La giustizia italiana è (o, a voler essere prudenti, potrebbe essere) sul punto di realizzare lo storico passaggio dalla mera digitalizzazione dei suoi documenti, cioè il mero uso di strumenti non analogici (ma digitali), ad attività intrinsecamente modellata sulle possibilità che il contesto digitale offre e che si avvale, per la prima volta operativamente, anche di tecniche di intelligenza artificiale.
Nella fase precedente, i contenuti e le modalità di acquisizione degli atti, così come lo svolgimento del processo, erano sostanzialmente immutati rispetto al passato, e l’unica differenza era il trasferimento in formato digitale delle informazioni espresse come segni impressi su carta (con penna, macchina da scrivere o computer fa poca differenza: modalità analogica), producendo “documenti” digitali.
Nella fase che ora si apre (o può aprirsi) le informazioni sono direttamente prodotte e organizzate in modo da essere processabili da macchine (machine readable) e hanno caratteristiche che le rendono esplorabili direttamente con tecniche di intelligenza artificiale (legal analytics), che operano per definizione su “dati” e non su documenti.
È il passaggio dai documenti ai dati, conosciuto e indagato da tempo a livello teorico, che ora diventa l’elemento portante di una importante innovazione (cioè la messa in pratica) in campo giudiziario.
Tre innovazioni legislative della Riforma Cartabia
Sono tre piccole modifiche legislative, che riguardano neanche il Codice di procedura civile, ma solo le sue Disposizioni di attuazione, che segnano questo passaggio dai documenti ai dati. Il lettore avrà la pazienza di seguire il piccolo percorso legislativo, che è parte della cosiddetta Riforma Cartabia del processo civile.
L’ Art. 196-quater delle Disposizioni di attuazione del codice di procedura civile stabilisce che “nei procedimenti civili davanti al tribunale, alla corte di appello, alla Corte di cassazione e al giudice di pace, tutti gli atti processuali e i documenti siano obbligatoriamente ed esclusivamente [enfasi aggiunte] depositati con modalità telematiche, mentre (ed è il secondo passaggio) il successivo articolo (196-quinnquies) prevede che gli atti così formati siano sottoscritti con firma digitale e depositati telematicamente nel fascicolo informatico.
La terza modifica riguarda il modo in cui devono essere scritti e strutturati questi atti, di cui gli articoli appena visti prevedono il deposito in forma telematica e la destinazione nel fascicolo informatico. L’art. 46 delle Disposizioni di attuazione del codice di procedura civile prevede che gli atti giudiziari debbono essere scritti in carattere chiaro e facilmente leggibile (auspicio antico, si dirà!), ma soprattutto (ed è qui il fatto nuovo) che il Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura (CSM) e il Consiglio nazionale forense (CNF), definisce con decreto gli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo. Con il medesimo decreto sono stabiliti i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. Gli atti devono contenere un indice e una breve sintesi del contenuto dell’atto stesso.
In più, in una norma a parte, è previsto che queste norme si applichino a tutti i procedimenti instaurati dopo il 30 giugno 2023.
In sintesi, da ora in avanti a) tutti gli atti nei processi civili saranno esclusivamente in formato digitale; b) essi confluiranno nel fascicolo informatico; c) gli atti degli avvocati e dei giudici civili dovranno essere strutturati secondo schemi informatici, i cui campi sono destinati ad accogliere le informazioni contenute nei registri del processo; d) gli atti dovranno contenere un indice e una breve sintesi del contenuto dell’atto stesso; e) gli schemi informatici e ulteriori indicazioni di ampiezza degli atti saranno definiti dal Ministro della giustizia, sentiti CSM e CNF.
Al netto delle resistenze pregiudiziali che possono esservi in una parte dell’avvocatura e della magistratura, vi è ampia materia su cui riflettere, nel momento in cui si passa da alcune prospettive teoriche avanzate in sede scientifica all’innovazione, cioè a un mutamento pratico del contesto e del modo di fare giustizia civile in Italia.
Presupposti e implicazioni
Il punto di partenza può essere il seguente: se tutti gli atti di parte e del giudicante sono in formato digitale e confluiscono nel fascicolo informatico, ogni atto dell’avvocato, del giudice, del processo (verbale) cessa di essere un atto isolato (documento) e diventa un aggregato provvisorio di informazioni condivise nel processo e ricomposte in vario modo in ragione della posizione di chi redige l’atto e della fase processuale.
