l’analisi

L’AI e il lavoro in frantumi: sindacati e formazione pubblica per invertire la rotta



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I settori caratterizzati da alto uso di nuove tecnologie presentano un tasso di sindacalizzazione inferiore ai settori tradizionali e richiedono maggiore flessibilità del lavoro: i contratti si sono modificati rendendo il rapporto di lavoro più flessibile e precario. Com’è cambiato il lavoro e quali tutele servono

Pubblicato il 27 lug 2023

Mario Dal Co

Economista e manager, già direttore dell’Agenzia per l’innovazione



Parità di genere in azienda, Female,System,Engineer,Controls,Operational,Proceedings.,In,The,Background,Working

L’adozione dell’intelligenza artificiale comporta una riorganizzazione del mercato del lavoro: la domanda di capacità nell’uso degli strumenti nuovi che essa mette a disposizione deve diventare un obiettivo delle politiche di formazione pubblica così come è diventata uno degli obiettivi del training on the job.

La rappresentatività del sindacato e delle organizzazioni datoriali è assai bassa nei settori del digitale, dei servizi di rete e ancor più lo sarà per imprese e lavoratori che si occupano di intelligenza artificiale.

Una tendenza che va necessariamente invertita.

Lavoro precario e tecnologie: cause ed effetti

Da diversi anni la perdita di potere del sindacato e dei lavoratori dipendenti è attribuita all’allargamento della quota di precari dotati di minori tutele contrattuali. Quale ne sia la causa, l’indebolimento ha portato nei decenni del nuovo millennio ad una forte riduzione della dinamica salariale nei paesi industrializzati, in alcuni casi alla perdita di potere d’acquisto (riduzione del salario reale). Ciò contrasta con quanto accadde in tutti i paesi dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando i sindacati si erano rafforzati, il welfare era stato potenziato, la disoccupazione si era costantemente ridotta fino agli anni Settanta.

L’esplosione della grande inflazione fu innescata dalla crisi petrolifera del 1973, con l’improvvisa quadruplicazione del prezzo del petrolio, ma fu alimentata dalla capacità del sindacato di opporsi ad una rapida riduzione del salario reale. L’aumento del tasso di interesse, aumentando la disoccupazione, riduceva il potere contrattuale dei lavoratori e dei sindacati.

Questo meccanismo di feedback oggi non esiste più o quantomeno si è molto indebolito: le critiche più acute alle politiche di aumento dei tassi di interesse per contenere l’inflazione tengono conto di questo nuovo contesto[1]. Oggi sono più i profitti e le perdite di efficienza determinate dall’enorme intervento pubblico, che causano l’aumento dei prezzi, mentre i salari, riducendosi in termini reali, contribuiscono al contenimento dell’inflazione anche senza l’aumento dei tassi di interesse.

I settori caratterizzati da elevato utilizzo delle nuove tecnologie presentano un tasso di sindacalizzazione inferiore ai tradizionali settori industriali e richiedono una maggiore flessibilità del lavoro: i contratti si sono modificati e le leggi li hanno accompagnati, rendendo il rapporto di lavoro complessivamente più flessibile e precario.

La ricetta del salario minimo da associare alla eliminazione delle forme ingiustificate di flessibilità è stata avanzata per contrastare questo indebolimento della posizione dell’offerta sul mercato del lavoro.

Oggi, la nuova ondata di innovazioni tecnologiche, connesse allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, minaccia i livelli di occupazione, secondo alcuni osservatori. Influenzati dalle previsioni sempre ottimistiche delle grandi società di consulenza che vedono rosa ad ogni svolta innovativa e immaginano “disruption” dei vecchi modelli di business e l’avvio di nuove autostrade per i profitti futuri con l’adozione generalizzata delle nuove tecnologie, i pessimisti vedono il lato oscuro di questo processo con il ritorno in scena dell’antico fantasma della disoccupazione tecnologica.

Intanto la crisi demografica di molte società avanzate riduce rapidamente la nuova offerta di lavoro, con un effetto di rendere scarsa la disponibilità di lavoratori ai vari livelli, sia nei servizi ad elevato contenuto di lavoro, sia in quelli che richiedono nuove capacità professionali connesse allo sviluppo, all’applicazione, all’utilizzo degli strumenti di intelligenza artificiale.

