Anche quest’anno si è svolto a Udine il Future Forum, il più importante think tank su scenari futuri dell’economia, della società e degli stili di vita.
Abbiamo ragionato insieme al coordinatore scientifico del progetto dell’edizione 2016, Emanuele Ferragina, per ricostruire con lui una sintesi del percorso, ricchissimo per ospiti e spunti: dalla lectio magistrale di Bauman all’intervento di Tremonti.
Il tema di quest’anno era “Scenari di ricostruzione economica”. Le basi di partenza, sulle quali lavorare in direzione di una costruzione o ricostruzione, sono quelle di un «sistema economico ingiusto verso i più deboli e meno qualificati». Negli anni settanta il sistema fordista e l’economia industriale nel suo insieme sono entrati in crisi ed il mondo occidentale ha virato con forza verso un’economia dei servizi. Si è spostato così il valore dalla produzione alla finanza e si è ingenerata parimenti la necessità e la creazione di nuove professionalità, perdendo così di fatto competenze e ruoli precedenti offerte di occupazione, prestigio e salario.
«Se un tempo, il lavoratore industriale, grazie alla crescente produttività del sistema e ai capitali investiti, riusciva ad ottenere aumenti ‘automatici’ di salario proporzionali alla crescita della sua produttività, nell’economia dei servizi questo succede solo ai lavoratori altamente qualificati, per gli altri ci sono solo salari stagnanti. Per semplificare potete vederla così: l’operaio alla catena di montaggio della FIAT si avvantaggiava della crescita della produttività, mentre chi fa caffè da starbucks ha margini molto ridotti di crescita. C’è un numero più o meno standard di caffè che si possono fare in un’ora».
Così lavoratori poco qualificati che un tempo vivevano dignitosamente con salari pubblici (sia del settore pubblico che privato) oggi, nell’attuale scenari di tagli di spesa, sono costretti a vivere ai margini, se non al di sotto, delle soglie della povertà.
La responsabilità non è delle nuove tecnologie, bensì della mancanza di un sistema di regolazione e protezione delle persone. «Chi lavora con Uber, per esempio, dovrebbe avere accesso a forme di protezione e regolamentazione simili agli altri lavoratori. Non è la tecnologia che precarizza il lavoro, ma le decisioni che sono prese (o troppo spesso non prese) dal decisore politico».
La politica (ed i suoi attori) pertanto dovrebbe riacquisire la funzione di controllo di un mondo nuovo rispetto a quello con il quale per decenni ha interagito, ma soprattutto lo deve fare in maniera veloce ed adattiva perché questo è l’ambiente in cui si trova ad operare e deve cercare di regolare. «Stiamo subendo un aggiustamento dolorosissimo dovuto alla completa mancanza di preparazione di quella che negli anni settanta si sarebbe chiamata classe dirigente».
Secondo Ferragina bisogna percorre una via diversa da quella della decrescita di Latouche, in quanto questa visione è troppo centrata sulla produzione materiale, quando l’economia di oggi invece è sarà sempre più un’economia digitale: «Ci sono margini per crescere, ma in modo intensivo, non estensivo. La tecnologia e l’economia digitale potrebbero spingere in questa direzione nel futuro».
Le chiavi di questa possibile crescita risiedono nella partecipazione locale perché «solo ripartendo dalla partecipazione locale si potranno rimettere insieme i pezzi e ricostruire un minimo di solidarietà fra le persone». La solidarietà infatti è chiave di volta per la ricostruzione futura in quanto base per una politica solidale e per la condivisione di regole a questa orientate. Senza questi fattori la tecnologia è uno strumento vuoto, un semplice mezzo, inclusi i social media, che solamente se usati «con intelligenza possono certo favorire la partecipazione».
Emanuele Farragina, calabrese di origine, vive e lavora a Oxford dove insegna all’Università e per la quale ha fatto ricerche. I suoi temi sono di studio sono Politiche sociali comparate, partecipazione sociale e disuguaglianza. E’ autore di articoli per importante riviste scientifiche internazionali, di libri per Rizzoli (Chi Troppo, Chi Niente, 2013) e scrive sul blog del Fatto quotidiano.