L'approfondimento

Chip, perché sarà un anno difficile per l’industria: lo scenario globale

Il Presidente degli Stati Uniti Biden sta conducendo la guerra dei chip, limitando fortemente le esportazioni di processori verso la Cina, dopo lo stop alla Russia. La posizione sempre più delicata di Taiwan e la rincorsa della Ue. Gli esperti ci aiutano a capire le molte sfaccettature di un’industria strategica e complessa

Pubblicato il 01 Feb 2023

Mirella Castigli

ScenariDigitali.info

La geopolitica dei chip: l'impatto sulle filiere e le sfide del 2023

L’industria dei chip è da sempre stata l’emblema e uno dei cardini della globalizzazione. Ma il mondo pare entrato in una nuova fase di de-globalizzazione e di friendshoring (il re-shoring nei mercati nazionali e dei Paesi alleati) e la geopolitica ha cominciato a innalzare confini dove non c’erano. Tira linee nette di demarcazione ideologiche per separare.

Da un lato le filiere atlantiche legate agli USA. Dall’altro, la Cina con i vari Paesi satelliti nel Sud-est asiatico, il Medio-Oriente, Eurasia e l’Africa dove Pechino sta spingendo l’adozione delle sue tecnologie. Sono i Paesi che hanno aderito alla Belt and Road Initiative (Bri), la nuova via della Seta, o che si sono affidati agli aiuti finanziari cinesi e che stringono accordi commerciali con Pechino. Sono quelli che accettano gli standard cinesi quando costruiscono le loro infrastrutture digitali.

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Il decoupling è dunque inevitabile. I Paesi devono prepararsi alle sfide future, mettendo a punto il loro piano B e cercando nuove strategie nel nuovo mondo post-pandemia.

Facciamo il punto sullo scenario globale di questa industria complessa e strategica.

È la geopolitica, bellezza

La geopolitica, abbiamo detto, è entrata prepotentemente nell’industria dei chip, un mercato già fortemente stressato dal post-pandemia, anche se siamo in fase di ritorno degli stock. Ma in realtà “i chip sono sempre stati geopolitici”, commenta Alessandro Aresu, autore del libro “Il dominio del XXI secolo” (Feltrinelli, 2022).

“Fin dall’inizio, la storia dei chip accompagna lo sviluppo militare degli Stati Uniti. La crescita americana dei chip deriva dal fatto che il mercato non è solo militare, ma diventa il vasto mondo dell’elettronica di consumo. Politica e mercato, quindi”, sottolinea Aresu.

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La carenza dei processori ha avuto un significativo impatto sulle filiere industriali, “ma ora la domanda è in calo”, aggiunge David Burigana, professore associato di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di Padova. Inoltre la chip war, sferrata dal Presidente Usa Joe Biden contro Russia e Cina, insieme agli incentivi dell’Inflaction Reduction Act approvato ad agosto, ha un impatto globale sulle supply chain.

Per contenere l’ascesa tecnologica cinese, Washington ha deciso di limitare l’export dei chip in Cina. Il risultato sarà un anno complesso per l’industria dei semiconduttori, con implicazioni molteplici e conseguenze a lungo termine, anche in Italia e in Europa, dove lo scopo della normativa sui chip è di ridurre le vulnerabilità della UE e le sue dipendenze da player stranieri.

Le restrizioni americane all’esportazione dei processori

Nell’ambito del braccio di ferro con Pechino, gli USA hanno istituito le più ampie restrizioni di sempre all’export dei chip. L’amministrazione Biden punta a limitare le vendite di processori alla Cina e a porre paletti a chi può lavorare per le aziende cinesi.

Al contempo, il governo statunitense intende agevolare la filiera dell’industria dei processori, introducendo generosi sussidi federali per effettuare il reshoring e riportare la manifattura verso gli USA. “Anche se la maggioranza alla Camera non è stata così netta lo scorso fine luglio”, spiega David Burigana, “l’amministrazione Biden ha stabilito un investimento di oltre 50 miliardi immediati nel settore delle foundry. In dieci anni l’impegno è di sviluppare 200 miliardi di dollari nel settore della Science, quindi non solo la ricerca scientifica applicata ai microchip, ma anche tutte le conseguenze”.

