l’analisi

Gli archetipi femminili nei videogame



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Nella storia dei videogiochi quali eroine conosciamo? Gli esempi si possono riferire al Pantheon greco-romano, di cui ogni figura era già un archetipo. La loro funzione concettuale ancora guida gli script comportamentali degli esseri umani e quindi dei prodotti letterari che vengono prodotti

Pubblicato il 4 ott 2023

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons



Mafia: Definitive Edition_20200916000332
Mafia: Definitive Edition

Kierkegaard ricorreva agli eteronimi, e quindi alla scrittura, per vivere più possibilità esistenziali, senza rinunciare a uno dei due poli dell’Aut Aut. Umberto Eco sosteneva, altresì, che leggere permetteva al singolo di dilatare la sua vita ben oltre ogni umana possibilità, facendogli vivere situazioni che mai avrebbe potuto incontrare altrimenti.

La stessa immedesimazione avviene con altri media come il cinema e il teatro, ma pure con un medium interattivo quale è il gioco in senso lato e nello specifico il videogame.

In questo caso, noi non diventiamo i personaggi che vediamo recitare solo attraverso un processo empatico di riconoscimento: nel videogioco siamo l’avatar. Come il bastone rappresenta davvero un prolungamento del nostro campo d’azione e infatti ne risulta un reale dilatamento della cognizione umana, anche la maschera\personaggio amplia realmente la prospettiva del gamer.

Videogame e immedesimazione

La diegetica non lineare del videogame dà modo di sperimentare una fortissima immedesimazione con le vicende. Attraverso il videogioco può svilupparsi una importantissima esplorazione delle sfaccettature del sé, potrebbe davvero essere uno strumento con cui allenare l’empatia e la comprensione profonda e non ipocrita della diversità. In effetti è possibile mettersi nei panni di chi è altro da noi, solo perché quell’altro non è così diverso, ma c’è una qualche permeabilità. Raggiungere questo superamento del proprio limite è l’unica condizione per costruire una comunità di uguali, realmente aperta a ogni prospettiva.

Cosa accade però se i videogamer hanno a disposizioni solo stereotipi, saghe e plagi? Si interrompe la sperimentazione positiva della diversità, ottenendo proprio il risultato opposto. Il gamer finisce per apprendere pregiudizi, idee semplicistica dell’umanità. Lui stesso agirà in modo stereotipico e sarà portato a sussumere gli individui sotto quattro o cinque maschere del “maschile” e del “femminile”. Ecco, dunque, perché sarebbe bene che ci fosse un’offerta maggiore di storie, perché chiunque possa conoscere molte più alternative esistenziali.

Prima che il videogioco avesse una trama era ovvio che servisse utilizzare gli stereotipi per semplificare la dinamica di game play. Mario doveva salvare la fanciulla perché era immediatamente comprensibile quello che si si aspettava dal videogiocatore: era la fiaba con cui siamo cresciuti. Anche nel teatro antico si sfruttavano le maschere solite, con caratteri consolidati dalla tradizione per facilitare il processo ermeneutico del pubblico. Appena si vedevano sulla scena Pantalone o Colombina gli spettatori erano dispensati dall’approfondimento dei personaggi, dedicandosi solo al racconto.

Dal momento i cui lo sterytelling diventò parte dei videogame, anche i protagonisti e gli obiettivi si complicarono, ma mai abbastanza. Non dimentichiamo che i videogiochi non sono prodotti che hanno come fine la gloria personale, restano media da destinare a un mercato e il loro target ancora oggi è di nicchia. I videogame sono tutt’ora giochi specialmente “per i maschi”, in particolare quelli per console e pc, tra i mobile game le donne compaiono come utilizzatrici saltuarie.

Le storie devono essere necessariamente cariche di quegli attributi che la nicchia chiede agli sviluppatori, pena il flop. Come sostiene Massimo Guarini, noto autore di videogiochi e regista, non c’è una vera innovazione nel settore videoludico proprio perché non c’è un mercato abbastanza ampio e trasversale che possa essere raggiunto dalle sperimentazioni, senza che quella sorta di clinamen rispetto ai soliti titoli AAA diventi un invenduto. Le serie tv sono varie e possono accontentare tutti perché i fruitori sono tutti: spaziano per età, cultura, genere, inoltre chiunque di noi può accedere a film e serie facilmente. Bastano una televisione, un tablet, un pc poco potente. Per far girare un videogame su computer, invece, è richiesta potenza e schede grafiche particolari e anche qui i costi aumentano e non tutti sono disposti ad affrontarli. Anche le console sono un investimento che solo un appassionato decide di affrontare.