Il lavoro cambia, ma non come credevamo

Il mercato del lavoro, dopo la rapida ripresa successiva alla crisi pandemica, ha continuato ad essere favorevole all’occupazione, in quasi tutti i paesi industrializzati. Si temeva una disorganizzazione dei cicli produttivi e una destabilizzazione delle relazioni industriali, con difficoltà di ricomporre l’incontro tra domanda e offerta.

In diversi paesi, gli occupati lavorano ancora, nel primo trimestre del 2023, meno ore rispetto all’ultimo trimestre del 2019, ossia rispetto a prima della pandemia e della guerra in Ucraina. Ma vi sono paesi dove si lavora di più, tra questi c’è l’Italia (vedi figura 1). Non si assiste ad una riorganizzazione faticosa, ma ad un processo di aggiustamento progressivo.

Figura 1. Ore lavorate in media: variazione tra Q4 2019 e Q1 2023. Fonte OECD[2]

Si temeva che gli adulti avrebbero patito dopo la fine della pandemia, anche per lo spostamento della domanda di lavoro verso i giovani, più preparati nell’utilizzo delle tecnologie e dei servizi online. Si era sviluppata la paura che la pandemia potesse portare i giovani a scegliere lavori meno impegnativi o faticosi o addirittura a rinunciare al lavoro fisso a favore di soluzioni di ripiego, magari on line. Si temeva un rifiuto del lavoro stabile e un rifugio nel precariato on line che avrebbero ridotto l’offerta di lavoro, causa delle incertezze e della paure sulle condizioni di salute e le difficoltà nella mobilità.

Ma così non è stato: i tassi di inattività della popolazione in età da lavoro (15-64 anni) sono scesi nella maggior parte dei paesi. La gente è più disponibile di prima a lavorare: in media dell’uno per cento, cifra assai simile a quella registrata dall’Italia. Né c’è stato un effetto di anticipo del pensionamento, come si era temuto, soprattutto negli Stati Uniti[3]. Sia il Regno Unito, gli Stati Uniti con i dati più recenti, sia l’area euro, sia l’Australia non registrano riduzioni dell’offerta di lavoro[4].

Si temeva anche che il deterioramento iniziale della posizione delle donne, potesse essere permanente, ma anch’esso si è dimostrato transitorio, mentre si riduceva anche la percentuale di part time involontario tra i nuovi assunti, che pure in Italia rimane tra le più elevate.

L’occupazione ha continuato a salire, dopo la caduta determinata dalla pandemia: nel 2022 ha superato il livello di fine 2019 e nel primo trimestre del 2023 ha manifestato incrementi che sono del 3,5% sopra il livello del 2019 per le donne e del 2,5% per gli uomini. In alcuni settori (sanità, welfare, assistenza al cliente) la quota di occupazione on line, nell’ambito dei nuovi assunti è più che raddoppiata, in particolare negli Stati Uniti, ma anche in Canada e nel Regno Unito.

Si paventava anche una ulteriore precarizzazione, ovvero una perdita di posti di lavoro stabili a favore di lavori temporanei. Si è verificato il contrario, come ha annunciato con enfasi il governo. Anche se va ricordato che in altri paesi (Spagna Norvegia Slovacchia, Irlanda) il fenomeno è ancora più marcato.

Uno dei dati più interessanti, che purtroppo in Italia manca a causa del disastroso sistema di collocamento del nostro paese, è la rilevazione dei posti disponibili, che viene rapportata al numero dei disoccupati. Si ottiene così la disponibilità di posti vacanti per ogni disoccupato. La scarsità di disponibilità di manodopera, che negli Stati Uniti provoca crescente preoccupazione tra gli imprenditori e tra le autorità locali, ha ragioni reali: erano 1,2 posti disponibili per ogni disoccupato a fine 2019 e sono saliti a 1,8 nell’ultimo trimestre del 2022 con un aumento del 50%. La Germania, per prendere il maggiore stato dell’area euuro, aveva 0,5 posti disponibili per disoccupato ed ora ne ha 0,6. La media OCSE era di 0,4 e sale a 0,6. Non mancano i posti di lavoro, manca la possibilità di far incontrare le caratteristiche e le aspettative delle nuove leve con le professionalità e le condizioni offerte per i nuovi posti di lavoro.

Inflazione, disoccupazione, salari

L’inflazione di oggi è determinata da vari fattori.