Altri governi in Europa ed Asia, dove hanno sede i maggiori chipmaker, hanno introdotto policy simili per mantenere le loro posizioni nell’industria. I cambiamenti in atto continueranno ad avere effetto nel 2023, ma ad essi si somma un nuovo elemento di incertezza nell’industria che finora ha fatto affidamento a una supply chain distribuita e globale.

Finora si sceglieva in libertà con chi fare business. D’ora in poi, la geopolitica giocherà un ruolo di primo piano nel mercato da 500 miliardi di dollari dei semiconduttori.

Lo scenario europeo sullo scacchiere dei chip

“Non è un caso che lo scorso ottobre si sia svolto alla Farnesina”, continua il professor David Burigana, “l’incontro bilaterale fra l’allora ministro del Mise Giorgetti e il ministro francese Bruno Le Maire, per investire in quattro settori: vaccini, spazio, elettronica e idrogeno. Il rilancio della microelettronica avviene attraverso l’investimento di 5-6 miliardi di euro in STM, un progetto che s’innesta nel quadro del Chips Act europeo”. Il piano dei sussidi europei dovrebbe permettere di mobilitare 45 miliardi di investimenti pubblici e privati utilizzando la leva del bilancio dell’Ue.

Tuttavia, osserva David Burigana, le cifre in gioco in Europa e USA sono di 45 miliardi la UE e 50 miliardi gli USA, “mentre i piani di Taiwan sfondano circa i cento miliardi. La foundry a Sud di Taiwan, finanziata anche dagli Stati Uniti, ha ricevuto circa 60 miliardi di investimenti per la produzione di massa di chip con tecnologia a 3 nanometri. La Cina oscilla fra i 6 e gli 8 (il Covid è di 15 nanometri…). Invece l’Unione europea non riesce a scendere sotto i 10 nanometri”.

“Secondo un report della Commissione europea, l’Europa ha una quota nel mercato dei chip pari all’8% (contro il 24% del 2000). L’obiettivo europeo è recuperare market share per tornare al 20% di quote di mercato”.

Nel 2000 l’Europa deteneva un quarto della produzione dei chip, “grazie al coordinamento fra ricerca scientifica ed industria negli anni ’90, nonostante che gli investimenti non fossero elevatissimi”, sottolinea Burigana.

Gli Usa scommettono sui chip con il Chips Act

Nel 2022 gli USA hanno varato il Chips and Science Act, che mette sul piatto 52 miliardi di dollari per l’industria dei semiconduttori e della ricerca. Di questi, 39 miliardi servono a sussidiare la costruzione di fabbriche negli Stati Uniti. Dal prossimo febbraio le aziende potranno attingere a questi fondi, i vincitori saranno presto resi noti.

Alcuni fondi permetteranno di aiutare le fabbriche di manifattura militare dei chip basate sugli USA. Il governo da tempo esprime preoccupazione sui rischi di sicurezza nazionale legati ai chip provenienti dall’estero.

Probabilmente sempre più aziende torneranno negli USA con l’obiettivo di ricostruire la supply chain di difesa”, ha dichiarato al MIT Technology Review Jason Hsu, ex legislatore di Taiwan che attualmente è senior fellow presso la Kennedy School di Harvard dove svolge ricerca sull’intersezione dei semiconduttori e geopolitica. Hsu afferma che le applicazioni di difesa sono la maggior ragione per cui il colosso taiwanese TSMC ha deciso di investire negli Stati Uniti 40 miliardi di dollari. Oltretutto, nella produzione dei processori a 5 nanometri e 3 nanometri, le generazioni di chip attualmente più avanzate.

Tuttavia il reshoring pone anche diverse problematiche.

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Le criticità del reshoring

Il reshoring della produzione dei processori commerciali non è una passeggiata ed incontra varie problematiche. La produzione della maggior parte dei chip impiegati nei prodotti consumer e data center, fra le applicazioni commerciali, avviene in Asia.

Spostare questa manifattura negli USA potrebbe spingere in alto i costi, rendendo i processori meno competitivi, nonostante i sussidi governativi. Nell’aprile scorso, il fondatore di TSMC Morris Chang ha spiegato che i costi di produzione dei chip sono più alti del 50% rispetto a Taiwan.