Come avevamo notato in un contributo di un paio di anni fa, con il termine giustizia si usa riferirsi a un insieme complesso di istituzioni e attività, tutte collegate e, al tempo stesso, aventi ciascuna funzioni proprie e caratteristiche distinte, rispetto alle quali la digitalizzazione gioca un ruolo diverso. È “giustizia” l’apparato ministeriale con le sue articolazioni periferiche: ma la digitalizzazione del patrimonio, della gestione del personale e delle attività amministrative, se può migliorare il funzionamento del sistema, ha limitati effetti sulla riduzione dei tempi e sulla qualità delle decisioni.
Se, poi, si intende per “giustizia” l’attività giudiziaria, certo anche qui la digitalizzazione della gestione del personale amministrativo e di cancelleria, nonché dei mezzi tecnici (computer, collegamenti, reti e altro) può dare all’attività giudiziaria basi più solide, che le consentiranno di procedere più spedita, ma, ancora una volta, l’impatto di questa, pur utile, digitalizzazione, sarà solo indiretto su tempi e qualità degli atti.
La questione prende un aspetto ancora diverso se con “giustizia” ci si riferisce alle norme che regolano i processi, e quindi alle norme di procedura. Il rapporto tra norme di procedura e digitalizzazione è delicato: in altri termini le norme procedurali non andrebbero costruite come se si fosse in epoca predigitale per poi verificarne la compatibilità digitale, ma dovrebbero essere digital by design, cioè concepite sin da subito come immerse nel contesto di un processo digitale.
Ma anche in questo caso tutto ciò, per quanto importante, lambisce soltanto l’attività del giudicare, ne informa il contesto ma non tocca l’aspetto direi cognitivo del giudicare, che riguarda giudici e avvocati, le fonti dalle quali essi attingono le informazioni sui precedenti e le leggi, e con quali mezzi tecnologici, il modo in cui i loro atti sono scritti, come si relazionano gli uni con gli altri, le tecnologie di cui si avvale l’Ufficio del giudice, e si potrebbe continuare.
In realtà è solo a questo ultimo livello che il digitale cessa di essere mero contesto tecnologico per le professioni legali e diventa fattore trasformativo del diritto stesso e del modo in cui esso vive nelle relazioni sociali, aprendo a una riflessione giuridica profonda e non procrastinabile, nella quale entrano in gioco gli strumenti di Legal Analytics (LA), un ambiente tecnico nel quale confluiscono diverse discipline, come data science, intelligenza artificiale (AI), machine learning (ML), natural language processing (NLP), statistica.
A questo punto, con le novità normative su richiamate, potremmo dire che ci siamo, cioè siamo al punto di compiere questo passaggio. Bisogna capire da dove partire.
La motivazione? Un aggregato temporaneo di dati
Può essere utile partire dalla natura della motivazione dell’atto decisorio, un punto decisivo dal punto di vista costituzionale e un indice importante dei rapporti tra giudici e avvocati, nonché un aspetto determinante della regolamentazione formale dei rispettivi atti che Ministero, CSM e CNF si apprestano a darne (vedi sopra art. 46 Disp.Att.Cpc).
Partirei dal chiedersi: di cosa sia fatta la motivazione di un atto decisorio, quali siano i suoi componenti, quale la sua organizzazione interna e cosa debba contenere rispetto alla totalità del materiale contenuto nel processo e nei suoi atti.
La risposta più convincente, mi pare, sia che la motivazione è l’insieme degli elementi che provengono dal processo e che hanno costituito oggetto di prospettazione da parte dei difensori delle parti e che il giudice pone in un ordine logico giuridico a sostegno della propria decisione.
Non paia una definizione riduttiva. Essa risponde alla regola che vieta al giudice di decidere oltre le richieste delle parti o al di fuori di esse e al principio del contraddittorio, secondo il quale il giudice che ritenga «di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio» deve assegnare alle parti un termine per poter interloquire con il deposito di memorie (Art. 101 cpc). Dal che si deduce che il giudice deve pronunciare sulle questioni proposte dalle parti e non può porre a fondamento della decisione questioni sulle quali le parti non abbiano potuto esercitare il diritto di difesa. Potrà certo, se lo ritiene, approfondire o anche sviluppare, ma a partire da una questione che sia stata oggetto d’interlocuzione.
