Ammesso che davvero esistano videogame deliberatamente filosofici, siamo davvero sicuri che possiamo considerarli ancora a tutti gli effetti videogame?
Ci eravamo lasciati con questo interrogativo tutt’altro che da poco, e allora proviamo ora a esaminare un videogioco che non solo non cancella una simile perplessità, ma anzi la radicalizza ulteriormente: si tratta di un’altra produzione di Stefano Gualeni, intitolata Necessary Evil (2013). Anche in questo caso, il gioco è liberamente scaricabile, dunque vale lo stesso suggerimento dato per Here: lanciarsi nell’avventura di giocare prima di tornare a leggere queste righe.
Dal genio maligno di Cartesio al diavoletto di Necessary Evil
Cominciamo però facendo un passo indietro. Uno dei personaggi concettuali più noti della storia del pensiero è il famigerato «genio maligno» di Cartesio, che – diremmo oggi – agiva come il programmatore di Matrix, dando vita a una realtà che è tale solo apparentemente, perché a conti fatti non rappresenta altro che un inganno, una totale illusione: io credo di star percependo una candela di cera, che appunto sembra ben reale e presente, seppur in scioglimento, ma non si tratta di altro che un trucco di scena.
In breve, tutto ciò che sembra vero in realtà non è altro che l’esito di una simulazione particolarmente efficace a opera di questa figura diabolica, o – meglio – potrebbe esserlo. Infatti, non rivelo nulla di straordinario, per Cartesio abbiamo un ragionevole appiglio per conquistare la certezza che non proprio tutto quel che vediamo intorno a noi è una gigantesca truffa: noi stessi, più precisamente il nostro pensiero, la nostra autoconsapevolezza – per quanto tormentata possa essere. Possiamo dunque recuperare un po’ di sana fiducia nel mondo pensando al nostro pensiero, riconoscendo che si può dubitare di tutto tranne che di se stessi, del proprio dubitare: l’àncora di salvezza riposa nella sicurezza che, in un certo senso, tutto ruota intorno a noi.
Se fossimo in un videogioco, il diavolo cartesiano risulterebbe quindi sconfitto con una tanto semplice quanto potente mossa finale concettuale: nei giochi mentali tipici della filosofia, basta un colpo intellettuale a far fuori anche il più tremendo dei mostri finali.
A partire da tale fatality, non è mancato chi ha individuato nel buon Cartesio addirittura il padre dell’idealismo, che tutto sommato è la versione filosofica e particolarmente sofisticata di quanto comunemente chiamiamo narcisismo: il mondo intero non è altro che il mio riflesso, ossia – in termini appunto più strettamente filosofici – il prodotto dell’operazione auto-riflessiva della coscienza. Simile conclusione sembra eccessiva, effettivamente, ma è ora comunque importante da tener presente perché il mondo dei videogame è particolarmente incline all’idealismo: per capire in che senso, dobbiamo vedere più da vicino un altro diavoletto, ossia proprio il protagonista di Necessary Evil. Anzi, sarebbe meglio dire: il “protagonista”. Ma andiamo con ordine.
Cos’è Necessary Evil
Il gioco si avvia già in un modo alquanto particolare, perché mostra sè stesso “dietro le quinte”: al suono di una musica dal sapore medioevale, la schermata si carica mostrando infatti il codice, i cui comandi mano a mano danno vita allo scenario iniziale, rivelandoti – tra le altre cose – che c’è una chiave dentro a un forziere. In questo modo, viene confessato in partenza qualcosa che in fondo qualunque videogiocatore sa, anche se tende a non farci troppo caso quando è preso dal gioco: il videogame è una simulazione, cioè è un mondo artificiale, costruito da cima a fondo da parte di un game designer per uno scopo particolare. Quale? Il prosieguo del gioco risponde proprio a un simile interrogativo.
Finito il caricamento, scopri di essere nei panni di un diavoletto con ben cinque occhi, intento a dormire in una stanza chiusa, apparentemente nel sotterraneo di un castello o qualcosa del genere: c’è una porta e questo in un videogame ha un significato ben preciso, normalmente, ossia indica un’entrata/uscita. Provando a muovere il personaggio con i comandi, questo si sveglia: puoi così cominciare a esplorare l’ambiente, spostando scatole vuote ma nulla più, chiedendoti se ci sia il modo di aprire il forziere prima e la porta poi.
Nel mentre, sullo sfondo senti quello che sembra il rumore di una battaglia particolarmente accesa: suoni di piedi che corrono, spade che si scontrano, urla di umani e/o mostri feriti o uccisi. Tu continui a cercare di cavare un ragno dal buco, ma niente. L’atmosfera intanto sembra farsi tesa: la musica aumenta di volume e intensità e i rumori si fanno sempre più forti e ravvicinati. Che fare dunque?
