Nel mondo dell’arte è sorta la controversia sull’intelligenza artificiale e sui processi generativi. La questione è se un algoritmo di AI possa considerarsi un’artista e se i programmi text-to-image siano in grado di produrre risultati artistici.
La diffusione dei programmi di AI generativa applicati all’arte, come per esempio Dall-E 2, Midjourney, StableDiffusion, NightCafé, ha suscitato accesi dibattiti sulla rilevanza estetica e culturale delle immagini prodotte, sollevando la domanda se si tratti di opere d’arte.
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Ma sono interrogativi ingenui. Sarebbe come chiedersi se la pittura a olio, la serigrafia o l’acquerello producano automaticamente arte. Queste domande derivano da una banalizzazione del concetto di arte, considerata come semplice produzione di immagini bidimensionali, come un quadro o un poster. Ma, contemporaneamente, banalizzano anche l’intelligenza artificiale, come se fosse una sorta di agile “pennello” a disposizione di chiunque voglia imbrattare una “tela” digitale.
In realtà l’arte è qualcosa di molto più complesso. E l’impatto dell’intelligenza artificiale sul mondo dell’immagine è molto più profondo e articolato.
Chiedersi se questi programmi producono arte o no, significa domandarsi che cosa sia l’arte, interrogativo su cui da sempre si arrovellano filosofi e storici dell’arte, con esiti incerti. Invece, è preferibile esaminare pragmaticamente quali soggetti utilizzano l’intelligenza artificiale con intenti artistici, distinguendo quattro categorie con identità, scopi e risultati ben diversi tra loro: i dilettanti, i professionisti, gli artisti, le istituzioni.
Arte generata dall’intelligenza artificiale: il contesto tecnologico
Il rapporto fra arte e intelligenza artificiale non è una novità, ma è esploso presso i media generalisti e il grande pubblico nel corso del 2022 grazie ai programmi text-to-image, semplici e intuitivi, nati dalla convergenza di tre filoni tecnologici sviluppati da tempo ognuno in modo autonomo e poi confluiti insieme:
- la crescita generale e l’organizzazione dei big data, in particolare
delle immagini disponibili in rete; - lo sviluppo dei software di riconoscimento e produzione di immagini;
- lo sviluppo dei software di comprensione e produzione del linguaggio naturale umano.
Per quanto riguarda il primo filone, la crescita esponenziale dei big data ha ormai raggiunto negli anni dimensioni tali da costituire un universo a sé.
Secondo Google, le sole pagine web, che nel 1998 erano 26 milioni e nel 2000 un miliardo, nel 2008 avevano tagliato il traguardo dei mille miliardi. Nel campo delle immagini, nel 2020 solo le immagini presenti su Google Photo
erano quattromila miliardi, caricate al ritmo di 28 miliardi di foto e video ogni
settimana.
Per quanto riguarda il secondo filone, gli studi di computer vision degli inizi del Duemila hanno trovato quasi subito applicazione in campo artistico [1], favorendo lo sviluppo dei software di “rivestimento stilistico”.
Un esempio fra i tanti è stato Prisma, in grado di modificare foto e video applicando stilemi figurali, coloristici e di pennellata tali da trasformarli “alla maniera di” falsi Lichtenstein, Kandinskij, Munch, Hokusai, Van Gogh, Chagall eccetera. La soluzione ha trovato poi adozione nell’applicazione dei filtri nei social, come per la produzione di video deepfake.
Il terzo filone, l’interpretazione e produzione del linguaggio naturale umano, risale addirittura agli anni Sessanta del Novecento, ma sta conoscendo (gennaio 2023) un grande successo mediatico e di pubblico grazie ad un software (ChatGPT) di facile utilizzo e dai risultati decisamente interessanti.
