l'acquisizione

Microsoft e il futuro di Xbox con o senza Activision: i possibili scenari

Gli sforzi di Microsoft nel sottoscrivere accordi di distribuzione con i principali player del mercato videoludico (Nintendo e NVidia su tutti), non sono bastati a far passare la proposta di acquisizione di Activision dalle maglie dell’antitrust Uk. L’attesa ora è tutta per le pronunce della Commissione Ue e dell’FTC

Pubblicato il 03 Mag 2023

Filippo Benone

Privacy Legal IT Consultant, P4I

gaming

La controversa acquisizione – o meglio, tentativo di acquisizione – di Activision da parte di Microsoft è diventato a tutti gli effetti il principale oggetto di discussione nella community videoludica da più di un anno a questa parte e, visti i recenti sviluppi, è destinato a rimanere tale ancora a lungo.

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Analizzando tuttavia ciò che è stato prima e ciò che ha portato di fatto il colosso di Redmond a tentare il più grande deal della storia del gaming emergono interessanti spunti e scenari.

Il “fallimento” di Xbox One e la nascita del Game Pass

Siamo nel 2013 e l’allora gaming division di Microsoft (anche se non esisteva ancora sotto questo nome), capeggiata da Don Mattrick (ex EA), si apprestava a svelare al mondo quello che sarebbe stato uno dei più grossi fallimenti – in termini di vendite ma non solo – del colosso di Redmond: Xbox One. La console, ormai old gen, di casa Microsoft nacque da subito sotto una “cattiva” stella, fu infatti rilasciata sul mercato ad un prezzo maggiore (100 dollari in più) rispetto alla sua principale concorrente nonché leader incontrastata del mercato ossia la PS4 prodotta da Sony. Il fallimento era annunciato: nel giro di poco fu subito chiaro come Sony avrebbe totalmente dominato la generazione andando più che a doppiare (117 milioni di unità contro le appena 56 di Xbox One) con PS4 le vendite realizzate dalla concorrente made in USA.

Era necessaria una svolta, un cambio al vertice e fu così che nel 2014 a Don Mattrick subentrò Phil Spencer, attuale CEO di Microsoft Gaming, in qualità di responsabile del progetto Xbox. Satya Nadella, CEO di Microsoft, fu perentorio: Microsoft non poteva permettersi fallimenti di quella portata. Le strade percorribili, quindi, erano due: rivitalizzare Xbox in modo da renderlo veramente competitivo nei confronti di PlayStation oppure ridimensionare pesantemente l’intero progetto, che in gergo aziendale, specialmente in quello americano, significa chiudere baracca e burattini e licenziare migliaia di persone. Si optò, evidentemente, per la prima e il primo grande segnale di svolta si ebbe nel 2017 quando venne ufficialmente introdotto quello che ad oggi è il servizio di punta di Xbox, il Game Pass.

Il Game Pass altro non è che una sorta di Netflix del gaming, un servizio in abbonamento in cui l’utente ha un catalogo di giochi disponibili che si aggiorna di mese in mese con nuovi ingressi e, ovviamente, uscite che sarebbe andato inizialmente ad affiancare e poi, di fatto, a sostituire Xbox Live Gold. Inutile dire che, similmente a quanto accadde per Netflix nel mondo dell’intrattenimento, fu una svolta. Fu una svolta perché il Game Pass, a differenza di quanto accade per il Playstation Network o per (anche se differente) l’online pass di Nintendo, è un servizio che è completamente indipendente dal possesso di una console Xbox. È possibile, infatti, accedere al catalogo di giochi anche attraverso PC, Tablet, smartphone e addirittura smart Tv.

Tutto ciò ha un significato chiaro: Microsoft ha iniziato ad implementare un cosiddetto modello ecosistema totalmente slegato dalla console utilizzata tale per cui non importa che piattaforma utilizzi, l’importante è che tu abbia (e paghi) l’abbonamento.

La Next Gen e l’acquisizione di Bethesda

Il secondo grande segnale di svolta arrivò nel settembre del 2020. Alle porte di una next gen che, causa COVID e conseguente crisi dei chip che hanno causato una penuria di scorte e un mercato secondario feroce, ha arrancato enormemente nelle sue fasi iniziali arriva l’annuncio da parte di Microsoft dell’acquisizione di ZeniMax Media (società madre che controlla, tra le altre, Bethesda, Arkane e iD) per 7,5 miliardi di dollari. Inizialmente, complici ovviamente anche fattori esogeni quali, appunto il delicato contesto internazionale segnato dalla pandemia, l’acquisizione non fece più di tanto scalpore. Se ne parlò, certamente, e tra i dubbi che fin da subito aleggiarono a seguito dell’annuncio uno, in particolare, rimbalzava tra le testate di settore e gli appassionati: cosa avrebbe fatto Microsoft con le principali IP prodotte da Bethesda e co.? Questa domanda ha, almeno in un primo momento, trovato riposta nelle parole di Phil Spencer che nei giorni successivi al deal ha annunciato (forse per compiacere gli enti regolatori) che non sarebbe stato nell’interesse di Microsoft limitare il numero di giocatori ma, al contrario, l’intenzione era quella di “portare i prodotti Xbox a più giocatori possibili”.

