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Riforma fiscale, l’insostenibile leggerezza della Legge delega: perché non è una rivoluzione

Il testo ufficiale della legge delega per la riforma fiscale contiene dieci articoli stilati con un approccio metodologico e non sembra affrontare alcuni aspetti critici per contribuenti e imprese: vediamo la situazione

Pubblicato il 23 Mar 2023

Salvatore De Benedictis

dottore commercialista

fatturaPA

L’estrema sintesi del disegno di legge sulla Riforma fiscale non offre molti spunti di riflessione. A mio modesto avviso il difetto principale è l’approccio metodologico, nel merito c’è poco da dire; si nota po’ di confusione – probabilmente più negli organi politici che in quelli tecnici – nella comprensione ed applicazione dei principi costituzionali di capacità contributiva e progressività della imposizione fiscale, riportati su tutti i documenti ufficiali e rinnegati subito dopo[1].

Per porre in essere una riforma utile, dovremmo iniziare col fare l’inventario dei problemi del nostro sistema fiscale e delle possibili cause ed infine confrontarci sui rimedi. La mancanza di ciò ha comportato il rischio di continuare a produrre confusione normativa e regolamentare e chi si trova in trincea come contribuente di piccole e medie dimensioni o come professionista, continua a subirne tutte le conseguenze, nonostante l’enorme divario in termini di sicurezza e tempestività nella produzione e trasparenza dei dati e delle dichiarazioni che esisteva qualche decennio fa tra i grandi e i piccoli contribuenti sia scomparso quasi del tutto.

Ben vengano le scelte di politica economica, la razionalizzazione dell’Irpef e dell’Ires, l’abolizione dell’IRAP. L’augurio però è che la mancanza di precise indicazioni metodologiche nel disegno di legge delega possa essere riempita di contenuti adeguati e idonei al cambio di passo che tutti auspichiamo.

Fattura elettronica in ritardo, cosa si rischia: i chiarimenti dell’Agenzia delle entrate

Fisco in Italia, le difficoltà per i contribuenti

Da professionista vicino alle imprese da decenni, posso affermare con ragionevole certezza che il contribuente onesto non ha come obiettivo primario quello di vedersi ridotto il carico fiscale. La difficoltà più grossa è avere di fronte un sistema di determinazione del reddito progettualmente complesso (e questo riusciremmo a risolverlo) e che espone il contribuente a rischi teoricamente infiniti, essendo infinite le possibilità di presunzione che l’Amministrazione Finanziaria può mettere in campo. Se aggiungiamo a ciò la esistenza di una Giustizia Tributaria non sempre imparziale, ci rendiamo conto che da anni camminiamo con una enorme zavorra addosso[2], il cui costo è certamente più alto di ogni pur valida riformulazione del progetto della tassazione.

La combinazione tra leggi complesse, Pubblica Amministrazione inefficace ed inefficiente e Giustizia Tributaria lenta ed ingiusta rendono il nostro Paese invivibile per chi ha scelto di viverci e poco attrattivo per chi vorrebbe stabilirvi la sede dei sui affari.

Le leggi complesse e la loro applicazione

Le leggi sono spesso prodotte senza considerare che i cittadini e gli imprenditori hanno due primarie esigenze. La prima è quella di conoscere il quadro normativo che genererà la tassazione del reddito prima dell’inizio del periodo di imposta in cui verrà generato il reddito, ciò per consentire l’adeguata pianificazione aziendale e il correlato assetto organizzativo. Non è ammissibile che le regole del gioco siano modificate o riscritte a gioco avviato o addirittura concluso, e comunque quando è troppo tardi per adottare i rimedi opportuni, oppure che i modelli di dichiarazioni e relative istruzioni richiedano la produzione di dati, notizie ed informazioni che sono già in possesso della Pubblica Amministrazione o che non erano già note al contribuente al momento in cui sono stati posti in essere e contabilizzati gli atti/fatti amministrativi connessi.

La seconda esigenza è quella di non essere trattati come evasori o come polli da spennare ad ogni costo, ma come cittadini presuntivamente onesti, che operano in un contesto in cui commettere un errore (o, presunto tale) è molto facile, ed in cui la Pubblica Amministrazione non dovrebbe tentare ogni mezzo per “elevare” ad errore sostanziale qualsiasi errore anche formale.

