Il mercato della conservazione digitale rischia di subire un freno, nonostante i proclami relativi al principio del “digital first” che dovrebbe animare le modifiche al Codice dell’amministrazione digitale che si stanno discutendo in questi mesi. Proviamo a comprendere cosa sta succedendo, partendo prima di tutto da una valutazione critica di alcune modifiche contenute nello Schema di decreto legislativo recante modifiche e integrazioni al Codice dell’amministrazione digitale, attualmente in discussione nelle competenti commissioni di Camera e Senato. Le Associazioni ANORC (Associazione Nazionale per Operatori e Responsabili della Conservazione digitale) e ANORC Professioni sono state chiamate, anche in quest’occasione, a fornire un proprio contributo critico sul “nuovo CAD” e hanno espresso in modo netto le proprie preoccupazioni durante gli ultimi incontri istituzionali tenutisi in questi giorni.
In particolare, abbiamo espresso forte perplessità in relazione alla possibilità prevista dal nuovo CAD che i privati non conservino più obbligatoriamente i propri documenti qualora gli stessi siano presenti nell’archivio di una PA. Si fa riferimento, in particolare, a quanto previsto con l’introduzione del nuovo comma 1 bis all’art. 43, con il quale il Governo ha stabilito che “se il documento informatico è conservato per legge da una pubblica amministrazione, cessa l’obbligo di conservazione a carico dei cittadini e delle imprese che possono in ogni momento richiedere accesso ai sensi delle regole tecniche di cui all’articolo 71”. Tale articolo è stato già oggetto di aspre critiche da parte di ANORC (che aveva peraltro formalmente invitato il Dipartimento della Funzione Pubblica a modificare quanto proposto per evitare pericolose distorsioni nei rapporti PA/cittadino), laddove l’apparente semplificazione che si vuole introdurre con lo stesso – oltretutto non contemplata in alcun modo dal Regolamento eIDAS, la cui necessaria applicazione nel nostro ordinamento ha spinto il legislatore a ritenere necessarie le ennesime modifiche alla normativa contenuta nel CAD – spingerebbe il cittadino a non possedere prova dell’esistenza di un documento che lo riguarda, confidando che esso sia correttamente conservato dall’amministrazione pubblica la quale, però, ancora troppo spesso non possiede i sistemi e le procedure idonee a garantire la conservazione corretta e sicura dei documenti. Inoltre, se anche si volesse davvero supporre che tutte le PA oggi abbiano sviluppato al loro interno dei sistemi di conservazione a norma di legge, allora si dovrebbe sempre e comunque assicurare da subito la possibilità per il cittadino di estrarre esemplari in originale garantiti dal sigillo della PA, in modo da assicurargli davvero la facoltà di “possedere” i propri documenti digitali: diversamente si comprimerebbe di fatto il diritto dei cittadini di acquisire i documenti di cui essi rimangono titolari, degradando tale diritto a una semplice facoltà di accedere a dati non garantiti e non controllabili. Questa previsione è, quindi, senz’altro pericolosa per i diritti dei cittadini e rischia di far ritenere non più obbligatoria la conservazione documentale per il mondo privato, bloccando un mercato, quello dei fornitori dei servizi di conservazione, che invece – con fatica – si sta sviluppando molto in questi anni.
A questo si aggiunga che risultano molto pericolose per il mondo della conservazione digitale anche le modifiche previste dallo Schema all’art. 44, le quali confondono gli ambiti della gestione documentale e della conservazione digitale, tanto che anche il Consiglio di Stato, nel suo parere sullo Schema – addentrandosi come mai prima d’ora in una materia come quella della conservazione, e probabilmente proprio tenendo in considerazione quanto autorevolmente sostenuto dagli esperti del settore – ha commentato criticamente le modifiche all’art. 44 del CAD, con le quali vengono distinte le funzioni relative alla gestione dei documenti informatici da quelle relative alla conservazione di questi ultimi. Il Consiglio di Stato, come già osservato da ANORC e ANORC Professioni, si è chiesto come mai si voglia abrogare la disposizione relativa al sistema di conservazione lasciando imprecisati i requisiti e le modalità attraverso le quali svolgere la conservazione dei documenti informatici, facendo sì che una materia così delicata rimanga di fatto regolamentata solo dalla normativa secondaria (le Regole tecniche attualmente in vigore sono state approvate con DPCM 3 dicembre 2013), senza che i suoi principi generali trovino una corretta identificazione all’interno della normativa primaria.