A stretto rigore si può dire che il giudice non aggiunge argomenti, ma organizza e gerarchizza quelli esistenti in modo funzionale alla decisione e che, quindi, una buona motivazione è una motivazione che rende esplicito il perché e il come, e secondo quale ordine, il giudice abbia deciso di aggregare quegli elementi giuridici: niente di più e niente di meno. Questo perché la decisione e la motivazione arrivano all’esito di un processo governato dalla regola fondamentale, non tanto e non soltanto della legalità, quanto del contraddittorio, espressione massima del diritto di difesa e del giusto processo.
Il passo successivo è chiedersi quale sia la natura di questi elementi/argomenti giuridici che vanno a popolare la motivazione della sentenza. Essi sono norme di legge, norme costituzionali o di trattati internazionali, precedenti giurisdizionali, norme provenienti da altri ordinamenti giuridici (caso sempre più frequente, soprattutto in ambito europeo), elaborazioni dottrinarie.
Tutti questi materiali, si noti, sono gli stessi e vengono tratti da fonti condivise con gli avvocati, gli studiosi dell’accademia, le amministrazioni in vista di loro decisioni o con gli stessi legislatori. La differenza sta solo nel modo in cui ognuno di questi professionisti o di questi enti organizza le informazioni, modo che dipende dalle proprie finalità istituzionali e dai propri confini deontologici.
Una rappresentazione schematica è quella contenuta nella figura che segue:
Queste informazioni sono espresse in linguaggio naturale, cioè nel linguaggio usato nella specifica comunità di vita. Nella sentenza possono concorrere, anche coesistere, diversi linguaggi naturali, come capita talora con fonti europee quando sono espresse solo in inglese e francese o in contratti redatti in lingue diverse, che spesso non vengono tradotti. Inoltre, in quanto contenuti giuridici inseriti in contesti informatici/digitali, essi possono acquistare la natura di dati, che possono essere strutturati o non strutturati (a seconda del grado di leggibilità e processabilità da parte di un computer).
Si può, quindi, precisare l’affermazione di cui sopra dicendo che il giudice non aggiunge dati (argomenti), ma li organizza e gerarchizza in modo funzionale alla decisione e che, quindi, una buona motivazione è una motivazione che esplicita il perché, il come e il modo in cui il giudice abbia deciso di aggregare quei dati (elementi giuridici). Se gli elementi giuridici di cui è composta la sentenza sono espressi come dati (ma questo è esattamente il passaggio da compiere) bisogna trarne la conclusione che la sentenza (al pari degli atti degli avvocati e delle fonti dalle quali quei dati provengono) è un aggregato di dati, che il giudice ha ricomposto e organizzato in un modo idoneo a giustificare razionalmente la sua decisione.
Tutto ciò è comune al campo civile e a quello penale, all’avvocato e al giudice, all’amministratore pubblico come al legislatore a qualsiasi livello. I loro atti sono tutti aggregati di informazioni/dati scomponibili e ricomponibili in varia maniera.
Cosa aspettarsi dai decreti ministeriali del giugno 2023
Della questione di come debbano essere strutturati e organizzati gli atti processuali si occupa, all’interno del Progetto Next Generation UPP (presentato a ottobre 2021), il contributo dell’Istituto Universitario di Studi Superiori IUSS-Pavia. Nel testo del progetto ci si esprime in questi termini: per “modello di nuova generazione” (MNG) si intende un file che sia nativo digitale, che raccolga dati strutturati, che sia inserito di default tra i modelli della Consolle del giudice e dell’assistente, che sia raccolto in appositi contenitori e che possa andare a costituire un dataset sul quale operare con strumenti di estrazione di conoscenza.
Questa attività si colloca nella necessaria riprogrammazione dell’intero Processo Civile Telematico (nonché penale) su basi tecniche nuove. Le novità tecnologiche intervenute negli ultimi anni vorrebbero che, fatto tesoro dell’esperienza fin qui fatta con il processo civile telematico e, sia pure parzialmente, con quello penale (PPT), si riconcepisse radicalmente tutto il sistema. Per fornire solo alcuni esempi: a) va risolto con modalità appropriata il problema degli allegati voluminosi ai fascicoli; b) va previsto un sistema di archiviazione dei materiali che includa non solo file di scrittura, ma anche immagini e audio (Data Lake); c) va definitivamente superato il sistema della PEC.