“Il problema è che Apple, Qualcomm e Nvidia acquisteranno I chip prodotti negli USA, e dovranno bilanciare questi costi, poiché il prezzo dei chip sarà ancora meno costoso a Taiwan,” ha messo in guardia Paul Triolo, senior vice presidente della Albright Stonebridge, società di business strategy, per le aziende che operano in Cina.

Altre criticità sono l’alto costo del lavoro negli USA o la difficoltà a mantenere gli incentivi governativi. Insomma, servono sussidi importanti per investire a lungo termine nella produzione statunitense.

Gli Stati Uniti non sono i soli impegnati ad attrarre più fabbriche di chip. Perfino Taiwan ha varato un subsidy act a novembre per defiscalizzare il mercato dei chip. Giappone e Sud Corea stanno seguendo le stesse politiche.
Woz Ahmed, consulente britannico ed ex manager dell’industria dei chip, prevede che nel 2023 sono in arrivo i sussidi dall’Unione europea, anche se la finalizzazione degli accordi è prevista per l’anno prossimo, perché in Europa simili decisioni richiedono il semaforo verde degli stati membri.

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L’impatto della geopolitica nell’industria dei chip

Il 2023 è appena iniziato, ma già sappiamo che la domanda di elettronica da consumo è in stallo, dopo la forte domanda durante la pandemia e nel successivo post-pandemia. Oggi lo scenario di mercato e l’aumento dei prezzi hanno portato la consumer electronic a un plateau.

Tuttavia, ad eclissare i fondati timori sul ciclo economico e le sfide associate ai chip evoluti (pensiamo al 6G che, secondo Idc, ci traghetterà nell’era della Terabyte economy, dominata dalla robotica mobile personale), potrebbe essere il fattore geopolitico.

Non una novità, in realtà. “Negli anni ’80”, continua Aresu, “i chip sono geopolitici perché rappresentano un elemento ad alto valore aggiunto della filiera industriale giapponese contro gli Stati Uniti, negli anni della paura del “sorpasso” di Tokyo: l’aspetto che scatena l’elaborazione degli strumenti di controllo degli investimenti esteri di Washington. L’interconnessione fra ragioni di mercato e geopolitiche, dunque, porta all’ascesa di altri attori globali come Taiwan e la Corea del Sud, e alla complessità crescente della filiera, fatta di numerose aziende che si misurano sui principali mercati per dare soluzioni sempre più competitive che accompagnano l’era digitale. In questo percorso sono presenti anche Paesi europei: in particolare Paesi Bassi, Germania, Italia e Francia, in parte l’Irlanda, l’Austria”.

“I chip sono geopolitici perché il numero dei clienti delle aziende della filiera è globale, mentre il numero dei produttori rilevanti (non solo la manifattura, ma anche il software, la chimica e i materiali, i macchinari, il testing) è relativamente ristretto. Conta dunque la capacità di collocarsi in termini di forza tecnologica, all’interno di questi segmenti della filiera che sono tanti e molto importanti, e aggredire gli elementi a maggiore valore aggiunto”, spiega il consigliere scientifico della rivista Limes, già consulente e consigliere della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Mef, Affari Esteri e Agenzia Spaziale Italiana, capo della segreteria tecnica del Mur.

Chip war fra Usa e Cina: nuove barriere in arrivo

I controlli che gli USA hanno introdotto nell’ottobre scorso sull’export dei chip e delle tecnologie avanzate verso la Cina rappresentano un’escalation nella guerra dei chip.
Finora Washington ha applicato le barriere alla vendita dei processori a poche specifiche aziende cinesi, ma presto saranno estese a tutte le entità cinesi.