Non ci occuperemo qui di questa tecnologia (che sta suscitando aspri dibattiti sul piano filosofico, linguistico, educativo, della privacy, del diritto d’autore, delle fake news, dei motori di ricerca, eccetera) benché presenti un evidente parallelismo con la produzione “intelligente” delle immagini: il dibattito sulla generazione automatica dei testi scritti, infatti, riguarda per ora quasi
esclusivamente la produzione di testi professionali “di servizio” (articoli giornalistici, report aziendali, script di serie televisive, temi scolastici, programmi informatici eccetera) piuttosto che la scrittura letteraria (e quindi “artistica”) di romanzi, racconti e testi poetici.
Programmi text-to-image
Comunque va ribadito che la convergenza di questi tre filoni è stata determinante: come spesso accade nell’evoluzione digitale, non è la singola tecnologia ad incidere sulle abitudini socio-culturali del grande pubblico, bensì è l’accorpamento di tecnologie diverse in un mix funzionale che fa scattare quell’effetto-soglia che risponde ai bisogni dell’utenza.
In maniera estremamente schematica, i software text-to-image integrano fra loro i tre filoni tecnologici visti sopra in questo modo:
- esplorano i repertori di immagini disponibili in rete (o forniti ad hoc) “imparando” a distinguere fra scuole pittoriche, tipologie paesaggistiche e ambientali, personaggi, categorie stilistiche, cronologiche, coloristiche eccetera;
- ricevono dall’utente la descrizione verbale scritta dell’immagine che vuole ottenere (riguardante oggetti, scenario, personaggi, stile, contesto culturale, eccetera);
- “comprendono” il senso sia linguistico sia semantico-culturale delle istruzioni ricevute;
- cercano corrispondenze fra le istruzioni ricevute e le categorie di classificazione “imparate” nei database esplorati;
- generano di conseguenza l’immagine richiesta.
Ma a questo punto è evidente che il fenomeno esce dal campo strettamente tecnologico per assumere una rilevanza culturale.
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Arte generata dall’AI: il contesto culturale
Ci troviamo infatti davanti ad un sistema in grado di sviluppare autonomamente una sorta di sua “conoscenza” del mondo dell’arte. Capace di classificare il patrimonio culturale del passato, di muoversi fra diversi stili, tecniche, correnti, scuole.
I conoscitori, i critici, gli storici dell’arte, gli artisti elaborano i loro parametri di gusto e di giudizio, in base alle proprie esperienze. Visite di musei, lettura di saggi e riviste specializzate, frequentazione di artisti, discussioni con altri esperti eccetera.
Allo stesso modo l’intelligenza artificiale setaccia i repertori e la rete imparando (machine learning) a riconoscere, raccogliere, ordinare, classificare.
L’universo delle immagini viste, l’immaginario, è la fonte della conoscenza teorica del critico come pure delle capacità espressive dell’artista. In modo molto simile, l’universo delle immagini visitate costituisce l’immaginario dell’intelligenza artificiale, la fonte tanto della sua “conoscenza” storico-teorica quanto delle sue capacità generative.
Cultural Analytics e AI Aesthetics
L’importanza di questo processo è stata colta fin dal 2005 da Lev
Manovich, con il suo progetto di Cultural Analytics, poi diventato un libro ora tradotto anche in italiano). Individuava le costanti figurative presenti nelle grandi raccolte di immagini.
Successivamente Manovich ha sviluppato l’argomento nel 2019 con AI Aesthetics, e sta pubblicando ora [2] un lavoro in progress in cui critica le metodologie eccessivamente meccanicistiche utilizzate per decidere se un prodotto di intelligenza artificiale sia arte o no (ad esempio le varianti figurative del test di Turing). Invece ha deciso di adottare un atteggiamento di apertura verso le nuove configurazioni artistiche che l’Intelligenza Artificiale potrebbe scoprire, essendo in grado di esplorare senza criteri predeterminati
(unsupervised), e ad una velocità impensabile per l’essere umano, le infinite quantità di immagini a sua disposizione.
Arte, l’AI come fattore di integrazione
In questa prospettiva l’intelligenza artificiale potrebbe rappresentare un fattore di integrazione e avanzamento del paradigma culturale, invece di essere vista come l’entrata dei barbari tecnologici nella linda cittadella della bellezza. Siamo di fronte ad una fase, non la prima e certamente non l’ultima, della storia dei rapporti fra progresso scientifico-tecnologico e sensibilità umanistica, o del rapporto uomo-macchina.
