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Equo compenso per gli editori: che fine ha fatto il value gap?



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A che punto siamo con la concreta applicazione nel nostro paese delle regole introdotte dalla direttiva Ue sul diritto d’autore? Vediamo come mai ancora non è stato colmato quel divario tra il valore percepito dai creatori di contenuti e quello ottenuto dagli intermediari che distribuiscono in rete tali contenuti, il cosiddetto “value gap”, cui si voleva…

Pubblicato il 26 lug 2023

Daniela De Pasquale

avvocato, partner studio legale Ughi e Nunziante



giornali intelligenza artificiale

Quando nel 2019 fu adottata la direttiva 790 sul diritto d’autore e diritti connessi nel mercato unico digitale (Direttiva 790/2019, la “Direttiva”) essa fu salutata da un coro di proteste e passò malgrado il voto contrario di un certo numero di Stati Membri dell’Unione Europea, tra cui l’Italia. Il governo italiano (Presidenza Conte) – non ravvisando nel testo la piena tutela della libertà di informazione, espressione e creatività – ha votato contro il provvedimento, insieme a Paesi Bassi, Polonia, Lussemburgo, Finlandia e Svezia.

Altrettante polemiche accompagnarono il decreto 8 novembre 2021 m. 177 attuativo della Direttiva, il quale introdusse significative modifiche al corpo della Legge sul Diritto d’Autore (L. 633/1941 – “L.A.”). Veniva recepito un principio in qualche modo rivoluzionario giacché dopo vent’anni di tumultuose relazioni tra online content sharing service providers e content providers (industria musicale, cinematografica ed informazione) e di progressiva tutela accordata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea all’industria culturale, si stabilì definitivamente un principio di responsabilità in capo alle piattaforme che, dopo esserne state informate, utilizzassero senza autorizzazione contenuti protetti dal diritto d’autore per effetto della comunicazione al pubblico di opere protette effettuate dai propri utenti. Il rischio paventato dagli oppositori riguardava, invece, la possibile censura dei contenuti per effetto di un abuso dei rimedi apprestati ai titolari dei diritti.

Ora che i riflettori sono puntati su altra materia vale la pena di chiedersi a che punto siamo con la concreta applicazione di queste nuove regole nel nostro paese e se sia stato colmato quel divario tra il valore percepito dai creatori di contenuti e quello ottenuto dagli intermediari che distribuiscono in rete tali contenuti, il cosiddetto “value gap”, cui si voleva porre rimedio con la Direttiva.

Il braccio di ferro tra Meta e Siae

Innanzitutto, il braccio di ferro tra il gruppo Meta e Siae tenutosi questa primavera in Italia è il riflesso del nuovo equilibrio voluto dal legislatore europeo. Facebook e Instagram facevano utilizzo di musica protetta dal diritto d’autore, amministrata da Siae, senza aver ottenuto dalla collecting society il rinnovo della licenza per la comunicazione al pubblico delle opere musicali caricate dagli utenti. La questione, come sappiamo, verteva sulla mancata condivisione di dati analitici circa gli utilizzi da parte del gruppo Meta ed è stata poi risolta mediante il rilascio di licenza provvisoria, a seguito dell’apertura di un procedimento per abuso di dipendenza economica avviato da AGCM, la nostra autorità Antitrust. In particolare, l’Autorità ha disposto che Meta riprendesse immediatamente le trattative, mantenendo un comportamento ispirato ai canoni di buona fede e correttezza e provvedendo a fornire tutte le informazioni necessarie onde consentire a SIAE di ripristinare l’equilibrio nel rapporto commerciale con Meta. Inoltre, previa autorizzazione di Siae, Meta ha dovuto ripristinare la disponibilità dei contenuti musicali su Facebook e su Instagram. Infine, l’Autorità ha disposto persino la nomina di un fiduciario in caso di disaccordo tra le parti in ordine alla quantità e alla qualità delle informazioni fornite da parte di Meta.

Il faticoso rapporto tra content provider e piattaforme

Come si può vedere il rapporto tra content providers e piattaforme è ancora parecchio faticoso ma certamente sarebbe stato più difficile ottenere questo tipo di tutela in difetto dell’articolo 102 – sexies L.A. che ha recepito l’art. 17 della Direttiva, che prevede l’obbligo per le piattaforme di dotarsi di una licenza.

Il regolamento AGCOM sull’equo compenso

Un’altra conferma dell’attuazione dei principi introdotti dalla Direttiva, si trova nel regolamento AGCOM approvato il 19 gennaio 2023 per la determinazione dell’equo compenso ex art. 43 bis L.A., per l’utilizzo online delle pubblicazioni di carattere giornalistico.