“Il tornante geopolitico dei chip in questo secolo”, continua Aresu, “è quando diventano la prima fonte di importazione dalla Repubblica Popolare cinese. La Cina ha avanzato sempre più piani di cosiddetta autosufficienza tecnologica visti come problematici da parte degli Stati Uniti, per due ragioni: la crescita cinese delle acquisizioni all’estero (ora meno presente per i controlli sugli investimenti esteri occidentali, ma ancora rilevante, per esempio nel corporate venture capital); le implicazioni militari, soprattutto per i sistemi autonomi, che varranno soprattutto in futuro”, dunque, “l’aspetto politico e legato alla sicurezza è molto presente, soprattutto mentre diventa più acceso il confronto fra due attori globali come Usa e Cina”.

Inoltre, si aggiungono nuove misure come la restrizione della vendita ai cinesi di altri dispositivi essenziali nell’industria dei chip.
Le policy gettano l’intera filiera nell’incertezza. Ci si domanda quali siano i chip e le tecnologie da considerare “avanzate” e se le restrizioni vadano applicate anche alle aziende cinesi che usano sia chip di vecchia che di nuova generazione.

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Il Dipartimento del Commercio ha rilasciato le Faq per offrire delucidazioni ai quesiti più pressanti. Per esempio, ha illustrato che le restrizioni non valgono se i chip di vecchia generazioni sono prodotti in un’ala separata della fabbrica. Ma non è chiaro se seguirà un enforcement delle regole e in quale direzione.
Alcune aziende cinesi hanno cercato di bypassare i limiti. Un vendor è giunto perfino a camuffare i suoi chip per farli sembrare meno avanzati. Ed evitare di incorrere nelle restrizioni.
Poiché il mercato cinese è gigantesco e profittevole, ci saranno aziende non cinesi motivate ad aggirare i paletti. Senza controlli, secondo Ahmed, saranno in tanti a provare a rompere le righe, bypassando i divieti.

Le sfide del 2023 nella geopolitica dei chip

Quest’anno si attendono nuove regole, ancora più stringenti, anche per i chip che si rivolgono all’industria del quantum computing eccetera. Chris Miller, professore di storia internazionale alla Tufts University, pensa che sia giunta l’ora di mettere il programma in pausa. Meglio focalizzarsi sulle restrizioni odierne, prima di compiere ulteriori passi.

“Non mi aspetto un’estensione dei controlli sull’export dei chip (nell’anno in corso, ndr)”, afferma Miller, autore del libro dal titolo “Chip War: The Fight for the World’s Most Critical Technology”

“L’amministrazione Biden ha trascorso la maggior parte dei due anni in ufficio a predisporre queste restrizioni. La speranza è che le limitazioni funzionino senza dover sferrare nuovi giri di vite”.

La risposta cinese

Il governo cinese ha finora dato una risposta modesta ai controlli americani dell’export. Si è limitata ad annunci diplomatici e a dispute legali indirizzata al World Trade Organization (Wto). Secondo molti esperti, la Cina non inasprirà la posizione.
Pechino non trae vantaggio dal re-shoring del settore dei chip negli USA. “Gli americani possiedono sufficiente tecnologia core. Invece la Cina è ai piani bassi della supply chain. Per definizione, Pechino non ha abbastanza strumenti per fare ritorsioni”, secondo John Lee, il direttore dell’East West Futures Consulting.

Ma il Paese controlla l’80% della raffinazione delle terre rare. Sono gli elementi chimici essenziali per realizzare prodotti bellici, come parti di jet da combattimento. Ma anche componenti chiave delle batterie e schermi dei dispositivi consumer di uso quotidiano. Sulle terre rare, bisogna considerare anche l’impatto geopolitico della scoperta svedese di un importante giacimento che aiuterà l’Europa nella transizione ecologica ed energetica.

La Cina potrebbe comunque rispondere al bando dell’export americano, senza infliggere grandi ritorsioni, ma limitandosi a sanzionare una manciata di aziende statunitensi, nell’industria dei chip o no, solo per inviare un messaggio.

L’approccio della terra bruciata sarebbe costoso sia per la Cina che per gli USA, secondo Miller. L’industria dei processori cinesi non è in grado di sopravvivere senza il supporto della supply chain globale. Da essa dipende per le macchine di litografia, core chip IP e wafer.
Dunque, alla Cina conviene evitare ritorsioni aggressive. Inquinerebbero l’ecosistema del business: è “probabilmente la strategia più intelligente per la Cina”, dice Miller.

