Digital divide e scarsa produttività sono i due mali strutturali del mercato del lavoro italiano. L’abolizione del reddito di cittadinanza e il salario minimo hanno surriscaldato il dibattito politico di questa estate. La polemica, tuttavia, non ha portato a una soluzione. Ma soprattutto nessuno ha posto l’attenzione sul fatto che un’economia è competitiva se i suoi addetti sono qualificati.
Nell’era dell’Intelligenza artificiale, lavoratori e imprese sono chiamati a intraprendere un percorso di aggiornamento professionale continuo (lifelong learning). Volontario da parte della persona. Guidato dall’azienda. Strategico per le forze produttive.
Governo Meloni: una riforma incompiuta
Fin dall’inizio del suo mandato il Governo Meloni ha espressamente detto di voler abolire il reddito di cittadinanza, in quanto ritenuto inutile per l’efficientamento del mercato del lavoro. Poco prima dell’estate, questa promessa si è trasformata in realtà. Quello che era la misura-bandiera del Conte I è stata cancellata con un tratto di penna e sostituita con una serie di provvedimenti, in parte rientranti nel Decreto Lavoro, che difficilmente possono essere classificati come una vera riforma dell’occupazione, in quanto si concentrano su temi dal forte impatto mediatico – reddito di cittadinanza, appunto, e salario minimo – senza però affrontare le debolezze strutturali del settore.
Lo scenario attuale è certamente difficile da definire e ricco di contraddizioni. Nonostante la frenata del nostro Pil nel secondo trimestre 2023 infatti, a luglio la disoccupazione è scesa al 7,4%, registrando un calo di 0,2 punti percentuali sul mese precedente. Visto in assoluto, quel 61,5% di forza lavoro occupata, in età compresa tra i 15 e i 64 anni, potrebbe portare a un giudizio positivo del mercato. Tuttavia, non è la quantità il problema, ma la qualità.
I ritardi digitali dell’Italia
Nell’edizione 2022 dell’Indice di Digitalizzazione dell’Economia e della Società (Desi), l’Italia si colloca al diciottesimo posto fra i 27 Stati membri dell’Ue. A sua volta, nel periodo 2014-21, la produttività del lavoro del nostro Paese è cresciuta dello 0,6%, contro l’1,3% della media Ue. Il combinato disposto di questi due dati fa da zavorra alla competitività dell’Azienda Italia, che ha buone possibilità di crescita – siamo pur sempre la seconda manifattura d’Europa – ma, al tempo stesso, rischia di essere superata da partner europei caratterizzati da una forza lavoro più giovane, più dinamica e, per molti aspetti, più qualificata.
Education: per le imprese è strategica solo a parole
Fin dai tempi del Governo Renzi, la cosiddetta Quarta rivoluzione industriale è stata accolta da istituzioni e parti sociali come un’opportunità di trasformazione della nostra identità produttiva.
Industria 4.0, Transizione 4.0 e ora il Pnrr sono misure che avrebbero dovuto e dovrebbero facilitare il processo di digitalizzazione dell’industria italiana. Il condizionale è d’obbligo, in questo caso, perché da un lato sono innegabili i risultati raggiunti, dall’altro non si è ancora realizzato quel cambiamento culturale richiesto affinché chi è testimone di una rivoluzione non ne sia anche travolto.
Lo sappiamo: automazione dei processi produttivi e Intelligenza artificiale possono annientare lavoratori e imprese oppure proiettarli nel futuro. Affinché si realizzi la seconda opzione, è necessario dotarsi di adeguate skill professionali. Alcuni mesi fa, Forbes diceva che il 62% dei top manager italiani vede nell’education una leva strategica per la crescita delle aziende.
Migliorare (upskilling), oppure riposizionarsi sul mercato (reskilling) sono attività determinanti se si vogliono vincere le sfide dell’innovazione ed evitare che, per mancato aggiornamento, persone e imprese siano escluse dal mercato.