Una volta concluso il processo di acquisizione però (a marzo del 2021), la linea è cambiata drasticamente. Lo stesso Spencer che, sebbene non affermandolo mai direttamente, aveva quantomeno lasciato un barlume di speranza agli utenti delle altre piattaforme di continuare a vedere titoli amatissimi come The Elder Scrolls, Fallout e Doom multipiattaforma, ha affermato che tutti i prodotti futuri per i quali non fossero già stati presi accordi di distribuzione (per non incorrere in cause e penali salate da pagare) sarebbero stati esclusive Game Pass.

L’annuncio di acquisizione di Activision

A neanche due anni dall’annuncio dell’acquisizione di ZeniMax, nel gennaio del 2022, Microsoft annuncia la più grande e dispendiosa acquisizione della sua storia: per circa 70 miliardi di dollari Activision, uno dei più grandi publisher di videogiochi a livello globale, entrerà a far parte degli Xbox Game Studios. Il mondo videoludico mondiale è totalmente in fermento. Microsoft ha, di fatto, cambiato le regole del gioco, come dicono gli americani: mai, infatti, si era vista una acquisizione di questa portata in questo settore (per intenderci, il fatturato annuo di Sony nel 2021 è stato di 63 miliardi di dollari). Riemerge quindi lo stesso quesito sorto quasi due anni prima: cosa ne sarà delle IP di Activision se l’acquisizione si concretizzerà? In questo caso però a spaventare maggiormente la community è più che altro il futuro di COD, al secolo Call of Duty, ossia uno dei due giochi più giocati a livello globale (l’altro è FIFA) che non solo vanta una fan base pressoché smisurata ma rappresenta per alcuni (streamer su Twitch e Youtuber vari), un vero e proprio lavoro.

Microsoft dal canto suo è fiduciosa: l’acquisizione ha come deadline stabilita quella della chiusura del Fiscal Year 2023, ossia giugno 2023. Fiducioso è anche Bobby Kotic, CEO di Activision, il quale dopo essere saltato agli onori di cronaca per casi di maltrattamenti sul luogo di lavoro e discriminazioni verso i propri dipendenti (motivo per cui Activision nonostante i numeri delle vendite non navigava in buone acque), se ne uscirebbe di scena con un lautissimo compenso.

Tutto sembra procedere a gonfie vele quando, dapprima attraverso interviste rilasciate ai giornali e successivamente esponendosi direttamente, Jim Ryan, attuale CEO di Sony Computer Entertainment (la divisione di Sony che produce PlayStation), si dice inizialmente preoccupato e, successivamente, fortemente contrario all’acquisizione. Le preoccupazioni da parte di Sony (cui successivamente si accoderà anche Google) derivano, almeno apparentemente, dal fatto che Microsoft potrebbe rendere esclusivi i titoli prodotti da Activision, così come ha fatto con i titoli Bethesda in precedenza, provocando un danno enorme alla casa giapponese e, di conseguenza, andando a danneggiare in modo irreparabile la concorrenza.

La diatriba si sposta così su un piano diverso ed assume anche toni diversi. Comincia una sorta di “guerra social” tra fazioni: PlayStation contro Xbox, Sony contro Microsoft, combattuta a suon di interviste, tweet e articoli.

Gli enti antitrust e i dubbi sulla concorrenza

In tutto ciò la disputa si consuma anche su un altro terreno di gioco, quello degli enti regolatori della concorrenza (antitrust) che devono esprimersi riguardo alla gigantesca acquisizione. Per poter finalizzare il processo di acquisizione, infatti, occorre l’approvazione da parte delle Autorità regolatrici della concorrenza e del mercato dei paesi in cui le due aziende hanno interessi e in cui operano (e quindi la quasi totalità del globo), al fine di valutare gli effetti che tale acquisizione avrebbe sul mercato di riferimento del proprio paese per evitare che si vengano a creare situazioni di limitazione della concorrenza o, nei casi limite, addirittura di monopolio. In tal senso è opportuno specificare come i principali enti regolatori siano sostanzialmente tre:

  • La CMA (Competition and Market Autority) operante nel Regno Unito;
  • La Commissione Europea, che ha competenza per quanto riguarda il territorio dell’UE;
  • La FTC (federal trade commission) che invece opera negli Stati Uniti.