Invece è più probabile che Pechino si focalizzi nell’irrobustire la sua produzione nazionale. Nel primo trimestre dell’anno, la Cina potrebbe annunciare un pacchetto da un trilione di yuan (pari a 143 miliardi di dollari) a supporto delle aziende domestiche. Offrendo generosi sussidi, ha lavorato e testato metodi con cui ha sostenuto l’industria cinese dei semiconduttori nell’ultimo decennio. Ma rimane la questione di come allocare i fondi in maniera efficienza e alle aziende giuste, soprattutto dopo che l’anno scorso è stata messa in dubbio l’efficienza del fondo di investimento nei chip, sconquassato da alti livelli di corruzione.

L’utopia dell’autosufficienza tecnologica

“Se i piani di autosufficienza tecnologica si realizzassero”, mette in guardia Aresu, “la Cina chiuderebbe la filiera, con le sue aziende che forniscono il suo enorme mercato. Tuttavia, si tratta di una grande illusione per tutti: nessun Paese riuscirà mai ad avere una filiera completa e onnicomprensiva dei chip. Allo stesso tempo tutti i Paesi cercano di non essere troppo dipendenti dagli altri. Di fatto, è un gioco (di equilibrio, ndr) fra capacità tecnologica, esigenze di sicurezza e diversificazione del rischio, successo sul mercato. Un gioco importante per i Paesi che sono già forti nella filiera dei chip, ma anche per i Paesi che acquisiranno un peso maggiore come l’India. Questa scommessa tecnologica serve perché il settore crea grande valore aggiunto su elettronica di consumo, automotive, industria militare”.

“In questo scenario i Paesi occidentali vogliono ritrovare un ruolo in quella parte dell’industria dei chip che è la grande produzione manifatturiera, per ragioni economiche, sociali, politiche. Un ruolo che si era ridimensionato, soprattutto a favore di Taiwan e Corea del Sud”, precisa l’esperto italiano.

I campioni visibili e quelli nascosti

“L’industria è estremamente complessa”, illustra Alessandro Aresu, “essendo composta da attori più visibili e campioni nascosti. Gli Stati Uniti hanno potuto sferrare la guerra contro la Cina, con i controlli sulle esportazioni, dal momento che, in alcuni pezzi della filiera dei chip, soprattutto per quanto riguarda gli strumenti per la loro progettazione e i macchinari, ci sono aziende statunitensi indispensabili. Nessuna azienda cinese può fare alcuni chip senza il contributo di queste aziende americane: è impossibile. E la cosa più importante da tenere a mente è che la Cina non è riuscita a riprodurre il ruolo di aziende come Synopsys, Nvidia, Applied Materials. Questo è il potere degli Stati Uniti che bisogna considerare: aziende imprescindibili per la loro capacità di innovazione continua che i concorrenti non riescono ad acciuffare. Quindi gli Stati Uniti avranno in successo in futuro se sapranno mantenere queste capacità, e affiancarvi altre aziende”.

Taiwan e gli interessi europei

Ci sono Paesi come Olanda, Giappone, Sud Corea e Taiwan che, seppur mantenendo differenze ideologiche con la Cina, hanno interessi economici a mantenere relazioni commerciali con il gigante asiatico.

Alcuni Paesi ritengono che gli interessi europei non siano sempre sovrapponibili a quelli americani. Peter Wennink, CEO dell’azienda di apparecchiature litografiche ASML, ritiene che i controlli sull’export hanno sacrificato il business, mentre per le aziende americane sono superiori i vantaggi. Taiwan si trova in una posizione imbarazzante. Con la Cina condivide prossimità geografica e storici rapporti e intrecci economici.

La taiwanese Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC) vende chip alle aziende cinesi e costruisce fabbriche in Cina. Ad ottobre, gli USA hanno garantito a TSMC un anno di esenzione dalle restrizioni sull’export, ma non potrà essere rinnovata quando finirà nel 2023.
Tuttavia i rapporti fra Cina e Taiwan sono tesissimi. Aleggia perfino la possibilità di un conflitto militare fra Pechino e Taipei, un evento che avrebbe effetti catastrofici sull’economia globale. Ma una guerra al momento non è all’orizzonte.

