L’edizione 2023 dell’International Property Rights Index 2023, pubblicato dalla Property Rights Alliance grazie alla collaborazione con 131 think tank su scala globale, colloca l’Italia al trentacinquesimo posto di una classifica elaborata incrociando parametri quali indipendenza della magistratura, Rule of law e policy anticorruzione, ma anche stabilità politica e, soprattutto, sensibilità nella tutela giuridica della proprietà intellettuale, intesa come innovazione tecnologica applicata al sistema produttivo. Una risorsa inestimabile che merita di essere difesa e per farlo occorre puntare di più sulla formazione di una classe dirigente “tecnica”.
L’edizione 2023 dell’International Property Rights Index (Ipri)
Bene, ma non benissimo. Dall’edizione 2023 della classifica dell’International Property Rights Index (Ipri) emerge che l’Italia guadagna dieci posizioni rispetto allo scorso anno. Abbiamo superato di nuovo Paesi quali Ghana, Panama, Nepal e Filippine, dietro i quali arrancavamo nel 2022. Tuttavia, restiamo un fanalino di coda in Europa. Stride, in valori assoluti, che un membro del G7 mostri simili risultati a un esame a quella che, de facto, è un check up dell’innovazione tecnologica del nostro sistema economico.
Pubblicato dalla Property Rights Alliance grazie alla collaborazione di 131 think tank da 73 Paesi, tra cui Competere per l’Italia, l’analisi ha coperto 125 Paesi in rappresentanza del 93,4% della popolazione mondiale e di quasi il 98% del Pil globale.
Nella classifica generale, l’Italia ha ottenuto un risultato pieno pari a 6 punti, guadagnando circa mezzo punto sulla classificazione dell’anno passato (5,66). Siamo 35esimi a livello mondiale, su una classifica complessiva di 125 Paesi, e 18esimi nella graduatoria ristretta all’Europa occidentale.
I punti di forza del nostro Paese
Stabilità politica, indipendenza della magistratura, rule of law e politiche anticorruzione. Sono questi i sottoindici che ci hanno permesso di recuperare lunghezze rispetto al 2022. Cos’è successo in dodici mesi? Dall’inizio dello scorso anno a oggi, l’Italia è stata testimone della conferma di Sergio Mattarella alla Presidente della Repubblica, della caduta del governo Draghi e della vittoria del centro-destra alle elezioni di settembre 2022. A una rapida disanima, possiamo dire che se l’è cavata con una sufficienza, raggiunta grazie alla sofferta operazione che ha portato alla conferma di Mattarella al Quirinale per un secondo mandato, cui è seguita a débâcle della caduta di Draghi, per poi riprendersi con l’affermazione del governo Meloni. Su quest’ultimo gli osservatori internazionali, soprattutto in campo finanziario, avevano riposto molte perplessità e riserve (pregiudiziali), per poi ricredersi.
La stabilità politica ha permesso che si schiarisse anche il panorama del diritto. Le istituzioni responsabili della sicurezza nazionale hanno inoltre portato a casa un risultato inestimabile quale l’arresto del boss mafioso, Matteo Messina Denaro, a febbraio scorso. Dopo anni di latitanza e indagini, l’episodio ha rappresentato un punto definitivo alla lotta alla mafia, che però, va detto, non è stata del tutto sconfitta.
Resta inoltre in sospeso la riforma della magistratura, che tanti Guardasigilli cercano di affrontare, salvo dover rivedere le proprie ambizioni di passare alla storia.
I punti deboli
I voti non si contano, si pesano. Ci piace parafrasare Enrico Cuccia nell’osservare che, in una classifica formulata sulla base dell’avanzamento tecnologico mondiale, la sufficienza ci viene data su questioni secondarie rispetto al tema generale.
L’Ipri 2023 dice infatti che, vista la scarsa sensibilità, tanto della politica quanto delle forze sociali, nella tutela dei diritti di proprietà intellettuale, l’Italia ha ancora molta strada da fare. Non tanto rispetto a Ghana o Filippine, dietro i quali eravamo lo scorso anno. Bensì nei confronti di mercati in cui le nostre forze produttive hanno a che fare quotidianamente.
Quello italiano è un ecosistema produttivo schiavo del paradosso di essere invidiato da tutti – perché il Made in Italy attira – ma altrettanto copiato e contraffatto quanto nessun altro al mondo.
Abbiamo già affrontato questo tema in un nostro intervento recente su questo giornale, focalizzandoci sulla partita vinta a metà – oppure parzialmente persa – sull’assegnazione a Milano della terza sezione del Tribunale europeo dei brevetti (Tub). In quell’occasione dicevamo che l’Italia ha tutte le carte in regola per diventare un hub per il processo di innovazione industriale di tutta Europa. Ospitare la sede di un’istituzione internazionale tanto autorevole potrebbe renderci più accorti nel “non lasciarci fregare”.
Uno stallo “alla messicana”
Riprendiamo il discorso, ma dalla prospettiva occupazionale, in quanto è poi il capitale umano a determinare i destini di un’azienda. Dalle più recenti indagini Inail, emerge uno stallo alla messicana tra i lavoratori over 50, sempre meno in grado di gestire le nuove tecnologie, da un lato, e i digital born, dall’altro, che non ritengono le che loro competenze siano adeguatamente retribuite e, di conseguenza, tendono a lasciare l’Italia.
È dimostrato che, dopo i 50 anni, il senso di curiosità e l’interesse per aggiornamento professionale cominciano a calare. Sarà perchè, nell’ottica comune, il lavoratore medio inizia a ragionare sul suo futuro post lavorativo – ingiustificato, vista ormai l’età pensionabile italiana – oppure per un progressivo indebolirsi delle capacità cognitive. Sta di fatto che meno competenze ha il singolo da condividere con l’azienda e meno quest’ultima dispone di idee nuove e creatività.
Perché stallo alla messicana? Perché, senza un avvicendamento, si crea un clima di diffusa indolenza. Il lavoratore di mezza età, senza più ambizioni, tende a conservare il proprio impiego. Mentre chi potrebbe sostituirlo non ha interesse a farlo. Un’atmosfera che certamente va contro a quello che si legge comunemente sui giornali. Ovvero che education, innovazione e il binomio lavoratore+digital device sono strategici per la nostra tenuta sul mercato globale.
La formazione di una classe dirigente tecnica
Il problema è che le istituzioni possono intervenire ma fino a un certo punto. E in ogni caso non con misure di lungo periodo. Politiche fiscali espansive possono incentivare la formazione in azienda. Solo sulla carta, però, visto che nessuno ha mai proposto misure simili. Tuttavia, una cultura imprenditoriale e del lavoro non si cambia dall’oggi al domani.
In un’Italia fatta di nanoimprese e in cui, fin dai primi anni scolastici, le discipline tecnico-scientifiche restano di fatto le sorelle povere delle materie umanistiche, è difficile che l’innovazione applicata all’industria trovi terreno fertile. Siamo un Paese di grandi inventori, pionieri, capitani d’impresa. Figure individuali, alle volte perfino solitarie e romantiche, che restano un mito difficile da replicare. Non è un caso che la riforma degli Istituti Tecnici Superiori, il cui diploma dovrebbe essere equiparato alle lauree universitarie, abbia una così difficile gestazione. La creazione di una classe dirigente tecnica non è mai stata nei programmi di alcun governo. E le stesse imprese, per quanto ne lamentino il gap, non fanno abbastanza per promuoverla.