Le tre principali Authority si mettono quindi al lavoro e subito si capisce che l’approvazione dell’acquisizione potrebbe rivelarsi tutt’altro che scontata. In prima battuta, o meglio in una prima fase di analisi, l’accordo tra le due aziende (ma questo era prevedibile data la mole del deal) non riceve il benestare da nessuno dei tre enti: tutti rimandano la propria decisione ad una seconda fase di indagini in cui, attraverso un laborioso processo di indagini interne ed esterne, viene data facoltà alle parti di spiegare con maggiore dettaglio i termini dell’accordo e, nel caso fosse necessario, adottare delle misure correttive per renderlo accettabile e sostenibile da un punto di vista concorrenziale.

Tra le tre, la CMA è sicuramente quella che ha espresso più perplessità in merito alle conseguenze dell’accordo seguita dalla FTC capeggiata da Lina Khan. La Commissione Europea ha invece da subito assunto una linea più neutra. Nel frattempo, tuttavia, altre Autorità regolatrici di altri paesi (Arabia Saudita, Brasile, Cile, Serbia, Giappone e Sud Africa in primis) approvano l’acquisizione non ravvisando nessun tipo di rischio per la concorrenza a seguito di una eventuale finalizzazione dell’accordo.

La CMA blocca l’accordo: Microsoft possibile monopolista del cloud gaming

Contro tutti i pronostici, lo scorso 26 aprile la CMA ha pubblicato sul proprio sito un comunicato in cui afferma di aver deciso di non dare il via libera all’acquisizione. Nonostante, infatti, gli sforzi introdotti da Microsoft nel sottoscrivere accordi di distribuzione decennali con alcuni tra i principali player del mercato videoludico globale (Nintendo e NVidia su tutti), ciò non è stato sufficiente.

Il fatto che più ha sorpreso sono state soprattutto le motivazioni che hanno portato l’ente regolatore del Regno Unito a esprimere il proprio parere negativo: non è infatti, contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare, il rischio di un monopolio nel mercato delle console a spaventare l’Authority del Regno Unito quanto piuttosto la rilevata posizione di forza che Microsoft avrebbe nei servizi di cloud gaming. Il numero di utenti attivi mensili per il cloud gaming nel Regno Unito è più che triplicato tra l’inizio del 2021 e la fine del 2022, con una previsione del settore che vale 1 miliardo di sterline entro il 2026 (e fino a 11 miliardi di sterline a livello globale). In questo contesto Microsoft rappresenterebbe già circa il 60-70% dei servizi globali di cloud gaming e essendo la proprietaria dei sistemi operativi dei Pc dell’’infrastruttura di cloud computing globale (Azure e Xbox Cloud Gaming) può certamente giocare un ruolo dominante. Nonostante ciò, da ulteriori approfondimenti, è emerso come il settore del cloud gamig, sebbene in crescita, sia ancora un settore del tutto marginale considerando il mercato globale del gaming, basti pensare che nel Regno Unito si contano appena diecimila utenti attivi a fronte di un mercato (quello del gaming) che ne conta svariati milioni.

Cosa succede ora?

Non appena appresa la notizia della bocciatura da parte della CMA, Microsoft e Activision hanno diramato due comunicati in cui annunciano che faranno ricorso al CAT (Competition Appeal Tribunal) per invalidare il verdetto dell’antitrust. Ora non resta che attendere il responso della Commissione Europea, che dovrebbe arrivare il prossimo 22 maggio (per il quale filtra cauto ottimismo riguardo al verdetto) e successivamente quello della FTC, in programma per agosto (considerato l’astio più volte espresso da Lina Khan nei confronti delle Big Tech, difficilmente, nella condizione attuale avrà esito positivo) per avere un quadro certamente più delineato del futuro. Chi opera nel mondo delle acquisizioni, specie di questa portata, sa che il tempo gioca un ruolo fondamentale: o l’affare si fa o salta. Non conviene a nessuno trascinare la questione troppo per le lunghe e, nel caso di ulteriori bocciature da parte della CUE o della FTC vorrebbe dire aprire ricorsi e procedimenti dall’esito incerto e dalle tempistiche ancora più incerte.

Phil Spencer, nel frattempo, ha prontamente rassicurato i suoi: il progetto di crescita della divisione gaming e di Xbox andrà avanti anche senza Activision. Parole rassicuranti ma alle quali, da un certo punto di vista, si fa fatica a credere. Il peso che l’ingresso delle IP Activision (COD su tutti) avrebbero nella crescita del Game Pass, che si appresta a superare i 30 milioni di abbonati, è di centrale importanza per Microsoft, inutile negarlo. Una risoluzione negativa dell’accordo di acquisizione porrebbe Microsoft nuovamente in una posizione di svantaggio nei confronti della concorrenza (Sony), a fronte però di un risparmio di poco meno di 70 miliardi (tolte le penali dovute ad Actvision in caso di mancata approvazione), pronti per essere reinvestiti. Se ciò avverrà, nel caso, non è chiaro al momento.

Ora la domanda da porsi è una: in caso di esito negativo, i vertici di Redmond manterranno la fiducia in Spencer e nella sua visione oppure assisteremo ad un altro stravolgimento in casa Xbox?

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