Per queste ragioni, allora, non si sta assistendo a una vera sperimentazione e a una messa in opera di idee nuove, mai viste. Qualche indie ci ha provato, ma restano iniziative isolate. Le triple AAA devono ancora badare alla committenza, che è una nicchia maschile. Ciò inevitabilmente riduce la storia a un già visto, capace però di garantire la sicurezza del tornare in pari con le spese.

Le eroine nella storia dei videogiochi

Nella storia dei videogiochi quali eroine conosciamo? Gli esempi si possono riferire al Pantheon greco-romano, di cui ogni figura era già un archetipo. La loro funzione concettuale ancora guida gli script comportamentali degli esseri umani e quindi dei prodotti letterari che vengono prodotti.

Seguendo il noto testo di Jean Bolen, Le dee dentro le donne, possiamo ordinare le personalità femminili in due macro-gruppi: la femminilità indipendente, ma che tende a peccare di freddezza, e quella che abbisogna di relazioni per completarsi. Abbiamo le dee vergini, autonome e complete in loro stesse. Perseguono i loro obiettivi senza sentire la necessità di legarsi al maschio, di cui, invece, rappresentano anche un punto di riferimento. Spesso si dedicano a mestieri ritenuti culturalmente “per uomini”: quelli che nella lingua sono rimasti al maschile, per intenderci.

Atena è dea della saggezza, facoltà tipicamente ascritta al maschio. È una musa per gli uomini, con cui a volte si lega pur essendone indipendente. Con le altre donne, invece, non ha rapporti. Artemide (Diana a Roma) è dea vergine per eccellenza, si dedica alla caccia e alla guerra e va in soccorso alle donne quando sono oggetto di abusi da parte dei maschi. Soccorre le altre donne anche nel parto. È stata il punto di riferimento delle Amazzoni. Estia, o Vesta a Roma, è la dea protettrice del focolare; è donna che sovrintende alla spiritualità e alla casa. È tutta rivolta verso l’interno del suo essere, si tratta di una personalità silenziosa, che dà armonia.

Era, Demetra e Persefone impersonano i ruoli tradizionali della donna, rispettivamente la moglie, la madre e la figlia. Giunone (Era a Roma) è dea del matrimonio, sempre fedele, nonostante ogni tradimento di Giove. Demetra è dea delle messi, quindi colei che si realizza mettendo al mondo. Intimamente legata alla figlia Persefone, che le venne sottratta da Ade, il quale la trasformò nella Regina degli Inferi. Quest’ultima vive, infatti, sei mesi in superficie e sei nell’Oltretomba. È sottoposta a due condizionamenti: della famiglia di origine e del marito. Afrodite è invece dea alchemica per la Bolen. È incatalogabile, né vergine né vulnerabile: un unicum nella mitologia. È una dea portata a generare nel bello, per amore, per libera scelta, insomma, sia nelle attività sia nei figli.

Kara, di Detroit: Become Human

Nei videogiochi si può ritrovare un parallelismo con questi archetipi del mito?

Kara, di Detroit: Become Human, dal momento in cui acquisisce coscienza di sé, interrompendo, così, il flusso deterministico dell’algoritmo con la spontaneità della libera scelta, si qualifica come la madre, il cui unico obiettivo è quello di soccorrere Alice dagli abusi di Todd, violenze che anche lei subiva. Insomma, l’androide potrebbe essere proprio una Demetra e Alice, allora, è Persefone. Persefone è anche Ellie nel primo capitolo di The last of us: orfana, immune al virus, necessita di protezione da parte di Joel, diventando nel viaggio inseparabili.

Illustrazione 1: Kara e Alice, Detroit Become Human

Ellie di The last of us 2

The last of us 2, presenta come protagonista Ellie. Qui è un’eroina dal carattere riservato, ma risoluta a portare a termine le sue lotte. È legata sentimentalmente a un’altra ragazza, Dina, ma a causa della sua sete di vendetta, verrà abbandonata anche dalla compagna. Ellie non è facile da catalogare. Naughty Dog ha fatto un lavoro egregio di caratterizzazione, non banalizzando i tratti e descrivendo perfettamente il rapporto tra amore e odio che regola i rapporti umani. Per certi versi potremmo ricondurla a Diana, dea della caccia, per molti altri, però, eccede questa categorizzazione. Ellie non si priva dei legami, benché di fatto sia ormai una donna autonoma, sa mostrare compassione, perdonando e comprendendo Abby (l’assassina del padre).