La digitalizzazione delle attività giudiziarie è la base per ogni ulteriore applicazione tecnologica. Ma essa deve essere compiuta, in quanto deve riguardare tutte le attività processuali e tutte le parti del processo (quindi anche gli avvocati, oltre gli ausiliari tecnici) nonché i dati di cancelleria; ordinata, in quanto deve coniugare il carattere di facile accessibilità per i giudici e gli utenti con l’attitudine tecnica dei prodotti dell’attività di andare a popolare raccolte di dati accuratamente organizzate per gli utilizzi avanzati di IA; moderna, in quanto deve riguardare tutti i dati e le informazioni, quale che sia la loro natura.
Lo IUSS Pavia, con il suo gruppo di lavoro composto da giuristi e linguisti computazionali, ha svolto e sta svolgendo un’approfondita attività di elaborazione di questi modelli, in collaborazione con alcune importanti esperienze in ambito giudiziario e con l’avvocatura, e tramite interlocuzione con la Direzione Generale dei Servizi informatici e automazione (DGSIA).
Se questo era lo spirito che animava un progetto dell’ottobre 2021, cosa ci si può aspettare dai decreti che il Ministero della giustizia è chiamato a emanare a giugno 2023?
Direi che gli schemi informatici dovrebbero essere a) file nativi digitali, che raccolgano dati strutturati, b) i dati dovrebbero provenire con la modalità di auto compilazione, sia dai registri (com’è già ora), ma anche dai verbali di causa (per i provvedimenti endoprocessuali) e, soprattutto, dagli atti di parte, secondo una modalità tecnica simile a quella già esistente per l’inserimento delle “conclusioni” delle parti, ma che prenda anche parti essenziali degli atti difensivi (come si spiegherà qui di seguito), c) che sia inserito di default tra i modelli della Consolle del giudice e dell’assistente, d) che, una volta che l’atto sia formato, venga raccolto in appositi contenitori (data lake) e che possa andare a costituire un dataset sul quale operare con strumenti di retrieval (recupero dati), di creazione di document builder e con tecniche di AI che consentano l’estrazione di conoscenza.
È importante che i modelli riguardino anche gli atti dei difensori e devono avere una strutturazione in campi, in modo tale che per ogni parte dell’argomentazione svolta dal difensore, lo stesso difensore possa aggiungere un breve estratto (o abstract) di poche righe; tale abstract va a inserirsi automaticamente, e senza possibilità di essere modificato dal giudicante, nella parte della sentenza che risponde a quella domanda. Il che significa che la partizione o segmentazione della sentenza deve raccordarsi a quella del difensore. In uno studio recente, si è mostrato come le regole del processo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, regole alle quali giudici e avvocati si devono adeguare, seguono esattamente questa logica.
Un document builder è concepito come un ausilio per i giudici e gli addetti all’UPP nel reperimento di materiali per la redazione dei provvedimenti. Presuppone un dataset ben organizzato e alimentato con dati di buona qualità, che possa essere interrogato con algoritmi che possano aiutare a rendere visibili quelle informazioni che a occhio nudo non si riesce a notare o, anche, proponendo una bozza della sentenza da scrivere e dei precedenti e delle norme applicabili, una volta che al sistema siano state fornite le coordinate spazio-temporali e di materia della questione da decidere. A quel punto al giudice resta il compito più difficile e di pregio intellettuale e professionale: selezionare quel materiale e quella proposta di percorso motivazionale e sfidarla, cambiando o precisando alcuni parametri, o alcuni elementi di fatto e di diritto che contraddicono e cambiano la consequenzialità della proposta del sistema.
È necessaria una visione della motivazione come creazione non isolata ma inserita in un flusso di informazioni organizzate come dati, dove essa rappresenta soltanto un passaggio, per quanto di grande importanza pratica e sociale.
Tutto facile e a portata di mano? Certamente no
Ci si può chiedere, per esempio, se l’attuale Consolle del giudice sia in grado di supportare questa evoluzione, visto che ad oggi gli utenti lamentano numerose mancanze delle stesse funzionalità tradizionali. Ma anche come vada risolta l’organizzazione del fascicolo informatico, visto che oggi i materiali si presentano affastellati, mentre bisognerebbe recuperare, a livello digitale, una delle qualità antiche dei bravi cancellieri nel tenere in ordine un fascicolo “cartaceo”. E poi, ci si può chiedere se l’accesso degli avvocati e il collegamento a Consolle sia funzionale. Senza contare che giudici e avvocati dovrebbero avere accesso alle medesime fonti informative.
