innovazione e ricerca

Riforma del Codice della Proprietà Industriale: servono i fondi



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La riforma del Codice della Proprietà Industriale mira ad accelerare il progresso e la competitività del Paese, mediante lo sviluppo di un ecosistema dell’innovazione virtuoso e dinamico. La realizzazione di questo proposito dipende però dall’entità degli stanziamenti economici che il Governo destinerà alla sua attuazione

Pubblicato il 9 ott 2023

Giulia Cipriani

Studio Legale e Tributario CBA

Barbara Sartori

avvocato, partner CBA



direttiva dsm

Il 23 agosto, con l’entrata in vigore della legge che riforma il Codice della Proprietà Industriale, è stato aggiunto un importante tassello nell’ impianto giuridico di valorizzazione e tutela della proprietà industriale, in linea con quanto auspicato dall’Unione Europea nell’ambito del PNRR.

Le novità della riforma

La riforma si propone di sviluppare un ecosistema dell’innovazione sano, virtuoso e dinamico, ed al contempo di incentivare la protezione e lo sfruttamento della proprietà intellettuale che, nelle economie avanzate, rappresenta un driver di crescita fondamentale in grado di favorire la competitività del Paese.

L’abolizione del “professor’s privilege”

Tra le novità introdotte dalla riforma, riveste un ruolo centrale l’abolizione del cosiddetto “professor’s privilege”, un istituto progressivamente abbandonato dagli altri Paesi d’Europa a partire dagli anni ‘90, in forza del quale il ricercatore di Università ed enti pubblici di ricerca acquisiva automaticamente la titolarità esclusiva di tutti i diritti economici sull’innovazione brevettabile realizzata, nonostante l’attività inventiva rientrasse tra le sue mansioni contrattuali.

Questo approccio – adottato con l’approvazione nel 2001 della “Tremonti-bis” con l’intento dichiarato di stimolare l’attività inventiva in ambito universitario – fu ben presto criticato, tanto dai giuristi, quanto dal mondo universitario. Da un lato, infatti, aveva introdotto una disparità di trattamento in favore dei dipendenti delle Università e degli enti di ricerca, rispetto ai dipendenti di imprese private, le invenzioni dei quali, vengono invece acquisite dal datore di lavoro. Dall’altro lato, lungi dal fungere da stimolo all’innovazione, ne costituiva ostacolo evidente, poiché quasi mai il ricercatore aveva le capacità organizzative e le disponibilità economiche per provvedere autonomamente alla brevettazione e, ancor meno, per stimolarne e gestirne lo sfruttamento commerciale ed il relativo trasferimento a terzi.

Anche in conseguenza di ciò, la ricerca italiana ha sino ad oggi prodotto ottimi risultati in termini di pubblicazioni e di propensione innovativa, ma un numero di brevetti modesto rispetto ai trend registrati in altri Paesi europei ed extra-europei (solo il 5% dei brevetti europei depositati dal nostro Paese nel 2022 proviene da università ed enti di ricerca) unitamente a profitti generati dalla concessione dei brevetti in licenza ad imprese davvero esigui. Vi sono, quindi, ampi margini di manovra per migliorare ed incrementare il ritorno economico della ricerca pubblica italiana.

Gli obiettivi della riforma

La nuova normativa si pone dunque l’obiettivo di arginare o quanto meno minimizzare il rischio che le invenzioni realizzate in ambito accademico non vengano adeguatamente tutelate, attuate e sfruttate a beneficio del sistema Paese, incentivando al contempo le connessioni tra università, centri di ricerca ed imprese.

La legge recentemente approvata dispone infatti che i diritti patrimoniali sull’invenzione brevettabile realizzata in ambito universitario non spetteranno più al ricercatore, ma alla struttura di appartenenza che ne ha sostenuto i costi di sviluppo – Università, anche non statali legalmente riconosciute, enti pubblici di ricerca, IRCCS – fermi restando comunque i diritti morali in capo all’inventore.