A un certo punto, dal soffitto cadono alcuni detriti sul giaciglio di paglia dove stavi dormendo e spunta fuori un cavaliere: il più classico dei cavalieri – bello, splendente, veloce e spavaldo. Appena si rialza, ti chiede di rivelargli dove si trova e tempo zero… comincia ad assalirti, fino a ucciderti a colpi ripetuti di spada, senza che tu possa controbattere in nessun modo, potendo solo limitarti a cercare di scappare qua e là in quel piccolo stanzino. Dopo essersi liberato di te, contento che il male non abbia prevalso nemmeno questa volta, il cavaliere conquista una moneta, apre il forziere, si appropria della chiave ed esce dallo stanzino, all’apparenza per proseguire la propria avventura e portare a termine la propria missione. Fine del gioco – neanche tre minuti!
Un ribaltamento dei canoni del gioco
Dire che il gameplay lasci l’amaro in bocca significa averne in realtà colto il senso. Difatti, l’esperienza a cui è qui chiamato il “giocatore” – ora è chiaro il motivo delle virgolette – è quella di un ribaltamento dei canoni del gioco, ma proprio dei suoi canoni strutturali: inizialmente, avevi dato per scontato di essere nei panni del protagonista del gioco, perché un videogame è fatto per quello, cioè per farti giocare; ma poi è successo che non solo non eri il protagonista ma uno dei tanti personaggi che in genere questo incontra nel proprio cammino, ma impersonavi addirittura uno dei cattivi da sconfiggere, seppur insignificante, dato che il cavaliere è capitato lì per caso. Anzi, c’è ancora di peggio: in senso stretto, non rivestivi i panni nemmeno di uno dei cattivi con cui battagliare, cosa che sarebbe stata tutto sommato divertente e sfidante, in quanto non stavi giocando affatto – né nei panni dell’attore principale, né in quelli di un attore secondario, né dunque in quelli di un qualche antagonista. Tutto alquanto deludente.
Eppure, lo scopo di questo gioco così strano, anzi straniante, consiste precisamente nell’ingenerare tale cocente delusione delle tue aspettative da videogiocatore: esso punta a segnalarti che normalmente lo scopo del gioco è farti giocare, far ruotare tutto intorno a te in quanto giocatore – e generalmente nel ruolo del protagonista indiscusso. Il game designer è insomma al tuo servizio, in genere, e questo fatto è talmente ovvio che metterlo in discussione equivale a far crollare l’intero sistema videoludico, o perlomeno a farlo un po’ vacillare. In altri termini, questo videogame serve a rivelarti come l’attività videoludica sia in quanto tale idealista, normalmente, perché in essa tutto è costruito intorno alle aspettative, alle percezioni e alle possibilità d’azione del giocatore: è la stessa schermata finale di Necessary Evil a comunicartelo apertamente, per dare un senso al tuo sicuro smarrimento.
Perché Necessary evil è un videogioco dichiaratamente auto-riflessivo
Si tratta dunque di un videogioco dichiaratamente e intenzionalmente auto-riflessivo, che si propone come pensiero critico giocabile: perciò è un videogame filosofico in un senso doloso, ovvero in modo volontario, intrinseco e sistematico, e non semplicemente preterintenzionale o colposo, ovvero in modo involontario, estrinseco e occasionale, come lo sono tutti quei giochi che toccano questioni generalmente affrontate nella filosofia, prevedono momenti particolarmente riflessivi, e via discorrendo. Difatti, tra le attività tipiche del pensiero filosofico troviamo tutto quell’insieme di gesti variamente nominati come pensiero critico, effetto straniamento, problematizzazione, messa in discussione, decostruzione, meta-riflessione, denaturalizzazione, tematizzazione, messa tra parentesi, sospensione, esplicitazione e così via, che consistono nel puntare l’attenzione verso ciò che si dà per scontato per trasformarlo in materia di discussione, ovvero nello spingere le persone a far caso a qualcosa e a farlo così diventare un caso.
In filosofia, in altri termini, si usano gli strumenti della razionalità per fare del conosciuto qualcosa di riconosciuto, dell’ovvio qualcosa di dubbio, del normale qualcosa di anormale, del famigliare qualcosa di estraneo, del solito qualcosa di insolito, e via discorrendo: si mira non soltanto a far pensare a ciò a cui di solito non si pensa, ma più precisamente a far pensare a quanto viene quotidianamente già pensato ma senza prestarci attenzione.
