Secondo un paper [1] i ragazzi americani tendono a non definire bullismo pratiche che gli adulti chiamerebbero tali. Il motivo addotto nella ricerca è da rintracciare nel fatto che preferiscono dare un connotato meno passivo al tutto. Non solo, per evitare di chiamare le truppe anti-bullismo scolastiche, triggerate se qualcuno pronunciasse le b word, ma sorde a tutto il resto, scelgono di usare lo slang drama.
Ricontestualizzare il concetto di bullismo
Per contestualizzare questa discrasia nelle definizioni di un fenomeno così complesso, partiamo da due domande: perché gran parte dei corsi e dei programmi antibullismo sono inefficaci? E quante volte a scuola quando veniva proposto l’ennesimo workshop o lavoro sul cyberbullismo e i ragazzi ponevano l’accento proprio su quell’ennesimo, come a sottolineare la noia del solito argomento trito e ritrito perché “tanto capita ad altri”?
Eppure, non si rendevano conto di inscenare spesso comportamenti aggressivi contro il debole di turno, subendo alle volte il ruolo di vittima.
Il punto è che va ricontestualizzato il concetto di bullismo, altrimenti si tende sempre a far rientrare nel problema solo isolati casi di persecuzione sistematica sui social, volti alla stigmatizzazione ed emarginazione del soggetto (minore).
Al contrario si possono intendere come fenomeno carnefice-vittima anche situazioni in cui la vittima sembra il soggetto apparentemente dominante; in cui magari è il docente il bersaglio; o dove il carnefice non agisce nei modi consueti e facilmente identificabili, ma con strumenti più passivi e subdoli, difficili da rendicontare, ma che portano in ogni caso all’isolamento dell’individuo-vittima, incapace di descrivere la situazione di emergenza: l’effetto è il suo inevitabile passare per paranoico.
Queste situazioni non sono isolate, anzi, sono quelle prototipiche per i casi in cui occorrerebbe intervenire, senza parlare solo di bullismo e cyber-bullismo. Perché nella quotidianità dei ragazzi questi termini non esistono, quindi innanzitutto cerchiamo di definire diversamente il problema. Chiamiamo diversamente l’aggressività sociale e la violazione della privacy, nonché la stigmatizzazione.
Da bullismo a drama
Prendiamo un soggetto che grida aiuto, in modo esplicito o implicito. Gli altri come definiscono questa richiesta? Richiesta di attenzioni? Auto-isolamento? Timidezza? “E’ fatt* così”? Anche se il bullo vero e proprio, quello da manuale, con il cappellino da basket e la sigaretta, non è rintracciabile, bisogna concentrarci sul fatto che la persona, comunque, si sente male e quindi bisogna risolvere a prescindere da tutto la situazione. La faccenda spesso è costellata di piccoli sgarbi, quasi mai unilaterali, incomunicabilità, incomprensioni a catena di cui non si sa la fonte e voglia di avere ragione e di dimostrare di essere la vittima o di non esserlo, accusando chiunque mostri too much drama di essere un rompi…
Ed eccoci arrivare allo slang “drama”.
Nel dizionario la parola viene definita come “voci, menzogne o reazioni esagerate agli eventi della vita; melodramma; una disputa o una scena arrabbiata; intrighi o manovre interpersonali dispettose”. O ancora “creare stress inutili per cose non importanti. Fare una montagna di una talpa per attirare l’attenzione.” In effetti drama queen e attention whore vanno di pari passo. E diciamo che lasciano allo scoperto un altro nervo del problema: maschilismo. La vittima che drammatizza e cerca attenzioni teatrali è sempre legata al femminile e per questo svalutata, come portatrice di emozioni false, di poco conto, reazioni di cui vergognarsene.
Sfumare la distinzione tra frivolo e serio
Drama è tutta una pletora di azioni che vanno dall’inganno al gossip, condotte di fronte a un pubblico, online o offline, sui social o a un party. Si sceglie drama con l’intento di sminuire il concetto di ostracizzazione e gelosia, e dargli una veste meno adulta e a lungo termine soprattutto. Fa del drama, o i genovesismi “aver avuto uno scioppun de futta” o “fare la belina” (di nuovo al femminile). Insomma l’intento è sempre sfumare la distinzione tra frivolo e serio, per gestirsi il conflitto senza l’intromissione degli adulti, salvando la faccia dallo stigma del bullo e della vittima, entrambe etichette cariche di conseguenze a lungo raggio, che non danno spazio alla vittima e al carnefice di uscire più da quel ruolo. E invece se non si nomina il problema, sembra che chiunque possa scappare, cambiare identità, cambiare classe sociale, fingere di non aver mai appartenuto a quella del lumpenproletariat, ma aver sempre fatto parte dei potenti. Il censimento non fa mentire, e ricorda di stare al proprio posto, per sempre. Questo fa capire che il problema del bullismo è stato trattato fino ad ora nel modo più inappropriato, se i ragazzi preferiscono essere bullizzati che essere definiti bullizzati.