Il primo e più antico è dovuto alla competizione tra paesi occidentali e Cina sui prodotti tecnologici e sulle materie prime, che ha portato ad una parziale dis-integrazione delle loro economie, con perdite di efficienza, ritardi nelle consegne e pressioni sui costi dei prodotti disponibili sul mercato per il consumatore finale. La seconda causa è la pandemia, con una ulteriore ondata di aumenti di costo dovuti a restrizioni, maggiori controlli, limitazioni nella mobilità delle merci e delle persone. L’effetto della pandemia si è manifestato in forme classiche di carenza di merci e servizi sui mercati, con l’effetto di accrescere i prezzi finali. La guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina ha comportato ulteriori rincari delle materie prime, aumento dei costi dei noli e dei viaggi, aumento dei flussi migratori intraeuropei e verso l’Europa, con un aumento dei costi dei servizi e una pressione sui prezzi delle materie prime connesse all’economia di guerra, in primis quelli energetici. Infine l’intervento dello Stato, a volte necessario e spesso semplicemente in cerca di voti, produce un’immissione di liquidità accompagnata da una perdita di efficienza dei mercati.

Le pressioni inflazionistiche che hanno fatto quintuplicare nell’area OCSE la crescita annuale dei prezzi da meno del 2% del gennaio 2021 a oltre il 10 dell’ottobre 2022, si stanno attenuando. A maggio 2023 l’inflazione era sotto il 7% annuo. Nella media i salari reali, ossia al netto dell’effetto inflazione, sono caduti poiché quelli monetari non sono cresciuti come l’inflazione, e quindi i lavoratori hanno perso potere d’acquisto. Il recente studio dell’OCSE dimostra che tra i maggiori paesi europei l’Italia è quello dove i salari reali si sono ridotti in misura maggiore tra la fine del 2019 (prima della pandemia) e la fine del 2022, con una contrazione di quasi il 7%.

Ma l’Italia è anche un paese dove le aliquote fiscali sono particolarmente elevate e

Figura 2. Paesi OECD (4° trimestre 2019 – 4° trimestre 2022):

Variazione salari orari nominali (colore scuro) e reali (colore chiaro)

dove la progressività miete ulteriormente il potere d’acquisto, che si misura al netto delle tasse, per effetto del cosiddetto fiscal drag. Esso è determinato dall’aumento dell’incidenza del prelievo per il solo effetto che con l’inflazione l’aliquota fiscale cresce anche senza che cresca il potere d’acquisto. Lo Stato lucra sull’inflazione, mentre i percettori di redditi perdono, anche per questo motivo, una parte del loro potere d’acquisto.

Il recente studio del Fondo Monetario Internazionale scompone i fattori che spingono sull’inflazione: i profitti (in rosso nella figura 3) sono diventati, dopo la pandemia, il fattore più importante[5].

Figura 3. Contributo alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo (punti percentuali)

La maggiore spinta sull’inflazione viene oggi dai profitti: essi sono sostenuti dal rallentamento dei salari, da un lato, e dalle crescenti inefficienze, comprese le nuove rendite, che si sono create con il disordine nei mercati internazionali e con quello creato dagli interventi pubblici.

Il lavoro e l’intelligenza artificiale

In un mercato del lavoro che appare molto debole in termini retributivi e abbastanza sostenuto in termini occupazionali, a differenza di quanto è avvenuto nel secolo scorso, le ricerche tendono ad attribuire il maggior rischio occupazionale, dovuto all’introduzione dell’intelligenza artificiale ai lavoratori “colletti bianchi” come si chiamavano nel dopoguerra, ossia ai lavoratori non manuali con professionalità “di concetto”, si direbbe nel gergo della pubblica amministrazione italiana.

L’OCSE propone una griglia in cui alcune figure professionali di livello medio alto: manager, addetti alla ricerca e all’ingegneria, addetti a finanza e amministrazione, hanno un’esposizione elevata, superiore al 75%, mentre meno esposti risultano i lavoratori manuali, con un’esposizione compresa tra il 25 e il 50%.

Figura 4 a. Lavori più esposti agli effetti dell’AI

Figura 4 b. Lavori meno esposti agli effetti dell’AI

Le aziende tendono comunque ad assumere più persone dotate di capacità di utilizzare gli strumenti dell’intelligenza artificiale ancor prima dell’effettiva adozione di quegli strumenti: i più qualificati in queste professionalità tenderanno a trovare lavoro più facilmente e a vederlo meglio pagato rispetto alla media. D’altra parte, le stesse aziende assumeranno meno lavori di qualificazione intermedia, che possono essere sostituiti in buona misura dagli strumenti di intellighenzia artificiale.