Una storia difficile e contrastata, come sempre accade specialmente agli inizi, quando una tecnologia giovane compare sulla scena. Non bisogna dimenticare che il cinema, agli esordi quando era una tecnologia nuova, è stato a lungo considerato uno spregevole spettacolo da baracconi, prima di diventare la Settima Arte.
Ecco perché oggi, in questa fase di forte sviluppo tecnologico, invece di porsi domande astratte e generiche è preferibile adottare un punto di vista che consideri l’arte come prodotto umano, e quindi soggetto a interpretazioni diverse, condizionato dalla storia, dal luogo in cui si realizza, dalle dinamiche sociali, dalle modalità in cui soggetti diversi la impiegano nel loro concreto operare.
I dilettanti dell’arte generata dall’intelligenza artificiale
I programmi text-to-image hanno favorito la moltiplicazione esponenziale dei pittori digitali della domenica, che nei siti dedicati (Behance, Deviantart, ArtStation eccetera) già producevano enormi quantità di opere utilizzando programmi di grafica e fotoritocco. Opere che si possono classificare fondamentalmente come esercizi di disegno o di illustrazione.
Il dilettante lavora per proprio piacere (“per diletto”), senza necessariamente puntare ad un riconoscimento più o meno formale. E senza avere come scopo primario un ritorno economico. In questo senso il dilettante è libero di seguire la propria vena creativa, di ispirarsi ai modelli che preferisce, di adottare lo stile che ritene più consono alla propria indole. Il dilettante digitale è la figura più simile allo stereotipo dell’artista romantico. Libero, scapigliato, un po’ bohémien, spesso nerd. Ispirato dalle prime culture alternative e libertarie della rete.
Partecipa a premi e concorsi. Carica le sue opere sulle piattaforme sperando di essere notato e di ottenere successo. Ma fondamentalmente la sua caratteristica è di rimanere escluso dalle categorie di soggetti che vedremo più avanti.
Quindi, quella dei dilettanti, è un’arte autocertificata, poiché è il dilettante stesso che si autodefinisce senza esitazioni “artista”. O viene riconosciuto come tale dalle piattaforme o dai gruppi ristretti a cui partecipa, in quanto rivendica il diritto/dovere di esprimere liberamente le spinte del suo mondo interiore.
Purtroppo, in questo modo resta quasi sempre prigioniero del modello di arte che oggi appare più ovvio e scontato: l’arte di derivazione ottocentesca, orientata al realismo figurativo o ad un facile impressionismo, ferma al modello del quadro in cornice (o della scultura se si usano le stampanti 3D).
Le eventuali aperture al contemporaneo puntano quasi esclusivamente verso un immaginario distopico, fantasy o comics, o di grafica illustrativa. Praticamente immune dalle inquietudini e dalle sperimentazioni che hanno percorso il campo dell’arte dagli inizi del Novecento in poi.
Queste caratteristiche appaiono evidenti soprattutto guardando i repertori di opere generate sulla base di modelli pittorici esistenti. O i siti che si propongono di replicare lo stile di artisti come Banksy. Oppure gli esperimenti di generazione di ritratti ispirati ai più grandi fotografi contemporanei. Ma si riscontrano anche nei siti che accolgono le produzioni originali, dove l’interesse è rivolto soprattutto a verificare la rispondenza delle istruzioni fornite (il
prompt) con i risultati ottenuti (“The Most Beautiful AI Text-to-Image
Prompts”). E, a guardare la maggior parte delle opere prodotte, sembra che l’interesse principale sia il gusto un po’ nerd di sperimentare i nuovi software piuttosto che puntare ad un risultato estetico.