In italiano non riesco a trovare un corrispettivo di drama. Mi sono domandata se anche in Italia i ragazzi preferissero descrivere come “rompi*****”, vittimista, pettegolo, competitivo, provocatore, troll, hater, evitando le categorie bullizzato e bullo. Ho svolto un sondaggio veloce tra i miei contatti di Instagram, lasciando alcune risposte, la loro fascia di età e la possibilità di aggiungere qualifiche per un soggetto che “cerca conflitti sotto i post”. Le opzioni sono bullo, provocatore, troll, hater. Il 47% ha scelto provocatore, il 26 troll, il 21 hater e solo il 5 bullo. Provocatore è stato scelto da contatti in media più giovani; hater e troll circa la media è simile, leggermente più bassa per troll. Infine bullo è stato scelto da un mio alunno di qualche anno fa. Certo, non si può dire che si tratti di uno studio scientifico. Anche questi effimeri risultati mostrano comunque che le persone evitano la definizione di bullo. Allora, forse, bisogna approcciare con altre parole quando si ha a che fare con bullismo e cyber-bullismo.
Il bullismo, del resto, è questione molto delicata e complessa: è necessario riequilibrare il campo di forze, senza avere l’ansia, secondo il mio punto di vista, di scovare in modo rigido i profili del bullo e del bullizzato. Perché non sperimentare varie tecniche (sempre con divertimento, perché i ragazzi non sentano la pressione del poliziotto, nemmeno di quello buono, e non percepiscano l’ennesimo corso sul cyberbullismo) per agire sui soggetti tutti, incentivando empatia reciproca e scambio, senza colpe e rinfacci? Nessuno ha torto ma nessuno ha ragione. Solo nell’assenza di giudizio ci si riesce ad auto-giudicare al termine del processo. Il verdetto potrebbe emergere in terza persona, ad esempio, oppure raccontando la propria esperienza di adulto, che è stato capace di decifrare, risolvere, cooperare. Non ho un’esperienza estrema di docente, sia chiaro, ma ho affrontato situazioni delicate, in cui ho avuto il feedback positivo e grato di genitori e di ragazzi-vittima. In quei casi ho cercato di affrontare la situazione nel modo che ho indicato sopra, insegnando la via della risata. Io stessa quando sento il ribollire dei miei difetti che vogliono salire a galla, nei rapporti pubblici e con me medesima, mi fermo non a contare fino a 100, ma la butto sull’ironia: deridendo me stessa, gli altri, la situazione e così tutto si risolve nella magistrale lezione di Frankl, di Eco, di Rabelais, di Diogene e dei gruppi di Timbuktu[2], che, ironizzando tra di loro, senza tabù, nella reciprocità di concessioni tipiche pure del dissing nell’NBA e del freestyle, contengono i conflitti reali.
Conclusioni
L’ironia è anche quello che sta dietro alla scelta di parlare di drama e non di bullismo; è gergo giovanile, per ritagliarsi uno spazio di gestione personale, senza la serietà degli adulti che tendono a far cadere sotto al cappello dell’aggressione anche ciò che i ragazzi preferiscono qualificare in modo sfumato come scherzo, punzecchiarsi. Quindi cosa fare? Lasciare che i ragazzi facciano da sé e la buttino sullo scherzo? No di certo. Andrebbe assunto un ruolo da adulti ma nell’ambiente in cui preferiscono giocare i ragazzi, senza che intervenga lo stigma, del bullo e della vittima. Questo con la mediazione di chi si rende conto che in ogni caso nemmeno lo scherzo va preso alla leggera. Non è facile per nulla, per questo ne riparliamo. Il cyberbullismo è terrificante perché non si può sfuggire da commenti e dagli screenshot. Le copie continueranno a replicarsi senza controllo da parte di chi subisce una violazione della propria immagine. E lo stesso è per l’etichetta bullo-bullizzato. Sembra che una volta che si viene etichettati come tali, non sarà più dimenticabile il fatto di essere emarginati, in un senso e nell’altro. Questo non significa, attenzione, non intervenire.
Bibliografia
[1] Marwick, Alice E. and Boyd, Danah, The Drama! Teen Conflict, Gossip, and Bullying in Networked Publics (September 12, 2011). A Decade in Internet Time: Symposium on the Dynamics of the Internet and Society, September 2011, Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=1926349
[2] Aime M., Gli uccelli della solitudine. Solidarietà, gerarchie e gruppi di età a Timbuctu, Bollati Boringhieri 2010