Infine, va fatto cenno a come sia delicata la posizione del Ministero della giustizia, che si trova a operare in un campo che riguarda non i mezzi, ma il contenuto dell’attività giurisdizionale. È sufficiente il “sentire” il CSM e il CNF? Siamo sicuri che non si ponga un tema di separazione dei poteri?
In sintesi, si può confermare che il passaggio in corso è quello giusto e decisivo: dalle informazioni contenute in documenti ai dati. L’importante è arrivarci preparati e percorrerlo in modo appropriato. Il lavoro da fare non manca.
Note
[1] Art. 196-quater delle Disposizioni di attuazione del codice di procedura civile .
Obbligatorietà del deposito telematico di atti e di provvedimenti. Nei procedimenti civili davanti innanzi al tribunale, alla corte di appello, alla Corte di cassazione e al giudice di pace il deposito degli atti processuali e dei documenti […] ha luogo esclusivamente con modalità telematiche. Il deposito con modalità telematiche è effettuato nel rispetto della normativa anche regolamentare concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. […]
Art. 196-quinquies. Dell’atto del processo redatto in formato elettronico
L’atto del processo redatto in formato elettronico dal magistrato o dal personale degli uffici giudiziari e degli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti è sottoscritto
I testi aggiornati sono reperibili presso il sito Normattiva.
[2] “I processi verbali e gli altri atti giudiziari debbono essere scritti in carattere chiaro e facilmente leggibile. […] Quando sono redatti in forma di documento informatico, rispettano la normativa, anche regolamentare, concernente la redazione, la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. […] Il Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense, definisce con decreto gli SCHEMI INFORMATICI degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo. Con il medesimo decreto sono stabiliti i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. Nella determinazione dei limiti non si tiene conto dell’intestazione e delle altre indicazioni formali dell’atto, fra le quali si intendono compresi un indice e una breve sintesi del contenuto dell’atto stesso. Il decreto è aggiornato con cadenza almeno biennale. Il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto non comporta invalidità, ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo. Il giudice redige gli atti e i provvedimenti nel rispetto dei criteri di cui al presente articolo” (per il testo integrale dell’art. 46 Disp.Att. Cpc si veda il sito Normattiva).
[3] Il D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 ha disposto (con l’art. 35, comma 1) che “Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 30 giugno 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 30 giugno 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti”. Lo stesso articolo ha disposto che “Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti”.
[4] A. Santosuosso – G. Pinotti, Una Giustizia “digital by design”: ecco come realizzarla, Agenda Digitale 21 giugno 2021, https://www.agendadigitale.eu/documenti/giustizia-digitale/giustizia-digital-by-design-ecco-come-realizzarla/
[5] Per una trattazione più estesa rinvio al mio A. Santosuosso, Diritto e intelligenza artificiale, Mondadori Università, 2020, pp. 101-120 e all’esperienza svolta sin dal 2015, come sintetizzata nella nota 64.
[6] Codice di procedura civile, art. 112 (Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato): «Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti».
[7] Progetto PON Giustizia: Next Generation UPP: nuovi schemi collaborativi tra Università e uffici giudiziari. Per il miglioramento dell’efficienza e delle Prestazioni della giustizia nell’Italia nord-ovest, proposto da 11 Università aventi sede nella Macroarea 1 (distretti di Corte d’appello di Troino, Genova, Milano e Brescia).
[8] Matilde Barbini (linguista computazionale), Stefano D’Ancona (giurista), Emanuela Furiosi (giurista), Emma Zanoli (linguista computazionale), coordinati dai Proff. A. Santosuosso, C. Chesi e A. Monti.
[9] Pinotti, G., Santosuosso, A., Fazio, F. (2022). A Rule 74 for Italian Judges and Lawyers. In: Guizzardi, R., Neumayr, B. (eds) Advances in Conceptual Modeling. ER 2022. Lecture Notes in Computer Science, vol 13650. Springer, Cham. https://doi.org/10.1007/978-3-031-22036-4_11
[10] la creazione del cui prototipo è affidata al Dipartimento di informatica dell’Università Statale di Milano, coordinato dalla Prof. S. Castano, in collaborazione con lo IUSS Pavia.