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Che ne sarà del futuro se l’intelligenza artificiale ucciderà il ceto medio



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Il problema non è l’IA con le sue meraviglie che illusionisti e propagandisti ancora ci ripropongono. Il problema è l’assenza di politiche pubbliche e democratiche che controllino e nel caso regolamentino e soprattutto guidino verso obiettivi umani, sociali e ambientali condivisi i processi di innovazione tecnologica

Pubblicato il 12 giu 2023

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria



Programma nazionale intelligenza artificiale

L’intelligenza artificiale ucciderà milioni di posti di lavoro, ma anche il ceto medio – o meglio i ceti medi – nel mondo e soprattutto in occidente? Quei ceti medi su cui si è costruito il fascismo e il nazismo, ma anche il consumismo novecentesco, la società di massa, un benessere diffuso grazie alle politiche keynesiane soprattutto post-1945 e la loro attivazione di diversi ascensori sociali – e oggi anch’essi sempre più impoveriti?

L’impatto dell’IA sulla speranza di futuro dei giovani

Hanno i giovani di oggi – più poveri dei loro padri e nonni a causa della precarizzazione del lavoro, perché da quarant’anni l’ascensore sociale ha invertito la direzione divenendo un discensore sociale, oppure si è del tutto fermato a piano terra, posto che la disuguaglianza sociale e la precarizzazione esistenziale sono state una scelta politica e pianificata del neoliberalismo e del capitalismo globalizzato, come sostiene l’economista e premio Nobel Joseph Stiglitz – hanno i giovani una speranza di futuro e di miglioramento, uscendo dalla loro condizione di rider esistenziali cronici?

E a questa ennesima distruzione/disruption sociale prodotta da capitalismo e tecnologia contribuirà ora appunto anche l’intelligenza artificiale, con i suoi impatti di de-socializzazione e di impoverimento ancor più generalizzato e di polarizzazione reddituale (i ricchi sempre più ricchi, gli altri sempre più poveri, cancellando appunto ciò che un tempo stava nel mezzo della struttura sociale), dopo che a questo risultato hanno già pesantemente contribuito appunto quarant’anni di ideologia neoliberale, con le società del mondo ridotte in una sorta di servitù sociale ed esistenziale verso il tecno-capitale analoga a quella sessuale di O di Histoire d’O?

Cosa devono aspettarsi i ceti medi dall’intelligenza artificiale

Si sostiene che con la prima rivoluzione industriale si assistette al disastro della classe media (ma allora, dobbiamo ricordarlo, oltre le semplificazioni, non c’erano le classi medie nel senso quantitativo e qualitativo novecentesco del termine) e in realtà a prodursi fu una proletarizzazione forzata e violenta (de-socializzazione dalle campagne e dai piccoli borghi con impoverimento di massa grazie anche alle enclosures e ri-socializzazione altrettanto forzata e violenta nelle fabbriche e nelle degradate periferie cittadine – da rileggere il Libro primo del Capitale di Marx e La situazione della classe operaia in Inghilterra, di Engels); proletarizzazione necessaria per creare quella massa di operai iper-sfruttabili di cui necessitava la borghesia imprenditoriale di allora per massimizzare il proprio plusvalore; mentre con la seconda rivoluzione industriale e poi soprattutto con il secondo dopo-guerra del ‘900 si sarebbe invece avuta la fortuna della classe media, cresciuta e moltiplicatasi; mentre con la terza rivoluzione industriale, quella dei computer, avviatasi dagli anni ‘70 vi sarebbe stato un nuovo declino della classe media.

E ora? – con la quarta rivoluzione industriale che è in realtà sempre rivoluzione industriale e industrializzazione del mondo e delle masse oggi individualizzate, secondo la legge ferrea del tecno-capitalismo, cioè prima suddividere e parcellizzare il lavoro per poi integrare la parti suddivise e parcellizzate in qualcosa di maggiore delle semplice somma della parti: ieri e oggi mediante la forma della fabbrica, da quella di spilli di Adam Smith a quella tayloristica/toyotista del secolo scorso, a quella 4.0 e di piattaforma di oggi.

Cosa devono cioè aspettarsi i ceti medi dall’intelligenza artificiale: una nuova tappa del loro declino, ormai messi da tempo su un piano inclinato che pre-determina e pianifica la loro proletarizzazione forzata e violenta (un aggravamento ulteriore della disuguaglianza come scelta politica deliberata del capitalismo digitale e delle sue oligarchie, felici di avere vinto loro la lotta di classe), dando ragione a Karl Marx quando scriveva di un processo di generale proletarizzazione della società, ma dandogli torto quando immaginava che da questo sarebbe derivato il rovesciamento del sistema capitalistico, che né la classe operaia né, meno che meno i ceti medi sembrano non solo volere ma neppure riuscire più a immaginare; oppure e diversamente, secondo ad esempio David Autor – presentato come one of the top labor economists in the world, ma in realtà intellettuale organico del sistema capitalistico e suo propagandista e pedagogo – certamente l’intelligenza artificiale “will profoundly disrupt the job market, but with concerted efforts and smart policies, we can bring the dream of a more prosperous and more equal economy into reality”[i].