La fine della pandemia ha avvicinato le aspettative dei lavoratori e dei datori di lavoro per quanto riguarda il lavoro on line: le aziende si sono organizzate meglio e intendono risparmiare risorse nell’affitto degli uffici, mentre i lavoratori sono più disponibili a tornare sul posto di lavoro, rispetto alla fase dei lock down. La Figura 5 dimostra come le aspettative rispetto alle ore svolte in remoto si siano avvicinante fino alla fine del 2022 e forse oggi comincino a divaricarsi nuovamente, con una minore disponibilità da parte degli imprenditori e una maggiore disponibilità da parte dei lavoratori.

Soprattutto in questi anni di innovazione affidata in larga misura al venture capital, le antiche forme della rappresentanza sembrano destinate a rimanere sullo sfondo lontano. Le aziende gestiscono i contratti di lavoro  in modo personalizzato: alcune ricerche hanno dimostrato che il premio per i lavoratori con cognizioni di intelligenza artificiale è dell’11% nell’ambito della stessa azienda e del 5% nell’ambito della stessa qualifica lavorativa[6].

Conclusioni

Una collaborazione più stretta tra formazione pubblica e training on the job sembra, oggi, la strada più promettente per rispondere ad una crisi di offerta di competenze che già si manifesta con forza nei mercati più dinamici, come negli Stati Uniti. Occorre che le politiche di formazione pubblica puntino l’attenzione sui lavoratori più anziani, quelli che hanno meno competenze di intelligenza artificiale e che fanno più fatica ad acquisirle. Occorre che quelle politiche investano, con l’istruzione pubblica, per dotare di conoscenze adeguate le nuove leve che escono dal sistema scolastico e universitario. Ma occorre soprattutto rilanciare un dialogo sociale nuovo, diverso da quello tradizionale del rapporto sindacati-datori. Si tratta di andare a livello delle singole realtà produttive offrendo, da parte pubblica, gli strumenti per creare la sinergia necessaria tra formazione pubblica e il training on the job, sostenendo in modo efficace gli accordi di formazione a livello aziendale e di settore e i programmi di ricollocamento della manodopera più anziana[7].

Note


[1]) Renato Brunetta, L’inflazione si combatte con più concorrenza e migliore regolazione, Huffington Post 14 luglio 2023.

[2]) Satoshi Araki, Sandrine Cazes, Andrea Garnero, Andrea Salvatori, OECD Employment Outlook 2023: Artificial Intelligence and The Labour Market, OECD, 2023.

[3]) Faria-e-Castro, M. (2021), The COVID Retirement Boom, Economic Synopses, Vol. 2021/25, pp. 1-2,.

[4]) Per gli Stati Uniti: Thompson, D. (2022), Did COVID-19 Change Retirement Timing?, United States Census Bureau, https://www.census.gov/library/stories/2022/09/did-covid-19-change-retirement-timing.html. Per il Regno Unito: Murphy, L. and G. Thwaites, Post-pandemic participation, Resolution Foundation, London. 2023. Per l’area euro: Botelho, V., M. Weißler, COVID-19 and retirement decisions of older workers in the euro area, Economic Bulletin Boxes, No. 6, 2022, European Central Bank. Per l’Australia: Agarwal, N., J. Bishop (2022), COVID-19 Health Risks and Labour Supply, Bulletin, Reserve Bank of Australia, March 2022. https://www.rba.gov.au/publications/bulletin/2022/mar/pdf/covid-19-health-risks-and-labour-supply.pdf.

[5]) Niels-Jacob H Hansen, Frederik G. Toscani, Jing Zhou, Euro Area Inflation after the Pandemic and Energy Shock: Import Prices, Profits and Wages, IMF Working Papers, June 23, 2023.

[6]) Alekseeva, L. et al. The demand for AI skills in the labor market, Labour Economics, Vol. 71, 2021.

[7]) Fernando Korn Malerbi, Luis Filipe Nakayama, Robyn Gayle Dychiao, Lucas Zago Ribeiro, Cleva Villanueva, Leo Anthony Celi , Caio Vinicius Regatieri, Digital Education for the Deployment of Artificial Intelligence in Health Care, Journal of Medical Internet Research, vol 25 2023.

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