scuola e digitale

Smartphone a scuola, le contraddizioni del Ministero

La nuova nota ministeriale sull’uso degli smartphone a scuola non cambia niente rispetto a quanto già stabilito nel 2007 eppure usa un linguaggio terrorizzante, il tutto mentre le nuove linee per l’orientamento incentivano il digitale come ambiente necessario. Una schizofrenia istituzionale che confonde

Pubblicato il 27 Dic 2022

Daniela Di Donato

Docente di italiano (Liceo scientifico), PhD in Psicologia sociale, dello sviluppo e della Ricerca educativa presso Sapienza Università di Roma, esperta di metodologie didattiche, inclusione e uso delle tecnologie digitali a scuola.

CELLULARE figli

Arrivano i fondi del PNRR e le linee guida del Piano scuola 4.0, per sviluppare innovazione negli ambienti scolastici e nella didattica anche con le tecnologie digitali, e contemporaneamente giunge la nota del Ministro Valditara, che riaccende la mai sopita paura dell’uso degli smartphone a scuola.

Nella posologia si dovrebbe scrivere che il documento può provocare fastidio, rabbia e un certo imbarazzo. Mi sono subito venute in mente le poche essenziali regole illustrate da Vera Gheno, quando parla di Antropocene linguistico: “Riconosci e pattuglia i limiti della tua conoscenza. Stana stereotipi e automatismi linguistici. Resisti all’istintiva xenofobia umana…poniti dubbi su quello che leggi e senti; chiediti se qualcuno sta provando a manipolarti. Se qualcosa ti infastidisce chiediti perché […] Ignora l’aggressività e rimani sulla questione”.

Il cellulare a scuola va usato, ma con regole chiare: ecco quali

Smartphone a scuola, il filo rosso da Fioroni a Valditara

Rimaniamo allora sulla questione. Un filo rosso lega la circolare di Fioroni del 2007 alla nota di Valditara del 2022: nessuno si è mai sognato di vietare l’uso didattico degli smartphone. Anzi, a dirla tutta, nella circolare pubblicata il 20 dicembre scorso si parla anche di uso formativo e destinato a promuovere l’inclusione: “È viceversa consen

tito l’utilizzo di tali dispositivi in classe, quali strumenti compensativi di cui alla normativa vigente, nonché, in conformità al Regolamento d’istituto, con il consenso del docente, per finalità inclusive, didattiche e formative, anche nel quadro del Piano Nazionale Scuola Digitale e degli obiettivi della c.d. “cittadinanza digitale” di cui all’art. 5 L. 25 agosto 2019, n. 92”.

Questo scoglio di salvezza affiora però da un mare in burrasca, che descrive lo smartphone come uno strumento dell’orrore, capace di deviare gli animi la cui purezza è ormai perduta da tempo. Questo è quello che cerca di sostenere il documento allegato alla nota, che rivela una sua ambiguità: si tratta infatti del report di una delle dieci commissioni permanenti del Senato[1] (prima della riforma costituzionale erano quattordici), che non hanno prodotto né decreti né emendamenti, ma che descrive il frutto dei suoi lavori e delle sue indagini conoscitive.

Smartphone e cocaina

Non è un documento recente: è stato approvato il 9 giugno 2021, nella XVIII legislatura, cioè quella precedente all’attuale. Il documento di accompagnamento esordisce con la frase: “Ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica… Sono gli effetti che l’uso, che nella maggior parte dei casi non può che degenerare in abuso, di smartphone e videogiochi produce sui più giovani. Niente di diverso dalla cocaina. Stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche”. Cocaina e smartphone associati nello stesso incipit non lasciano indifferenti, soprattutto in un documento, che si ritiene così importante da allegare ad una nota ministeriale e dal quale ci si aspetta un rigore istituzionale, ispirato da un metodo oggettivo e condivisibile. Sostenere che “la maggior parte dei casi non può che degenerare in abuso” oppure che questo è ciò che sostiene “la maggior parte di neurologi, psicologi, pedagogisti, neurologi, degli psichiatri, degli psicologi, dei pedagogisti, dei grafologi, degli esponenti delle Forze dell’ordine” senza vedere una tabella, una percentuale, una rilevazione statistica genera una forte sensazione di disagio perché certe conclusioni sembrano surrettizie, orfane di riferimenti precisi e puntuali a ricerche e rilevazioni scientifiche nazionali e internazionali.

La schizofrenia istituzionale sul digitale

Secondo questo documento “più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri”. Allora come mai destinare tutti questi fondi per far calare le competenze degli studenti? E dove finisce la Raccomandazione del 2018 sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente, che inserisce il digitale tra le competenze di base?

Descrivere i ragazzi che soffrono di Hikikomori come degli zombie o l’immagine degli studenti italiani come “schiavi resi drogati e decerebrati” non sembra una manifestazione di rispetto e fiducia nei confronti di una generazione di giovani, che avrebbe bisogno di motivazione e supporto, non di vedersi etichettare come cocainomane e priva di qualsiasi capacità cognitiva.