A questi rischi generati da improvvide modifiche al CAD, si aggiunge in questi mesi un modus operandi piuttosto avventato da parte delle PA nell’affidamento di servizi (molto delicati e complessi) relativi alla conservazione. Se da una parte non c’è ancora una reale consapevolezza da parte di molte PA in merito all’importanza di conservare “a norma” i propri documenti amministrativi, dall’altra alcune di esse tendono letteralmente a “saltare” regole basilari della libera concorrenza che dovrebbero portarle invece a decidere, con procedure trasparenti, di affidare il proprio sistema di conservazione “in outsourcing” solo a conservatori accreditati da AgID, come la normativa in vigore attualmente prevede. È quanto denuncia in questi giorni la Coalizione ANORC–AIFAG dei Conservatori Accreditati – che raccoglie attualmente più di 30 aziende accreditate dall’AgID e operanti in Italia nella conservazione documentale –, la quale ha posto in essere un’importante azione concreta a tutela del proprio mercato di riferimento per fermare quello che appare a tutti gli effetti un abuso degli accordi fra PP.AA., utilizzati come escamotage giuridico per derogare sempre più spesso alle regole di concorrenza e trasparenza del mercato. Lo scorso 14 luglio, infatti, ANORC ha depositato a nome della Coalizione un ricorso presso l’Autorità Garante della Concorrenza e il Mercato, curato dall’avv. Fulvio Sarzana dello Studio legale di Roma Sarzana ed Associati: lo scopo è quello di verificare se in alcuni casi l’assegnazione dei servizi di conservazione e archiviazione informatica da parte di diverse Pubbliche Amministrazioni Italiane sia avvenuta realmente nel rispetto dei principi dell’evidenza pubblica e della concorrenza, sanciti dal nostro ordinamento e da quello dell’Unione europea.
Già nei mesi scorsi la Coalizione ANORC – AIFAG aveva richiamato l’attenzione sulla possibile irregolarità di condotta di alcuni soggetti partecipati da enti pubblici e di taluni poli archivistici regionali, che eludendo la normativa sulle procedure aperte di selezione del contraente e fornendo servizi al di fuori dei limiti territoriali in cui sarebbero tenuti a operare alla luce delle norme che li istituiscono, agiscono ledendo i principi di concorrenza. Il progressivo diffondersi di queste pratiche scorrette e il timore che le stesse potessero assurgere al rango di prassi consolidata e accettata ha imposto alla Coalizione di prendere alcune contromisure, prima tra tutte quella di richiedere l’intervento dell’Antitrust. Da qualche tempo, infatti, l’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali dell’Emilia-Romagna, per il tramite del PARER (Polo Archivistico Regionale dell’Emilia-Romagna), sta procedendo alla sottoscrizione di accordi con Enti e Amministrazioni locali (anche al di fuori del territorio della Regione Emilia Romagna) per l’erogazione del servizio di conservazione dei documenti informatici. Questi accordi, che hanno ad oggetto servizi economicamente contendibili, eludono di fatto l’obbligo di indire procedure concorsuali a evidenza pubblica per la fornitura del servizio e hanno fatto sorgere in più di qualche operatore del mercato il dubbio che ci fosse in atto un pericoloso disallineamento con la normativa in tema di affidamento dei contratti pubblici. Questa forma di pseudo-contrattazione integra, a parere della Coalizione, un’illegittima erosione di fette di mercato, sottraendo i servizi di conservazione alla dinamica concorrenziale (la gara pubblica), e impedendo agli operatori economici del settore (ai quali è stato peraltro chiesto di sottoporsi a una procedura di accreditamento gravosa in termini di costi e di adeguamento delle procedure) di poter partecipare a gare d’appalto e aspirare così all’ottenimento delle relative commesse in un contesto di libero contendimento dell’aggiudicazione dei servizi da erogare in favore delle PP.AA., nel rispetto dei principi di imparzialità, trasparenza, tutela della concorrenza e delle procedure di evidenza pubblica.
Se si ammettesse, infatti, come consuetudine lecita l’accordo tra pubbliche amministrazioni avente ad oggetto un determinato servizio economicamente contendibile, quindi concretamente erogabile da un operatore economico, si potrebbe produrre una dannosa deriva del mercato. In particolare gli operatori economici nazionali si troverebbero ostacolati dalla stessa pubblica amministrazione per l’utilizzo illegittimo di convenzioni ex art. 15, L.241/1990 e svantaggiati, ad esempio, rispetto agli operatori economici che operano in altri Paesi dell’Unione europea in cui non è prevista questa possibilità. A parere della Coalizione dei conservatori accreditati, l’attività posta in essere e oggetto di ricorso all’Antitrust rappresenta una distorsione delle regole della concorrenza, perché abusando formalmente dell’istituto delle convenzioni per favorire una reale “cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi” (come prevede l’art. 15 della Legge 241/90), viene di fatto impropriamente mascherato un semplice contratto di diritto comune ex art. 1321 cod. civ. (la cui stipula, quindi, a partire dalla scelta del contraente, dovrebbe secondo la legge essere presidiata da tutte le garanzie previste per le procedure di evidenza pubblica).
Ci si augura quindi che in seguito a questa azione l’AGCM fornisca un chiaro segno interpretativo delle regole del mercato e più in generale della concorrenza, sperando inoltre che lo stesso giunga prima che si produca una deviazione irreversibile e assai dannosa per la nostra economia. Ancora disseminata di ostacoli, quindi, sembra essere la strada che porta alla garanzia di una memoria digitale che duri nel tempo, meta destinata a rimanere irraggiungibile se non si comprende che non si può disegnare nessun processo di digitalizzazione senza aver anche pensato alle strategie di conservazione, perché sarebbe come costruire un edificio senza aver pensato alle sue fondamenta. Speriamo che il contributo critico degli esperti della digitalizzazione contribuisca a invertire questa rotta.