L’incertezza regna sovrana, “dopo l’inversione di tendenza in seguito alle elezioni del 2016”, evidenzia Burigana. Aumentano gli investimenti nella manifattura d’oltreoceano, come le due fabbriche di chip che TSMC pianifica di costruire in Arizona. Taiwan Semiconductor Manufacturing Company sta esaminando l’opportunità di realizzare un primo stabilimento in Europa, concentrato sui sistemi hardware per l’auto, oltre a un secondo impianto in Giappone, dopo l’annuncio dell’incremento degli investimenti negli Usa.

“La Cina, fra il 2000 e 2005, arrivò a superare gli Usa, diventando il più importante importatore da Taiwan dopo il Giappone”, spiega David Burigana. “Con il cambio dell’atteggiamento cinese nei confronti di Hong Kong, Taiwan iniziò a considerare l’apertura cinese, dopo l’ingresso nel Wto, come propaganda. Gli avvenimenti di Hong Kong hanno avuto importanti riflessi sullo spostamento in Occidente dell’asse di interesse di Taiwan”.

Le altre incognite che pesano sull’industria

Nel mondo post pandemia, la domanda sarà sempre più declinata alla sostenibilità e alla transizione energetica ed ecologica. Infatti, “un altro aspetto, che acquisirà importanza crescente, riguarda la sostenibilità dell’industria”, evidenzia Aresu: “dunque il consumo energetico e quello idrico. Anche a Taiwan si pone il tema: sia per il consumo idrico ingente che per la necessità di avere energia stabile (dunque non solo da fotovoltaico o eolico)”.

“Questo aspetto”, sottolinea l’esperto di geopolitica dei chip, “è ancora più sensibile per via degli eventi climatici estremi. Un altro tema fondamentale riguarda i grandi programmi di ricerca applicata che hanno reso possibile la realizzazione industriale su vasta scala. Per esempio, l’azienda olandese ASML è cresciuta grazie a enormi investimenti di ricerca su scala industriale e alla loro realizzazione, tra programmi governativi USA, centri di ricerca europei, applicazione industriale.

Infine, c’è l’aspetto degli incentivi pubblici, “presenti in tutto il mondo con varietà diverse”, conclude Aresu, “che rende e renderà ancora più politica l’industria, anche se il successo si peserà sempre sul mercato e non sulle commesse pubbliche. In sintesi, arrivare a posizioni diverse di un’industria così complessa dipende da molti fattori, e i campioni industriali devono continuamente analizzare l’impatto dei cambiamenti politici e la velocità del cambiamento dei mercati di riferimento, pesare la capacità di ricerca e tentare di governare l’incertezza”.

Conclusioni

Le sfide geopolitiche si fanno ogni giorno più grandi. Intel, che aveva ottenuto aiuti di stato per 6,8 miliardi di euro in Germania, sta ripensando se investire in Europa. O se approfittare delle sovvenzioni negli Stati Uniti. Il calo della domanda di semiconduttori, l’inflazione e gli alti prezzi dell’energia hanno fatto lievitare i costi di investimento sulla fab a Magdeburgo. Erano stimati da Intel in 17 miliardi di euro. Ora sono saliti a 20 miliardi circa. Il governo tedesco potrebbe colmare il divario di finanziamenti. Però Intel deve decidere se mantenere il piano strategico decennale e gli 80 miliardi di investimenti in Europa. Oppure se lasciarsi sedurre dal reshoring di Biden.

In gioco è anche lo stabilimento di packaging di chip a Vigasio, in Veneto. Potrebbe creare cinquemila posti di lavoro tra diretti (1500) e indiretti. I lavori di costruzione dovrebbero prendere il via tra il 2025 e il 2027.

L’Italia non ha ancora raggiunto un accordo definitivo sull’apertura in Veneto. L’iter è stato complesso a causa della mancanza di coordinamento fra le regioni (Veneto, Piemonte e Sicilia con Catania). “Il problema è che il coordinamento tedesco è strutturato. Anche la Francia ha i consiglieri tecnici del Presidente che coordinano le grandi politiche”, conclude Burigana. L’Italia, purtroppo no.

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