Dalla circolare di Fioroni del 2007 ad oggi sono trascorsi quindici anni ma non abbiamo ancora trovato un linguaggio equilibrato per parlare di digitale e di scuola e sembra ancora un miraggio la consapevolezza che gli ambienti digitali non possano essere tout court esclusi dal sistema di istruzione italiano, ma farne parte con piena e completa dignità.

Le linee per l’orientamento e il digital mismatch

Nel frattempo, due giorni dopo l’uscita di questa nota, il ministero licenzia le nuove linee per l’orientamento, nelle quali si parla di e-portfolio e digital mismatch.

C’è una innaturale schizofrenia istituzionale, che da una parte terrorizza gli insegnanti presentando l’uso dei dispositivi personali come un inno al demonio e dall’altra incentiva il digitale come ambiente necessario, nel quale sviluppare competenze e innovazioni. Certo, ci si chiede perché si senta il bisogno e l’urgenza di continuare ad alimentare questa doppia anima, facendo crescere negli insegnanti il disagio professionale e l’incertezza operativa, invece di sostenere la scuola nei processi di cambiamento, perché ciò che accade in classe e nella progettazione delle scuole sia ispirato ad una pedagogia dell’inclusione (non dell’esclusione), ad una pedagogia dello sviluppo dei talenti e delle potenzialità (non della conservazione a priori delle consuetudini vuote), ad una pedagogia del digitale adottata in un quadro di Media education (non di terrorismo ideologico verso le tecnologie mobili).

Ci sarebbe bisogno di un incoraggiamento, basato su un approccio esclusivamente educativo invece di una trama di architetture complesse ispirate da divieti, punizioni e minacce.

Il manifesto sul Byod

Tutto questo è già avvenuto, quindi esiste un solido basamento istituzionale intorno al quale definire la questione: nel gennaio 2018, quando la ministra Fedeli fece pubblicare il manifesto del Byod sui dieci punti per l’uso dei dispositivi mobili a scuola (qui il questionario che avevo preparato mesi fa per fare il punto sulla questione).

BYOD a Scuola, il triplice valore degli strumenti

Cosa ne pensa l’intelligenza artificiale

Il documento integrativo al manifesto, che era stato elaborato dalla commissione che ci lavorò (e della quale io stessa ho fatto parte) è scomparso nei cassetti del ministero, ma la voce limpida di quei punti non è mai stata spenta o cancellata. Sarebbe stata una ottima occasione per rilanciare quel documento prezioso, invece di lanciarci addosso dei pomodori tipografici.

Volevo un parere diverso dal mio e allora ho rivolto la domanda: “Che cosa ne pensi dell’uso degli smartphone a scuola?” ad un soggetto indipendente, che mi ha risposto così: “In generale, penso che l’uso dello smartphone a scuola dipenda dalle circostanze specifiche e dalle politiche della scuola. In alcune situazioni, l’uso dello smartphone può essere uno strumento utile per l’apprendimento, ad esempio per fare ricerche online, partecipare a discussioni in classe o accedere a materiali didattici. Tuttavia, l’uso eccessivo o inopportuno dello smartphone può distrarre gli studenti e interferire con il loro apprendimento, quindi è importante che le scuole stabiliscano delle politiche chiare sull’uso dei dispositivi mobili e che incoraggino gli studenti a usarli in modo responsabile”. Confortante che perfino un artefatto linguistico computazionale, come ChatGPT, che non fa altro che raccogliere tutto quello che noi abbiamo inserito nella rete e quindi apprende da quel che noi abbiamo appreso, riesca ad esprimere un parere equilibrato e soprattutto parli di politiche d’uso (la famosa PUA, Politica di uso accettabile, la stessa che ci ha salvato dalla chiusura delle scuole durante la pandemia) e di incoraggiamento, non di divieto.

Conclusioni

Se è vero, come ci dice magistralmente Paolo Benanti, che quella tecnologia che è il linguaggio è il luogo dove, come specie, abbiamo cercato il riconoscimento del giusto e del bene in quella che chiamiamo etica, allora cambiamo le parole con cui parliamo di digitale e soprattutto di digitale a scuola, perché altrimenti stiamo indirizzando le nostre energie in una direzione contraria a quella che ci permetterebbe non solo di far sopravvivere la scuola, ma soprattutto di farla rinascere. Abbiamo bisogno di ampia collaborazione e spirito di servizio, non di ulteriori aggressioni ad una comunità come quella scolastica, così provata dagli eventi degli ultimi tre anni.

Bibliografia

Gheno V. (2021). Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole. Einaudi

Benanti P. (2021). La grande invenzione. Il linguaggio come tecnologia dalle pitture rupestri al GPT-3. Edizioni San Paolo.

  1. L’articolo 72 della costituzione italiana stabilisce che le commissioni permanenti siano composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. In questo caso però non è stato così.

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