Ma quali sarebbero questi concerted efforts e queste smart policies? Autor non lo dice – ovviamente – e si limita ad aggiornare le solite e ormai stantie ma sempre efficaci retoriche neoliberali insistendo sulla necessità che gli umani si adattino alle esigenze delle imprese e quindi oggi dell’intelligenza artificiale – e non viceversa, come dovrebbe essere in una polis politica e sociale, democratica e oggi sostenibile ambientalmente e non in una polis ridotta a fabbrica come è diventata oggi, organizzata, comandata e sorvegliata come una fabbrica – perché “with the right policies to prepare and assist Americans to succeed in this new AI economy, we could make a wider array of workers much better at a whole range of jobs, lowering barriers to entry and creating new opportunities”. Ed anzi aggiunge che “technology once provided a significant boost for creating and expanding the middle class”.

Ma Autor dimentica – essendo appunto organico al tecno-capitalismo – che a creare e promuovere la classe media, in Europa, sono state soprattutto le politiche appunto keynesiane di redistribuzione della ricchezza e le norme a tutela del lavoro (riconosciuto come un diritto e non come una pura merce, come invece vuole da sempre il capitale) e dell’azione sindacale. Mentre in America lo sono state soprattutto la crescita dei salari e la riduzione degli orari di lavoro, perché – come aveva ben capito Edward Filene, imprenditore della grande distribuzione statunitense, già negli anni ’20 del ‘900, “se le masse lavorano sedici ore al giorno, non saranno grandi consumatrici perché dormiranno durante le altre otto ore e la gente non compera mentre sta dormendo. Se devono comprare automobili, devono avere tempo per andare in giro. Questo è il significato della giornata di otto ore e della settimana di cinque giorni […]. La produzione di massa non è semplicemente produzione su larga scala. È produzione scientifica, pianificata, organizzata e gestita in modo da rendere possibile un altissimo tasso di produzione pro capite. Ciò di per sé riduce i costi. Ma se le economie non sono trasferite sul consumatore attraverso prezzi più bassi, non si tratta di produzione di massa, perché non aiutano le masse a comprare quel che si produce. E se i salari non sono aumentati in proporzione all’aumento della produzione, di nuovo non si tratta di produzione di massa perché non si è fatto il massimo possibile per accrescere il potere d’acquisto e in tal modo mettere i prodotti alla portata delle masse”[ii].

In realtà, da quarant’anni i salari in Occidente tendono a scendere o a restare fermi, quanto più tecnologia e globalizzazione pervadono il mondo. Quindi non si può creare ceto medio se non si accrescono i salari e non si distribuisce la ricchezza prodotta. Ma oggi il sistema tecnologico – i.a. compresa o soprattutto – permette di accresce la produttività del lavoro e il plusvalore dei capitalisti senza che questi debbano accrescere i salari, anzi arricchendosi (loro) sempre di più anche con l’elusione fiscale. E per i consumatori basta inventare il low cost e i Black Friday e gli algoritmi predittivi e il gioco (il profitto) è fatto.

Certo, anche Autor deve riconoscere che la tecnologia non basta e che quindi, come in passato, servono “political and institutional factors that helped as well, especially public investments in universal education, which helped prepare kids to enter growing sectors of the economy”. Ovvero, il capitale chiede allo stato di fare investimenti che favoriscano lo sviluppo dell’i.a. capitalistica e allo stesso tempo che formi le competenze (la forza-lavoro) a farla funzionare. Perché l’intelligenza artificiale (è la solita promessa del capitalismo, sempre smentita dalla realtà) “could also make our economy more productive, products and services cheaper, our living standards higher, and — if we pursue the right policies — it could make a whole bunch of people without a college education much more capable of doing a whole range of valuable jobs”. Ed è ancora e sempre, l’adattamento dell’uomo alle esigenze del capitale – e non viceversa, cioè l’adattamento del capitale e della tecnologia alle esigenze sociali dell’uomo e a quelle ecologiche della Terra.

