento delle tensioni. A Washinton come a Pechino tutti sembrano vedere la rivalità tecnologica come essenziale per il futuro ordine mondiale. La situazione attuale sembra così contraddire in modo quasi grottesco uno dei principali paradigmi liberali che hanno contraddistinto il secolo scorso secondo i quali l’interdipendenza complessa tra nazioni sviluppate avrebbe ridotto le possibilità di scontro. Tutto al contrario, piuttosto che disinnescare i conflitti e incoraggiare la cooperazione sono proprio gli interessi economici intrecciati a creare sempre nuovi spazi per la competizione.
- https://www.reuters.com/breakingviews/chip-dilemma-will-buy-beijing-precious-time-2022-12-19/ ↑