È infatti previsto che l’inventore debba comunicare l’invenzione realizzata alla struttura di appartenenza, la quale avrà sei mesi di tempo (prorogabili fino ad un massimo di ulteriori tre mesi, se vi sono esigenze di approfondimento) per depositare la domanda di brevetto o comunque comunicare l’assenza di interesse a procedervi. Solo se la struttura di appartenenza ometterà di procedere al deposito del brevetto nel termine indicato o, anche prima del termine, comunicherà all’inventore l’assenza di interesse a procedere, il ricercatore inventore potrà depositare il relativo brevetto a proprio nome.

Il ruolo delle Università

Il nuovo impianto normativo demanda alle Università ogni valutazione sull’opportunità di procedere alla brevettazione così come l’onere di gestire e sostenere economicamente l’iter brevettuale. Le Università si occuperanno ora anche della successiva fase di commercializzazione delle invenzioni, eventualmente coadiuvate dagli Uffici di Trasferimento Tecnologico, la cui esistenza già invalsa nella prassi, è stata codificata dalla legge di riforma, stigmatizzandone la funzione di valorizzazione delle competenze accademiche tramite l’incentivazione di diverse forme di collaborazione con il tessuto imprenditoriale.

L’architettura delineata dai nuovi articoli del Codice della Proprietà Industriale è stata già attuata dalle Università maggiormente innovatrici e lungimiranti, mediante inserimento all’interno dei Regolamenti di Ateneo di specifiche clausole disciplinanti l’impegno assunto dai ricercatori e professori a cedere all’Università tutti i diritti economici delle invenzioni che dovessero essere generate in esecuzione del proprio incarico.

Sotto un ulteriore profilo, il nuovo testo normativo lascia all’autonomia negoziale la regolazione sia dei rapporti tra Università e inventori, nonché delle premialità connesse all’attività inventiva, sia la disciplina dei rapporti tra Università e finanziatori della ricerca che abbiano prodotto invenzioni brevettabili, lasciando che i principi e i criteri specifici della disciplina siano individuati dalle Linee Guida che saranno adottate dal MIMIT entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della norma.

Se da un lato, quindi, il nuovo assetto introduce un rovesciamento di paradigma rispetto alla titolarità delle invenzioni, dall’altro lato, permane essenziale la regolazione negoziale sia dei rapporti interni tra accademico e Ateneo, sia dei rapporti tra Università e privati finanziatori, rendendo necessario definire in anticipo il bilanciamento tra i diversi interessi in gioco ed i diritti di ciascuna parte. È, quindi fondamentale per tutti gli attori in campo – Università, centri di ricerca e aziende finanziatrici o licenziatarie dei brevetti– acquisire piena consapevolezza del valore delle invenzioni brevettabili e approntare specifiche strategie e strumenti, contrattuali e non, per la loro migliore tutela e valorizzazione, a beneficio dell’intero ecosistema nazionale dell’innovazione.

Una riforma, dunque, che si propone di accelerare il progresso e la competitività del Paese, mediante lo sviluppo di un ecosistema dell’innovazione virtuoso e dinamico, facilitando la collaborazione, secondo i paradigmi dell’open innovation, tra accademia e impresa, in chiave di reciprocità tra ricerca e mercato, fornendo al contempo la possibilità ad Università ed enti di ricerca di ottenere, nell’ambito della ricerca libera, nuovi cespiti dalle concessione di diritti di licenza sulle invenzioni sviluppate.

Conclusioni

La realizzazione di questo ambizioso proposito dipenderà in gran parte dall’entità degli stanziamenti economici che il Governo destinerà in concreto alla sua attuazione, ad esempio, mediante la messa a disposizione delle Università di adeguati fondi a sostegno sia della ricerca e della successiva brevettazione, così come avviene già per le imprese private, sia della costituzione o del rafforzamento degli Uffici di Trasferimento Tecnologico.

Diversamente la riforma rischierà di rimanere lettera morta, spostando semplicemente di posto una coperta corta.

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