Professionisti dell’arte generata dall’intelligenza artificiale
Completamente diverso è il caso di chi applica l’intelligenza artificiale in un contesto professionale strutturato. Prevalentemente in aziende che operano nell’ambito dei media e delle cosiddette imprese creative e culturali. Ed è riconosciuto come artista per il fatto di avere un ritorno economico dal suo lavoro, status che però ovviamente comporta vedere la propria “libertà creativa” subordinata alle finalità del progetto produttivo.
L’intelligenza artificiale ha trovato – e troverà – sempre più largo impiego. Nel campo dei videogiochi, degli effetti speciali e in genere del video digitale, gli artist usano l’AI. Essi inventano, immaginano, disegnano e producono gli scenari, i costumi, le architetture, i paesaggi, i volti e le figure dei personaggi artificiali.
Allo stesso modo l’intelligenza artificiale trova largo impiego nel variegato settore della grafica, del design, della illustrazione, della moda, della pubblicità. Queste figure professionali si definiscono “creativi” (invece di “artista”). Lo testimoniano anche i workshop organizzati dal centro di cultura digitale MEET che si intitolano infatti “AI for Creativity. Una svolta fondamentale per gli autori del nuovo millennio“. Si rivolgono esplicitamente ai professionisti della grafica, del design, della pubblicità, della comunicazione aziendale, dell’illustrazione, del giornalismo, della progettazione editoriale, della fotografia, della moda.
È chiaro che in questi settori gli strumenti di intelligenza artificiale sono di grande utilità sul piano economico e produttivo. Consentono di eliminare legioni di creativi sostituiti da un semplice software. Ci sono già diversi esempi in questo senso, da una graphic novel alle copertine di fumetti, alla locandina per uno spettacolo del prestigioso San Francisco Ballet, fino al corto cinematografico prodotto da un’intelligenza artificiale.
L’impatto sul mondo del lavoro sta tuttavia suscitando le proteste di chi ritiene che questi programmi utilizzino indebitamente (nel senso di gratuitamente) le opere di altri. Di singoli professionisti, ma anche dei grandi repertori depositari di immagini. Emblematico il caso di Getty Images che prima (settembre 2022) ha escluso le immagini prodotte con l’intelligenza artificiale dalle sue raccolte, e poi (febbraio 2023) ha fatto causa al produttore di StableDiffusion. Iniziativa replicata da altre simili da parte di autori più o meno isolati.
Sono segnali che da una parte rendono evidente l’inadeguatezza delle
attuali normative sul copyright. Dall’altra però rappresentano anche un classico caso di resistenza delle strutture industriali (e mentali, e culturali) rispetto alla pressione dell’innovazione tecnologica. La portata del fenomeno è tale infatti che difficilmente troverà soluzione nelle aule dei tribunali. Più probabilmente richiederà una riconfigurazione complessiva delle filiere produttive, come sempre accade di fronte alla comparsa di una novità tecnologica dirompente.
Bisogna tener conto, tra l’altro, che questi software non “copiano” né fanno “taglia e incolla”. Invece “si ispirano” alle immagini che vedono. Sarebbe come chiedere ad un artista umano di pagare i diritti per tutte le immagini che ha visto nei musei, nelle mostre, sui giornali, e che “in qualche modo” hanno influito sulla sua opera.
Lasciando da parte il piano giuridico e restando su quello artistico-
culturale, si potrà discutere sulla attuale qualità di questi prodotti. Ma probabilmente bisogna aspettare che il progressivo affinamento semantico degli algoritmi di interpretazione del testo scritto, e di quelli di realizzazione grafica, porti a quei risultati di grande effetto e piacevolezza che hanno sempre caratterizzato i prodotti di consumo elaborati industrialmente.
Gli artisti
Se gli artisti-dilettanti sono quelli che si autodefiniscono tali, e se gli artisti-professionisti sono quelli riconosciuti tali in quanto ricavano un compenso dalla loro attività, ecco chi sono gli artisti-artisti, quelli “con la A maiuscola”.
La risposta è in parte tautologica: gli artisti-artisti sono quelli friconosciuti come tali dal sistema dell’arte contemporanea.