I ceti medi, oggetto oggi sconosciuto

Ma cosa sono, o meglio cosa erano i ceti medi? Secondo Angelo Pichierri, nell’Enciclopedia delle scienze sociali Treccani (a cui rinviamo, tra le molte fonti possibili), “l’espressione classe media diventa di uso comune nel XIX secolo come sinonimo di borghesia imprenditoriale, per indicare cioè la classe che per reddito, prestigio e potere occupa una posizione intermedia tra l’aristocrazia e il proletariato. Col progressivo peggioramento della posizione relativa della vecchia classe dominante, e la sua sostituzione a opera della nuova classe imprenditoriale, l’espressione classe media, il suo sinonimo ceto medio e i loro plurali passano a indicare quei gruppi sociali che, non appartenendo né alla borghesia né al proletariato, si collocano tra i due occupando una dimensione rilevante della stratificazione sociale”[iii]. Qui ci interessa invece riprendere il Saggio sulle classi sociali(1974 e ristampa nel 2015)[iv] dell’economista Paolo Sylos Labini (1920-2005), secondo il quale in Italia e in quegli anni (ma similmente in altri paesi e frutto anche e soprattutto delle politiche redistributive keynesiane dei Gloriosi trent’anni 1945-anni Settanta) non vi erano solo due classi sociali, secondo una visione riduttiva e dicotomica della realtà sociale, ma una loro molteplicità, distinguendo la grande dalla piccola borghesia, a loro volta divise in sottocategorie, al pari della classe operaia distinta in sei sottoclassi, arrivando a un totale di 19 classi sociali. Questo dentro appunto a un processo di progressivo allargamento del cosiddetto ceto medio o classi di mezzo. Processo poi invertito con l’ideologia neoliberale e i suoi processi di individualizzazione esasperata; un neoliberalismo che pure invitava/incitava tutti ad arricchirsi senza porre limiti di mezzo e di scopo, ma che poi ha prodotto i risultati – ma appunto questo era il suo fine – di togliere al lavoro il senso del suo essere un diritto, di indebolire il sindacato (un intralcio per l’impresa) e di cancellare la società civile e il conflitto di classe, di creare un imponente esercito industriale di riserva e quindi un impoverimento generalizzato, alla fine anche di quel ceto medio la cui conquista era il desiderio dell’ideologia neoliberale. Ma ovviamente non tutti si potevano arricchire e la polarizzazione sociale è tornata ad accentuarsi, e se i ceti medi/classi di mezzosi impoveriscono (e non solo loro) ed evaporano, la stratificazione sociale si riduce ma anche, e conseguentemente, la pluralità degli stili di vita.

Dov’è il problema?

Il problema allora non è l’intelligenza artificiale con le sue meraviglie che illusionisti e propagandisti come Autor ancora ci ripropongono, senza che nessuno gli dica di smetterla di raccontare favole per bambini.

Il problema è invece l’assenza di politiche pubbliche e democratiche che controllino e nel caso regolamentino e soprattutto guidino verso obiettivi umani, sociali e ambientali condivisi i processi di innovazione tecnologica, che oggi sono invece finalizzati solo ed esclusivamente alla massimizzazione del profitto degli oligarchi del tecno-capitalismo e alla sostituzione della democrazia con sistemi automatizzati di amministrazione del mondo e della vita umana; che si redistribuiscano le enormi ricchezze oggi concentrate nelle mani di pochi (cioè, si rottami il neoliberalismo, la Silicon Valley e oscenità intellettuali tipo: “l’innovazione non si può e non si deve fermare”); che concetti come responsabilità, sostenibilità, giustizia sociale e ambientale entrino nell’immaginario e nella progettualità politica e sociale, cosa invece impossibile per l’IA, perché anche l’IA – salvo le eccezioni del suo utilizzo per scienza, cura e cultura – è capitalismo all’ennesima potenza; che la scuola non insegni solo competenze a fare (e ad adattarsi alle macchine), ma pensiero critico. E che anche i ceti medi – assieme alla vecchia classe operaia e a tutti noi – prendano consapevolezza che il tecno-capitalismo non è qualcosa di ineluttabile.

Conclusioni

Indigniamoci!, scriveva nel 2010 Stéphane Hessel[v]. Imperativo che vale ancora e ancora di più oggi, anche nei confronti di chi vorrebbe farci entrare nell’intelligenza artificiale a prescindere dalla nostra libertà e volontà e da processi decisionali democratici e consapevoli.

Bibliografia


[i] https://www.npr.org/sections/money/2023/05/09/1174933574/what-if-ai-could-rebuild-the-middle-class

[ii] A. Salsano, “Ingegneri e politici. Dalla razionalizzazione alla rivoluzione manageriale”, Einaudi, Torino, 1987, pag. 21

[iii] https://www.treccani.it/enciclopedia/classi-medie_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/

[iv] P. Sylos Labini, ”Saggio sulle classi sociali”, Laterza, Roma-Bari, 2015

[v] S. Hessel, “Indignatevi!”, AddEditore, Torino, 2011

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