Il testo del regolamento, pubblicato con Delibera n. 3/23/CONS ed entrato in vigore il 24 febbraio 2023, ha fornito agli operatori del mercato gli strumenti per esercitare i diritti connessi introdotti con l’art. 15 della Direttiva. Come è noto questa norma aveva escluso l’accesso alle news mediante hyperlink al sito dell’editore (linking) ed i testi molto brevi (cd. snippets) o fatti di una sola parola dal novero delle utilizzazioni in relazione alle quali sorge un diritto all’equo compenso e pertanto si riferisce alla riproduzione di articoli o parti di essi non autorizzata.

In sostanza le sole utilizzazioni per le quali gli editori hanno titolo ad un compenso da parte delle piattaforme sono le cosiddette “extended news previews” , insomma le anteprime di notizie effettuate senza dare accesso diretto, mediante link, al sito ove è pubblicato l’articolo e le riproduzioni integrali di pubblicazioni, ovviamente. Una ragione, questa, che potrebbe avere accelerato il crescente ricorso a paywalls da parte degli editori, condizionandone il modello di business.

Molto è stato già scritto sulla scarsa duttilità del Regolamento avuto riguardo alle caratteristiche delle imprese editoriali di piccole dimensioni ed a quelle non generaliste. Ad ogni modo, il sistema per la determinazione dell’equo compenso è basato sulla conclusione di accordi volontari tra editori e piattaforme online.

I criteri di riferimento individuati da Agcom

Il regolamento AGCOM individua alcuni criteri cui le parti potranno (ma non dovranno) riferirsi:

  • il numero di consultazioni online delle pubblicazioni dell’editore sulla piattaforma;
  • la rilevanza dell’editore sul mercato, ossia l’audience online rilevata da organismi rappresentativi del settore di riferimento o fonti terze accreditate;
  • il numero di giornalisti impiegati dall’editore;
  • i costi sostenuti dall’editore per investimenti tecnologici e infrastrutturali per la realizzazione delle pubblicazioni di carattere giornalistico diffuse online;
  • i costi sostenuti dalla piattaforma per la riproduzione e comunicazione delle pubblicazioni di carattere giornalistico diffuse online;
  • l’adesione e conformità dell’editore e del prestatore a codici di condotta e autoregolamentazione e a standard internazionali in materia di qualità dell’informazione e di fact-checking;
  • gli anni di attività dell’editore, anche in relazione alla storicità della testata in ambito nazionale e locale.

Inoltre, se guardiamo all’art. 4 del Regolamento capiamo che certamente le piattaforme hanno fatto sentire la propria voce laddove i ricavi pubblicitari del prestatore derivanti dall’utilizzo online delle pubblicazioni di carattere giornalistico dell’editore saranno calcolati al netto dei ricavi dell’editore attribuibili al traffico di reindirizzamento generato sul proprio sito web.

Cosa succede ora

Pur con queste limitazioni vediamo cosa succede a questo punto.

Ciascuna piattaforma interessata dall’utilizzo delle pubblicazioni giornalistiche è la potenziale destinataria di una richiesta di dati e di avvio di negoziazione per il riconoscimento dell’equo compenso in favore degli editori. Nel caso in cui la piattaforma non risponda in tempi congrui, o non si addivenga a un accordo, l’editore avrà la possibilità di adire l’AGCOM affinché determini l’ammontare dell’equo compenso dovuto all’editore richiedente sulla base dei criteri sopra riferiti.

La procedura ENP di Google

La novità di queste settimane è che alcune piattaforme, tra cui Google con la procedura “ENP”, hanno predisposto un meccanismo che consente agli editori di avviare una negoziazione per il calcolo e il riconoscimento dell’equo compenso per l’utilizzo delle pubblicazioni di carattere giornalistico nonché di ottenere i dati relativi al loro utilizzo.  A quanto pare di capire, ogni singola testata potrà sottoscrivere un accordo, previa accettazione delle regole per il calcolo determinate unilateralmente dalla piattaforma. L’editore che disponga di più testate dovrà avviare tante procedure quante sono le testate interessate dal compenso.

Un risultato di portata modesta per gli editori

Non sembra che l’editore possa avere accesso alle informazioni senza avere previamente sottoscritto l’accordo, con ciò prendendosi il rischio di un dispendio inutile di energie, mentre invece sono richieste agli editori numerose informazioni aggiuntive rispetto all’elenco dei criteri previsto nel Regolamento. Tutto questo si traduce in onerosi “transactional costs,” ossia costi correlati alla attività di richiesta e recupero di questi compensi da ogni piattaforma, idonei a scoraggiare le imprese di piccole dimensioni.

Quindi, alla luce di tutto quanto sopra, il risultato rischia di essere di modesta portata per l’intero comparto editoriale.

Conclusioni

Un’occasione fallita, se si considera che tra le ragioni che hanno mosso legislatore europeo a introdurre l’equo compenso per le pubblicazioni giornalistiche vi era proprio la necessità di sostenere l’industria dei media per arginare fenomeni come le fake news e il dilagare della disinformazione.

Insomma, il value gap è ancora tutto da colmare, ammesso che tale risultato sia perseguibile mediante il diritto d’autore.

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