Questo concetto, adombrato negli anni Settanta del Novecento e poi messo a fuoco agli inizi di questo secolo [3], si basa sul riconoscimento che quello dell’arte è appunto un sistema. Un insieme coordinato di soggetti diversi (mercato, gallerie, mostre, collezionisti, musei, riviste specializzate, cataloghi, critici militanti e accademici che interagiscono più o meno consapevolmente nel definire il mondo dell’arte. E nel determinare più o meno esplicitamente i criteri e i parametri entro cui gli “artisti” devono muoversi per essere considerati tali.
All’interno del sistema ci sono scuole diverse. Interessi diversi. E quindi valutazioni conflittuali. Ma fondamentalmente, nel suo complesso, il canone mantiene una sua stabile definizione. Tuttavia, per quanto riguarda l’impiego dell’intelligenza artificiale, all’interno di questo sistema dobbiamo distinguere due sottosistemi: il settore mercantile e quello dei grandi musei, fondazioni pubbliche e private ed enti.
Il settore mercantile
Rappresenta ormai un vero e proprio segmento del settore finanziario, ed è costituito dalle più importanti gallerie d’arte e case d’asta che si appoggiano a canali di comunicazione specializzati (riviste, mostre, recensioni eccetera) per raggiungere il pubblico dei collezionisti e degli investitori internazionali.
Questo settore è ancora molto legato ad una considerazione tradizionale dell’opera d’arte, come oggetto da appendere alla parete o da conservare in una cassetta di sicurezza. Nutre minore interesse per i prodotti dell’intelligenza artificiale e per l’arte digitale in genere, a meno che non siano certificati come NFT, il che attribuisce immediatamente loro un valore finanziario.
Grandi musei, fondazioni, enti
Il secondo sottosistema comprende invece i grandi musei, le fondazioni pubbliche e private, le istituzioni culturali, le bi-tri-quadriennali ecc., enti che sono più in sintonia con le tendenze che hanno esteso il campo dell’arte contemporanea.
Gli esperimenti situazionisti, l’arte concettuale, l’arte relazionale, le suggestioni della videoarte, le installazioni, gli interventi site-specific, l’attenzione agli aspetti performativi e partecipativi.
Sono enti che dispongono di budget elevati da investire su progetti
complessi, che richiedono lavoro preparatorio di progettazione e allestimento, occupano grandi spazi e spesso acquistano senso solo in presenza di un pubblico attivo e culturalmente motivato. In questo settore che troviamo le applicazioni artistiche dell’intelligenza artificiale più interessanti.
Per esempio Davide Quayola utilizza gli algoritmi insieme alla robotica e ai software generativi per esplorare in chiave tecnologicamente aggiornata i rapporti fra contemporaneità e grande tradizione quattrocentesca e rinascimentale.
Refik Anadol presenta al MoMA una mostra intitolata Unsupervised, dove gli algoritmi esplorano gli sterminati repertori del museo per dare vita a immagini mutanti che mettono in scena la dimensione più fantasmatica, irrazionale, allucinata dell’arte (nota curiosa: una rivista culturale ha poi chiesto a un’intelligenza artificiale di scrivere una recensione della mostra).
O ancora, Ian Cheng ha sviluppato una creatura di intelligenza artificiale chiamata BOB (Bag of Beliefs), destinata a migrare da una mostra all’altra cambiando continuamente personalità, fattezze corporee e sceneggiatura di vita.
Siamo in presenza di artisti che erano già artisti. Riconosciuti e quotati nel sistema internazionale dell’arte, ben prima che decidessero di applicare l’intelligenza artificiale al loro lavoro. Figure quindi ben diverse sia dagli improvvisatori che impazzano sulle piattaforme “intelligenti” sia dai creativi di professione inseriti nelle filiere produttive delle aziende e dei media.
Le istituzioni
Anche le istituzioni possono essere considerate come soggetti attivi in
questo campo, in quanto – oltre all’organizzazione di mostre e festival – elaborano progetti di gestione del patrimonio artistico che chiamano in causa l’intelligenza artificiale.