In un sistema caratterizzato da adempimenti stringenti e da una progressiva (direi oramai: totale) trasparenza dell’attività delle imprese e dei professionisti e dei relativi pagamenti, il sistema delle presunzioni dovrebbe scomparire. La evasione e il suo recupero dovrebbero avere come oggetto il “corpo del reato”, non una entità astratta che spesso è solo la espressione della incapacità della Amministrazione Finanziaria di discernere il buono dal cattivo, l’onesto dal disonesto.

I controlli degli Uffici

È conclamato che la fatturazione elettronica ha dato un contributo rilevante al recupero della evasione. Se ciò si è verificato, è anche perché la fatturazione elettronica ha costretto i contribuenti a rendere trasparenti e velocizzare tutte le operazioni attive e passive che intervengono quotidianamente. I bilanci delle imprese (e i relativi componenti di reddito) sono composti da dati in possesso della Amministrazione Finanziaria e dello Stato quasi in tempo reale: il conto economico di qualsiasi soggetto include dati e valori gestiti da sistemi di comunicazione telematica tra impresa e Pubblica amministrazione, basti considerare costi e ricavi da fatture e dati relativi ai rapporti col personale dipendente. Se il sistema di interscambio riuscisse ad interfacciarsi col sistema dei pagamenti il cerchio si chiuderebbe[3].

Sarebbe sufficiente chiedersi quanto di tutto questo era possibile al momento in cui sono state coniate le attuali leggi, per rendersi conto di come oggi gli accertamenti non analitici e documentali siano assolutamente anacronistici ed ingiustificati. Nonostante questo, l’Amministrazione Finanziaria, pur potendo contare su tanti strumenti a sua disposizione, ancora oggi stenta a recuperare l’evasione; infatti, l’articolo 1 del Disegno di legge Delega si pone l’obiettivo di ridurre l’elusione e l’evasione fiscale.

Esiste una pericolosa commistione tra inadeguatezza organizzativa nel trasformare i dati in possesso della Amministrazione Finanziaria in fattispecie reali di anomalia, e l’esigenza che ogni attività di controllo avviata debba produrre comunque un risultato. La corretta applicazione dell’intelligenza artificiale dovrebbe produrre questionari mirati e leggeri; la rilevazione di una “anomalia” dovrebbe attivare processi interlocutori semplici, che potrebbero complicarsi e divenire più penetranti in funzione delle risposte fornite dal contribuente. Esempio: se dalla analisi dell’Archivio dei Rapporti Finanziari dovesse risultare che un imprenditore, a fronte di ricavi dichiarati per l’anno d’imposta X, avesse movimenti bancari di addebito sui suoi conti correnti per 3x, prima di “accendere” una segnalazione di anomalia e pensare che vi sia qualcosa che non va, ci si potrebbe chiedere quanti movimenti in addebito non abbiano avuto come contropartita accrediti su altri conti correnti, ovvero siano erogazioni di finanziamenti, mutui o prestiti del sistema bancario. Tutto ciò è reso molto difficile dalla “industrializzazione” dei processi della pubblica amministrazione, che ha portato a misurare la capacità di un dipendente della Amministrazione Finanziaria in relazione più al raggiungimento del budget assegnato all’ufficio o al team che alla qualità e alla precisione dell’attività accertativa posta in essere.

Tutto ciò produce danno alle imprese, ai cittadini e ai professionisti che li assistono, genera una faticosa interlocuzione che spesso si protrae nel tempo senza frutti e li costringe a ricorrere alla Giustizia Tributaria, danno agli Uffici, che dedicano il loro tempo ad attività che probabilmente si riveleranno improduttive, danno al bilancio dello Stato, che non potrà contare sul recupero della evasione tributaria programmato perché si è sprecato tempo in attività poco remunerative o inutili[4].

Il Disegno di Legge Delega non sembra affrontare e risolvere questi aspetti critici.

Il nodo della semplificazione

Quando si parla di semplificazioni e di testi unici mi viene in mente – mutatis mutandis – la soluzione ideata da colui che, tenendo la casa in costante disordine, abbia pensato di porre rimedio con una pulizia straordinaria: se la manutenzione straordinaria non è accompagnata dall’analisi delle ragioni che l’hanno determinata e dalla accurata predisposizione dei rimedi necessari, tutto si concluderà con uno spreco di risorse e con la delusione delle attese. La storia legislativa è costellata dal conio di testi unici: solo per citare qualche esempio, ricordo il DPR 917/1986, intitolato “Testo unico delle imposte sui redditi”, il DPR 131/1986 intitolato “Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro”. Non penso ci sia qualcuno che possa seriamente affermare che i testi unici abbiano assolto il loro compito.

