migrazione PA

Un ministero della Sovranità digitale serve anche per dare più attenzione all’open source: ecco perché

Il collegamento diretto tra il ministero per la Sovranità Digitale e il software open source non è per niente banale. Pur in mezzo ai tanti gap che penalizzano l’Italia digitale, il tema non è per niente secondario

Pubblicato il 20 Feb 2023

Italo Vignoli

Hi-Tech Marketing & Media Relations

open source software

Anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno, ha sottolineato l’importanza della democrazia e della cittadinanza digitale per il futuro del sistema Paese, dimostrando – se ce ne fosse ancora bisogno – che il concetto non è completamente estraneo alla politica, anche se le azioni messe in campo nel corso degli anni dai diversi governi fanno sospettare il contrario.

All’Italia serve un ministero della sovranità digitale: ecco perché

Il mio precedente articolo sul tema della necessità di un ministero della sovranità digitale ha tuttavia registrato diverse manifestazioni di dissenso, che si possono sintetizzare in tre punti: (1) io non ho un’esperienza diretta all’interno della Pubblica Amministrazione, (2) i funzionari a livello locale non vengono adeguatamente sostenuti dal Governo e dagli enti governativi, e (3) implementare il software open source ha un costo sia in termini di risorse umane che di formazione.

È vero, io non ho un’esperienza diretta all’interno della Pubblica Amministrazione, ma se questa è una condizione imprescindibile per poter parlare della PA allora ho qualche problema a comprendere perché le aziende di consulenza e gli individui a cui vengono affidati contratti talvolta estremamente onerosi vanno bene e io che agisco da volontario no. Forse perché esprimo una posizione diversa?

Peraltro, le migrazioni al software open source a cui ho partecipato – in qualche caso come volontario e in qualche caso come consulente – sia in Italia che in altri Paesi (e non solo in Europa) per un totale di oltre un milione di posti di lavoro nella Pubblica Amministrazione, hanno sempre funzionato come previsto, ovvero hanno superato tutte le difficoltà tipiche di ogni processo di migrazione e sono andate, e rimaste, in produzione fino a oggi.

Il protocollo di migrazione a Libreoffice

Sulla base di queste esperienze personali, e di quelle di altri membri del progetto LibreOffice che nel mondo hanno seguito migrazioni al software open source nel corso degli ultimi 20 anni, ho redatto il Protocollo di Migrazione a Libreoffice, che rappresenta il documento di riferimento per la Certificazione LibreOffice (ma non è l’unico, perché i candidati devono dimostrare di conoscere altri documenti).

Recentemente, il responsabile della migrazione a LibreOffice di un’azienda brasiliana che opera nel settore della difesa ha affermato di aver seguito in modo rigoroso il processo descritto nel protocollo, passo dopo passo, e di aver avuto gli stessi problemi nel momento in cui questi venivano anticipati dal documento, al punto da chiedermi – scherzando – se fossi seduto nel suo ufficio durante le riunioni con il suo team.

Quindi, se da una parte è vero che non ho un’esperienza diretta nella Pubblica Amministrazione dall’altra è altrettanto vero che non sono completamente digiuno del problema, per cui parlo con una certa cognizione di causa. Ma il problema non sono certo le mie competenze.

La (scarsa) conoscenza del software open source nella PA

Infatti, il vero problema – per l’adozione di software open source nella Pubblica Amministrazione – sono i punti 2 e 3, sui quali sono totalmente d’accordo con chi ha espresso le obiezioni ma che non rappresentano l’essenza del problema, perché dimostrano solamente quanto inadeguate siano le politiche e gli investimenti in direzione della sovranità digitale, e quanto superficiale sia la conoscenza del software open source nella Pubblica Amministrazione (ovviamente, con le dovute eccezioni, che però sono abbastanza rare).

Andiamo nell’ordine: i funzionari a livello locale non vengono adeguatamente sostenuti dal Governo e dagli enti governativi. Personalmente, direi che questo è vero non solo a livello di PA locale ma anche a livello di PA centrale, perché non sono mai state create le condizioni perché il dettato della legge, la preferenza per il software open source rispetto al software proprietario, potesse diventare realtà senza che questo presupponesse una presa di responsabilità da parte dei singoli e il ricorso a processi di acquisizione più complessi rispetto a quelli che permettono di acquistare le licenze del software proprietario.

Infatti, manca completamente un’offerta adeguata alla realtà, perché all’acquisto delle licenze del software proprietario dovrebbe essere contrapposta la consulenza sulla migrazione, perché è questa l’alternativa. Una consulenza che può includere anche l’acquisizione di licenze Long Term Support del software, anche se questa è una decisione successiva alla fase di analisi.

Open non significa gratis

Tra l’altro, l’assenza di questa opzione può indurre i meno attenti a pensare che l’implementazione del software open source non abbia un costo, mentre la realtà è l’esatto contrario, in quanto sono necessari – direi addirittura indispensabili – investimenti per le risorse umane e per la formazione, che permettano di avere una struttura di supporto per gli utenti di fronte al cambiamento degli strumenti, e una maggiore competenza sul software da parte degli utenti.

Competenza che probabilmente si rifletterebbe sugli indicatori internazionali come l’indice DESI, dove l’Italia è da anni in fondo alla classifica nell’area delle competenze digitali mentre non è altrettanto indietro nell’area delle infrastrutture. Questo significa che gli investimenti sono stati male indirizzati, perché ci hanno portato ad avere le infrastrutture senza avere le competenze per utilizzarle nel modo migliore, e quindi a utilizzare male le infrastrutture stesse.

D’altronde, non era possibile aspettarsi nulla di diverso dopo che per 40 anni la digitalizzazione del Paese è stata lasciata nelle mani delle Big Tech che ovviamente hanno fatto i propri interessi e hanno speso questi anni nella costruzione e nel radicamento di una situazione da cui è molto difficile uscire, proprio perché la legge non è stata rispettata, e questo ha causato un’arretratezza di tipo strutturale. Provate solo a immaginare cosa significherebbe trasformare in formato standard tutti i documenti della Pubblica Amministrazione disponibili nel formato proprietario di Microsoft Office. Il problema è che più tardi affrontiamo questa trasformazione più lungo e costoso sarà il processo e più tardi avremo i vantaggi che derivano dall’uso degli standard aperti.

Conclusioni

I compiti del Ministero della Sovranità Digitale dovrebbero essere proprio la creazione delle condizioni strutturali per l’adozione del software open source nella PA, sia in termini di rispetto della legge (sanzioni) sia in termini di processo di acquisizione (cito Consip e Mepa, anche se sono convinto che tutto il processo andrebbe completamente reimpostato, e non solo nei confronti del software open source), e gli investimenti nelle risorse umane e nella formazione (una scuola digitale per la Pubblica Amministrazione?).

Nei prossimi articoli, parleremo del Protocollo di Migrazione a LibreOffice, e daremo una serie di suggerimenti sull’implementazione del software open source nella PA, sempre in ottica di software libero – ovvero privo di vincoli all’uso in qualsiasi ambiente – e non di software gratuito, perché open source non significa gratuito, ma software di qualità, robusto, flessibile e sicuro (nei limiti del possibile, dato che un software perfettamente sicuro non esiste).

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