Non è facile rintracciare una somiglianza con Estia. Completamente rivolta nella propria spiritualità interiore, non si avventura all’esterno della casa. Sembra una idiosincrasia insuperabile per i videogame, che per natura si nutrono di livelli, obiettivi chiari e ben visibili da superare, competizione. Non è nemmeno un personaggio non giocabile, non è un oggetto Vesta, come di norma appaiono questi sprite all’interno del videogame. Prostitute di GTA o comparse a strumento del gamer, i PNG sono laddove restano impigliati i pregiudizi maggiori riguardanti la donna. In ogni caso, la mancanza di videogame spirituali, incentrati sulla coscienza, nel panorama videoludico dimostra quanto l’innovazione sia bloccata. Mi viene in mente solo Gris, videogioco davvero interessante, un platoform emotivo, dalla grafica davvero sorprendente. Qui la protagonista deve fronteggiare la sua psichè e i passaggi verso l’accettazione del lutto. Il percorso è un procedere verso e oltre il dolore. Ricco di simboli, diventerà in grado di saltare più in alto e di rendere il suo habitus (il carattere) più solido: è il percorso che porta ad accogliere la Vesta che è in noi.

Illustrazione 2: Ellie e Dina, The last of us 2

Illustrazione 3: Gris

The Boss di Metal Gear Solid 3

Atena potrebbe essere proprio The Boss di Metal Gear Solid 3. Come la Dea greca, lei è mentore di Snake, l’eroe maschio. È descritta come la fondatrice delle forze armate statunitensi. Bayonetta del videogame omonimo, invece, è l’antieroina per eccellenza. Sessualizzata senza perdere la sua forza. È la rappresentazione della strega, l’opposto della Santa negli archetipi femminili, che seduce e ferisce. La moglie è rappresentata da Trish, il demone di Devil may cry. Inizialmente sottomessa a Mundus, quindi crudele, poi si innamora di Dante, per cui decide di sacrificarsi. Il poeta la riporta in vita, diventando quindi la sua compagna di viaggio.

Illustrazione 4: The Boss, Metal Gear Solid 3

Jade di Beyond Good and Evil

Un personaggio femminile piuttosto completo, benché sia un gioco per Playstation 2, è Jade. Firmato Ubisoft, Beyond Good and Evil è un videogame effettivamente molto bello. La protagonista femminile coniuga action, cura, creatività e addirittura magia. Si occupa di gestire un orfanotrofio, quindi non ripudia la maternità. Inoltre conosce le arti marziali e si mantiene da foto reporter, quindi è una donna indipendente, capace di decidere autonomamente, senza fossilizzarsi in alcuno stereotipo. Si accompagna a Pey’J, zio acquisito, a metà tra uomo e maiale, con cui gestisce il ricovero per bambini e con cui combatte: non è solitaria, ma comprende l’importanza della collaborazione. Non ultimo ha potere di vita e di morte. A tal proposito, la donna, in ogni cultura, è Utero e Tomba. La Grande Madre è secondo Jung uno degli archetipi fondamentali, associata alla Vita o alla Morte, nella sua versione positiva o negativa e Jade, in questo, ricalca uno dei simboli più antichi della femmina, ma è anche guerriera, proiettata alla difesa dei deboli e creativa: appassionata di foto, la sua macchina fotografica è anche un’arma in battaglia.

Illustrazione 5: Jade di Beyond Good and Evil

Conclusioni

L’innovazione, insomma, deve passare anche attraverso la storia, così da poterci riconoscere in personaggi diversi ed empatizzare con le infinite sfaccettature dell’umano. Il videogame è un medium che sintetizza ogni arte e tecnica, è il luogo perfetto in cui dimostrare come il team eterogeneo possa far guadagnare bellezza e novità al prodotto finale. Se anche sul luogo di lavoro non c’è inclusione vera, è normale che le tecnologie rispecchino la parzialità di chi le progetta. È come il Parlamento che per deliberare in modo giusto, deve rappresentare ogni parte della società. Così anche l‘innovazione, se si vuole che sia per tutti, deve chiedere il contributo di tutti, senza incorporare il pregiudizio per il quale alcuni ruoli non possono essere utili allo scopo.

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