Il caso della fatturazione elettronica

Per semplificare, oltre ovviamente ad esserne capaci, occorre – per quanto possibile – essere scevri da interessi di parte, andare dritto all’obiettivo senza compromessi e tentennamenti. Esemplifico. Non può una categoria professionale come quella dei Dottori Commercialisti proporre semplificazioni temendo che ciò possa causare la fuoriuscita dal mercato di alcuni colleghi che hanno fatto delle complicazioni lo scopo prevalente della loro attività[5]. Così come non può una organizzazione di imprenditori, che sia dei produttori di software o di apparecchiature per la registrazione e trasmissione telematica dei documenti fiscali, proporre soluzioni nell’interesse della collettività condizionata dalla pressione della categoria di salvaguardare le nicchie di mercato conquistate con prodotti figli degli “adempimenti” ma non sempre corrispondenti ad effettive esigenze delle imprese. In sostanza, si tratta di anteporre gli interessi della collettività all’interesse dei singoli o di gruppi di essi.

Questo peccato originale ha causato e causa tuttora ingenti danni alla nostra economia. Per la generazione della fattura elettronica sotto forma di un file xml standard sono stati richiesti dai produttori di software corrispettivi aggiuntivi, talvolta “a quantità”; eppure gli applicativi preesistenti l’avvio della fatturazione elettronica includevano la possibilità di produrre la fattura in forma analogica, non standard, spesso personalizzata in base alla fantasia degli utenti e per questo molto più complessa da gestire. Per non parlare della conservazione, servizio svolto gratuitamente dall’Agenzia delle Entrate ma che alcune società produttrici di software ha reso obbligatorio – a pagamento – perché incluso nel pacchetto “fattura elettronica”. Senza considerare che, tra l’altro, la conservazione delle fatture elettroniche[6] è un adempimento inutile, sia logicamente che normativamente. Ma su questi aspetti c’è un silenzio assordante.

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Note

  1. È di questi giorni la notizia della possibilità di introduzione di un concordato preventivo biennale, ossia un sistema di predeterminazione delle imposte, vincolante per l’Amministrazione Finanziaria e per il contribuente. Qualche sera fa ho anche ascoltato Franco Bernabé in una trasmissione televisiva difendere tale possibile misura. A me francamente sembra una inutile distonia, una contraddizione in termini, che affronta il problema con lo sguardo al passato e non al futuro. Vero è che ciascun contribuente vorrebbe avere chiaro il contesto normativo sulla base del quale assolvere il carico tributario, ma un accordo preventivo su quante tasse pagare non penso sia la preoccupazione dei contribuenti, o, se lo fosse, sarebbe un modo per cercare di aggirare il principio di capacità contributiva costituzionalmente sancito.
  2. C’è da salutare con grande favore la recente modifica dell’articolo 7 del decreto legislativo 546/1992, con l’inserimento del comma 5-bis, ad opera dell’articolo 4 della Legge 130/2020, che così recita: “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o é contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.
  3. L’idea è tanto banale quanto dirompente. Non capisco perché ad oggi non sia stata attuata.
  4. Non è infrequente assistere ad attività accertative in cui l’impegno profuso dalla Amministrazione Finanziaria è quello di dimostrare la non corretta imputazione temporale degli elementi di costo o di ricavo, senza considerare che ciò dovrebbe generare tutt’al più una modesta sanzione e l’addebito degli interessi conseguenti lo sfasamento temporale della tassazione, beneficio che oggi l’Amministrazione Finanziaria “concede” solo in adesione.
  5. La categoria dei Dottori Commercialisti potrebbe chiedere un maggior coinvolgimento istituzionale degli iscritti, facendo in modo che la tenuta della contabilità sia di per sé garanzia nei confronti della Amministrazione Finanziaria del corretto trattamento fiscale dei dati forniti dal cliente, una sorta di visto pesante a regime. Questo contribuirebbe a farci assumere un ruolo di primo piano, responsabilizzerebbe molti colleghi e sarebbe un ottimo deterrente contro l’abusivismo.
  6. Che comunque fa benissimo anche gratis la Agenzia delle Entrate

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