Ha suscitato particolare scalpore il caso dell’attribuzione a Raffaello di un’opera finora considerata una copia tarda. Un riconoscimento
ottenuto dai ricercatori delle università di Nottingham e Bradford utilizzando tecniche di riconoscimento facciale e analisi intelligente dei dettagli.
Sempre sul piano del recupero dell’arte del passato, è significativo il caso del restauro della “Ronda di notte” di Rembrandt al Rijksmuseum di Amsterdam. L’opera originale attualmente esposta è infatti mancante di due pannelli laterali, come si evince da una copia più tarda dell’opera. In questo caso l’intelligenza artificiale, analizzando ciclicamente pixel per pixel l’opera originale, ha “imparato” lo stile pittorico di Rembrandt, applicandolo alle parti mancanti desunte dalla copia tarda e ricostruendo quindi il dipinto originale.
Nella mostra Venise Révélée organizzata dal Grand Palais Immersif di Parigi, invece, l’utilizzo della tecnologia è finalizzato al rapporto con l’audience. Un’intelligenza artificiale accompagna i visitatori durante il percorso, attivando dei dialoghi virtuali con i grandi personaggi storici di Venezia, rispondendo alle domande dei visitatori grazie ad un sistema di machine learning che attinge ad un ricchissimo database di dati storici e letterari, e restituendo successivamente anche una visualizzazione dei risultati
ottenuti.
Un caso ancora diverso, e senz’altro più sperimentale, è quello della
collaborazione fra la Tate di Londra e Microsoft. Ha dato origine al progetto Recognition, basato sulla esplorazione degli archivi del museo al fine di individuare delle costanti figurali da associare e confrontare con il flusso di immagini contemporanee presenti nei lanci giornalistici dell’agenzia Reuters.
Si tratta di un audace esperimento di corto circuito figurativo, possibile solo grazie alle capacità di data crunching dell’intelligenza artificiale.
Questa categoria è diversa dalle tre precedenti, in quanto un’istituzione non può certo essere definita “artista”. Però contribuisce a definire cos’è e come si articola il campo dell’arte, e con il suo prestigio e la sua autorevolezza incide sulla concezione diffusa dell’arte, aprendo – se utilizza l’intelligenza artificiale – il terreno ad un ampliamento degli orizzonti tanto del pubblico quanto degli artisti.
Conclusioni
Le domande se l’intelligenza artificiale produce arte e se può considerarsi un’artista, bisogna riconoscere che non hanno molto senso. Banalizzano e generalizzano un fenomeno molto più complesso.
La definizione dell’arte, infatti, non dipende solo dalle caratteristiche tecniche dell’opera d’arte “in sé” né dal punto di vista soggettivo dell’autore/artista.
Dipende anche e soprattutto dalla ricezione, cioè dalla risposta estetica che suscita nel pubblico (e nel mercato), e dal suo riconoscimento collettivo. E, infine, dal contesto culturale in cui i processi di comunicazione artistica avvengono.
Come abbiamo visto, il riconoscimento del valore artistico varia a seconda della caratterizzazione sociale, economica e culturale dei soggetti operativi. Per i dilettanti deriva dall’auto-definizione, da una sorta di auto-riconoscimento. Nel caso dei professionisti, dipende dal ritorno economico che trovano in un ambiente produttivo. Per gli artisti dipende dal loro inserimento nel “sistema dell’arte”.
Il mondo dell’arte non è un blocco unitario, ma un universo ricco di articolazioni e sfaccettature. E l’arte non è un’entità metafisica fuori dallo spazio e dal tempo (anche se secondo alcuni lo è). Ma è costituita da una serie di pratiche umane che si nutrono delle più diverse esperienze concrete.
Bibliografia
- L. Gatys, A Neural Algorithm of Artistic Style, 2015. ↑
- Artificial Aesthetics: A Critical Guide to AI, Media and Design. ↑
- F. Poli, Il sistema dell’arte contemporanea, 2011. ↑
Intelligenza artificiale, perché gli artisti si sentono defraudati