Un gioco sul gioco
Inoltre, la riflessione filosofica è tanto più forte quanto più riesce a essere radicale, cioè a risalire ai fondamenti più nascosti, agli assunti più sotterranei, alle verità più sottaciute e via proseguendo – con la clausola che la difficoltà è data dal fatto che tutti questi presupposti sepolti sono in realtà assolutamente superficiali, dati alla luce del sole e sotto agli occhi di tutti. Cartesio si chiede se non siamo vittima di un inganno totale, facendo presente che prendiamo per pacifico che la realtà ci sia e non sia creata a tavolino da un qualche genio maligno, mentre il tuo vicino di casa in genere non solo pensa a tutt’altro (a meno che non sia un filosofo o un complottista), ma lo fa esattamente in quanto dà per buono di non essere in un Truman Show.
Necessary Evil è pienamente filosofico esattamente in quanto esprime e attiva questo tipo di prestazioni cognitive: ogni qualvolta un giocatore avvia un videogame, sta pensando che questo gli offrirà la possibilità di giocare – tanto banale da non doverlo nemmeno dire! Lo sta appunto pensando atematicamente senza pensarlo tematicamente: il videogame di Gualeni spinge proprio a passare dalla prima forma di pensiero alla seconda, perché frustra ogni possibile aspettativa di gioco e limita ogni margine di manovra. Eppure, in questa maniera, il gioco accede a una nuova dimensione o meta-dimensione: si è chiamati a giocare al giocare, ovvero a interagire con il gioco in generale, preso nella sua strutturalità, non tanto a giocare uno specifico gioco. Necessary Evil è un gioco sul gioco, un gioco di secondo livello, che quindi mira addirittura a farti giocare il gioco in quanto tale: conosci qualcosa di più filosofico? Inoltre, così facendo, il suo gameplay snatura il senso normale del gaming: che razza di videogioco è uno in cui non si gioca?! Va bene provocare, ma a tutto c’è un limite!
Il punto è proprio questo: Necessary Evil porta il concetto e la pratica del videogiocare al proprio limite, là dove il videogame sembra diventare qualcos’altro rispetto a ciò che sembrava essere e anche in questo si rivela genuinamente filosofico: ridefinisce i termini in cui concepiamo la prassi videoludica, ristruttura il nostro punto di vista sul fenomeno videoludico e riorienta la nostra considerazione della realtà del videogame. Credere che simile operazione sia un divertimento intellettuale fine a sé stesso – proprio come si tende a fare quando c’è di mezzo la concettualità filosofica – sarebbe un errore, in quanto si perderebbe di vista il suo carattere profondamente trasformativo: questo videogame riconfigura i canoni di ciò che può valere come videogame, estende le possibilità dell’opera videoludica portandole al di là di dove si pensava potessero o dovessero arrivare.
Dove sta scritto – o scriptato – che un videogioco debba essere disegnato per giocare soltanto nel senso finora ritenuto più naturale e normale? Perché dovrebbe essere usato necessariamente ed esclusivamente per intrattenere e intrattenersi in senso a-riflessivo e non invece per far pensare e pensare? Perché un videogame non può prestarsi alla costruzione di un’ontologia? (Momento spoiler: la risposta nel prossimo episodio della serie). È come quando ci si chiede perché mai “matrimonio” debba per forza significare unione tra due (perché non più) persone di genere diverso (perché non dello stesso genere?), mirando non a cancellarne il senso bensì a risemantizzarne la portata. Oltretutto, Necessary Evil offre tutte queste prestazioni in circa soltanto tre minuti e non si limita a dire, rivendicare e descrivere la necessità di risemantizzazione, ma la mette concretamente in atto, la inscena e performa direttamente!
Conclusioni
Ora, non intendo suggerire che un videogame filosofico nel senso che ho cercato di chiarire può o deve sostituire la filosofia tradizionale veicolata da testi scritti composti di sole parole messe in fila per allineare ragionamenti e argomentazioni. Non è questo il punto: effettivamente, ci sono cose filosofiche che possiamo fare soltanto scrivendo testi e non disegnando gameplay – almeno a oggi. Pertanto, è più ragionevole mantenere un certo pluralismo mediale di fondo, magari anche ammettendo che le attività filosofiche che si possono portare a termine scrivendo parole siano quelle più importanti (come definire, astrarre, formalizzare, ecc.). Ciononostante, bisogna ugualmente avere l’onestà intellettuale di riconoscere che anche un videogame filosofico può avere qualche carta privilegiata da far valere. Lo notavo già nella puntata precedente: c’è appunto una grande differenza tra cercare di descrivere un possibile inganno a parole, come fa Cartesio, e trascinarti nel vivo di un peculiare inganno reale, come fa Gualeni. Il primo può arrivare a suggerirti l’ipotesi che esista un genio maligno che gioca con la tua vita, mentre il secondo può agire realmente come tale e prendersi davvero gioco di te, oltretutto con la beffa di far rivestire a te i panni del diavoletto maligno di turno: almeno su questo, Necessary Evil strappa un punto a Meditazioni metafisiche.