Il peso della formazione sui bilanci aziendali
Tuttavia, facendo le pulci ai bilanci aziendali, emerge che alla voce formazione è destinato solo l’1,9% del costo del personale. In numeri assoluti, si tratta di circa 780 euro all’anno per tutta la formazione di un singolo lavoratore. A fronte di un costo medio complessivo poco superiore ai 41mila euro. Volendo fare un confronto con altre unità, la formazione è pari a un sesto delle risorse destinate dai ricavi aziendali al marketing. Per le imprese italiane, l’aggiornamento professionale vale un terzo rispetto alle controparti tedesche e francesi.
La formazione non è un hobby
Dalla mappatura di circa mezzo milioni di lavoratori, l’Osservatorio sulla formazione continua, think tank di OfCourseMe, azienda tecnologica specializzata nell’autoformazione, è emerso che la formazione professionale viene ancora considerata come un benefit da fruire nel weekend, in momenti di pausa, invece che rappresentare un elemento critico per il business. Gli orari di picco dedicati dalle persone all’education sono tra le 7 e le 15, con una maggiore incidenza tra le 13 e le 14. In pratica, quando si percorre il tragitto casa-lavoro e durante la pausa pranzo.
Lascia perplessi la scelta che le imprese – al netto di poche luminose eccezioni – non mettano a disposizione una fascia lavorativa ad hoc per le attività di formazione; e ancor più che si rimettano alla buona volontà della persona e alla propria ambizione di fare carriera, invece che definire politiche industriali volte a valorizzare quello che, in maniera roboante, viene chiamato “capitale umano”.
Se l’education fosse davvero quella leva strategica di cui dicono i manager, dovrebbero esservi dedicati significativi investimenti, sulla conoscenza delle nuove tecnologie e mediante il loro stesso utilizzo (e-learning), che ci permetterebbero di risalire la classifica Desi.
Lifelong learning: serve un cambio culturale
D’altra parte, la responsabilità è anche dei lavoratori. Sempre dall’Osservatorio di OfCourseMe, dicono che solo il 10-15% degli addetti si dimostra sensibile ai progetti di education forniti, in ogni caso, dalle imprese.
L’autoformazione è alla base infatti del cosiddetto lifelong learning, ovvero quel processo di miglioramento permanente delle proprie competenze, il quale è a sua volta indispensabile per sentirsi a proprio agio nel mondo dell’automazione in fabbrica e dell’Ai in ufficio.
Curiosità, ambizione, consapevolezza del mondo in cui si vive sono predisposizioni richieste alla persona perché possa essere ricettiva alle iniziative di education elargite dal datore di lavoro.
È questo il cambiamento culturale richiesto alla nostra economia. Ma di tutto ciò il Decreto lavoro e gli altri interventi correlati non se ne occupano. Nemmeno la piattaforma Siisl, il Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale, creato dall’Inps sulle ceneri del reddito di cittadinanza, con lo scopo di gestire le richieste di richiedenti e beneficiari dell’assegno di inclusione, è una misura da interpretare in questa direzione.
Conclusioni
Finora la politica – e in buona parte anche le forze sociali – si è concentrata su chi è fuori dal mercato del lavoro.
Per alcuni aspetti è ragionevole. Al netto degli opportunismi elettorali, va ricordato che, nel primo semestre del 2023, circa 1,3 milioni di nuclei familiari hanno ricevuto almeno una mensilità del reddito di cittadinanza. C’è un problema di benessere diffuso che si sta assottigliando. Ma resta altrettanto urgente sia proseguire con le politiche di incentivo allo studio delle discipline tecniche e scientifiche, sia incentivare la riqualificazione del personale già in azienda.
L’Italia continuerà a essere competitiva se saprà scommettere, a pari merito, sulla qualità di chi è al primo impiego e su chi già lavora. L’occasione c’è. Il 50% dei lavoratori è attualmente soggetto a contratti collettivi scaduti. Nel loro rinnovo si può trovare lo spazio per formulare politiche sociali in cui l’education non sia derubricata a un benefit da sfruttare in autobus o davanti a un panino.