Antitrust

La causa del Governo Usa contro Google può cambiare le big tech: ecco perché



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Google è accusata dal Governo Usa di aver violato le norme Antitrust, abusando del suo potere di mercato per contrastare la concorrenza e intimidire i partner commerciali per proteggere il suo monopolio. Questo è un caso cruciale per creare un importantissimo precedente per le nuove piattaforme web che si prestano ad acquisire un potere di…

Pubblicato il 15 set 2023

Federica Giaquinta

Consigliere direttivo di Internet Society Italia



google-android

I giganti della tecnologia sono diventati davvero dominanti infrangendo la legge? È questa la domanda a cui dovranno rispondere i tre potenti studi legali assunti da Google nel quadro del primo processo voluto dal Governo federale di Washington contro Google, accusata di aver violato le norme Antitrust, abusando del suo potere di mercato per contrastare la concorrenza e intimidire i partner commerciali al solo fine di proteggere il suo monopolio.


La causa del Governo Usa contro Google: i possibili scenari

Si tratta di un eclatante caso che – a detta di molti – potrebbe addirittura cambiare le sorti dei giganti della Silicon Valley tanto da correre il rischio di riscrivere lo sviluppo del futuro ecosistema di internet e del modo con cui i consumatori avranno accesso alle informazioni sulla rete: infatti, qualsiasi sentenza emessa dal processo potrebbe avere ampi effetti a catena, rallentando, o potenzialmente smantellando, le più grandi società del web dopo decenni di crescita sfrenata. Se Google perdesse la sua battaglia legale sarebbe perciò costretta a rivalutare le sue opzioni di sistema e aprire le porte a una concorrenza più larga, al punto da subire, come possibile contraccolpo, una contrazione significativa del numero di utenti, minori profitti diminuiti e forse addirittura limiti sull’evoluzione delle prospettive tecnologiche emergenti che la big tech di Mountain View sta cercando di testare e innovare con la sperimentazione di nuovi sistemi di intelligenza artificiale.

Di contro, se dovesse prevalere la tesi del Governo federale, a riceverne i principali vantaggi sarebbero le stesse norme Antitrust che sarebbero così autorizzate – e legittimate – a frenare in modo particolarmente incisivo tutti gli spazi di manovra concessi alle Big Tech.

Una nuova fase per la “battaglia antitrust” contro le big tech

Il processo, infatti, sposta la “battaglia antitrust” a una fase nuova, in cui non solo il più importante motore di ricerca, ma, più in generale, anche gli stessi colossi del web, tramite il loro potere, riescono ad influenzare e ridisegnare le regole del gioco incidendo sul commercio, sulla libertà di informazione, ma anche sull’intrattenimento e sul lavoro.
Ed è per tali ragioni che si accusa, quindi, Google: per aver pagato i maggiori produttori di smartphone al fine di inserire “da default” il proprio motore di ricerca nei propri dispositivi, ma anche, e soprattutto, di aver creato concretamente un monopolio di fatto, in grado di aver fortificato a livello mondiale il nome “google”, ormai convenzionalmente associato dalla generalità degli utenti alle attività di ricerca su internet.

Il precedente di Microsoft

In realtà un caso così importante sul potere tecnologico non si verificava dai tempi in cui il Dipartimento di Giustizia portò, già venticinque anni fa, in tribunale Microsoft per violazioni antitrust. Nel 1998 infatti Microsoft venne accusata di pratiche monopolistiche per aver inserito Internet Explorer di default nel sistema operativo Windows al fine di tagliare fuori la concorrenza (incluso Netscape Navigator). Con la differenza, tuttavia, che mentre Microsoft veniva accusata di controllare tutto il sistema, Google, oggi, è accusata di aver stretto accordi (da 45 miliardi di dollari l’anno) per convincere vari produttori di smartphone, come Apple, a inserire il motore di ricerca Google in automatico tra le proprie applicazioni preinstallate. Senza considerare, inoltre, che il caso Microsoft esplose in un momento in cui, tra l’altro, l’alta marea dell’euforia iniziale di internet – cui tutti puntavano – rifletteva anche la caratura di un personaggio come Bill Gates che considerava le accuse come un attacco personale.
Di sicuro, oggi, la posta in gioco è particolarmente alta per la società della Silicon Valley fondata nel 1998 e che è cresciuta fino a diventare un gigante da 1,7 trilioni di dollari. Ed è per questo che la compagnia di Mountain View non perde tempo e si difende sostenendo sia che le sue partnership con aziende come Apple o Samsung siano legittime e che i consumatori possano cambiare il loro motore di ricerca predefinito rapidamente e con facilità – oltre agli automatici collegamenti già disponibili sul browser Safari in cui gli utenti possono trovare ulteriori servizi come Bing, il motore di ricerca di Microsoft, o Wikipedia – sia che il governo abbia utilizzato volontariamente una legge antitrust in modo nuovo per punire l’azienda solo a causa della sua popolarità.

Un momento cruciale per il futuro delle piattaforme


Tanto che – come ha affermato – Laura Phillips-Sawyer, docente di diritto antitrust presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università della Georgia “questo è un caso cruciale e un momento per creare un importantissimo precedente per queste nuove piattaforme che si prestano ad acquisire un potere di mercato reale e duraturo”.
A ciò si aggiunge poi, a titolo di cronaca, l’ulteriore presa di posizione del Dipartimento di Giustizia USA che ha intentato una seconda causa contro Google per le sue politiche commerciali di marketing profilato legato alle azioni pubblicitarie che potrebbe essere incardinata per l’avvio dell’iter giudiziario già il prossimo anno, oltre ad un’altra azione condotta da un gruppo trentacinque Stati che l’hanno accusata di aver bloccato la concorrenza nel suo app store Google Play.
Inoltre, parallelamente, la Federal Trade Commission, si sta muovendo per intentare ulteriormente una causa antitrust contro Meta, accusando l’azienda di avere già violato una serie di tutele della privacy dei minori, tra cui il Children’s Online Privacy Protection Act, proponendo modifiche radicali alle modalità di funzionamento di Meta e contribuendo ad alimentare il crescente contenzioso contro le Big Tech.

Conclusioni


In ogni caso, rispetto alla vicenda riportata nei confronti dell’azienda di Mountain View, è senza dubbio innegabile che, indipendentemente di quale sarà l’epilogo della controversia, il reale “monopolio” delle Big Tech sembra legato all’utilizzo sempre più pervasivo della raccolta dati finalizzato a mappare le informazioni personali per vendere spazi pubblicitari e orientare le ricerche in base ai “gusti” espressi dagli utenti; dietro le pagine consultate si annida un enorme mercato di informazioni in grado di filtrare i contenuti che – quando non controllati – aumentano i processi di disinformazione e di isolamento.

Le bolle di filtri contribuiscono infatti all’affermazione di un pensiero che non trova spazi di condivisione e dibattito. “Google non è uguale per tutti” (citazione coniata dall’attivista internet Eli Pariser nel suo libro The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You) e se questo è il reale problema ascrivibile alla configurazione di una piattaforma sempre meno trasparente, sarà forse grazie a questa causa antitrust avviata dal Governo Federale che potranno magari cambiare le regole del gioco?

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