La dichiarazione dei 22 Paesi sul nucleare a Cop28 è una buona notizia, peccato che l’Italia si sia auto esclusa.
Questo un bilancio che si può fare oggi, dopo che si è conclusa anche la ventottesima Conferenza tra le Parti, COP28, un po’ come tutte le precedenti, alla ricerca disperata di soluzioni di compromesso, per conciliare la fame di energia di 8 miliardi di abitanti del mondo e la lotta contro il cambio climatico.
Anche questa volta la dichiarazione finale è un lungo elenco di impegni a cominciare da quello di ridurre rapidamente le emissioni di CO2 e altri gas serra in modo da contenere l’aumento di temperatura media terrestre entro 1,5 °C. Peccato che, a causa dei lunghissimi tempi di persistenza della CO2 in atmosfera e della continua crescita, anno dopo anno, delle emissioni, l’ultimo rapporto IPCC indichi che per questo bisognerebbe azzerare le emissioni nette mondiali entro il 2040, cioè nei prossimi 17 anni, e abbatterle del 60% entro i prossimi dieci.
Purtroppo, tutti sappiamo che questo è semplicemente impossibile. Di conseguenza,
come sempre, nella dichiarazione finale abbondano equilibrismi che a volte rasentano
l’ossimoro.
Per capire l’importanza del nucleare in questo quadro, bisogna mettere assieme un po’ di numeri.
I numeri che impongono una riflessione
Negli ultimi 28 anni, siamo passati da COP1, che si tenne a Berlino nel 1995 con soli 84 Paesi partecipati, a COP28, dove i Paesi sono stati 197, praticamente tutti. Limitandoci alle sole emissioni di CO2 da combustibili fossili e industria, oggi la quantità emessa nel mondo è il 60% in più del 1995 e le emissioni cumulate negli ultimi 28 anni hanno quasi raggiunto quelle cumulate dal 1850 al 1995. Si può sempre argomentare che senza le 28 dichiarazioni finali, faticosamente messe insieme alla fine di ogni COP, i risultati sarebbero stati peggiori, ma qualche ulteriore numero aiuta a farsi un’idea più precisa del quantum.
L’Unione Europea, che sin dalla prima COP si è autoassegnata il ruolo di apripista, di esempio per il resto del mondo e per questo ha varato in questi 28 anni una serie molto lunga di direttive e regolamenti per abbattere le emissioni, ha effettivamente ridotto quelle di CO2 , da 3,6 a 2,8 miliardi di tonnellate/anno, 800 milioni di tonnellate/anno in meno.
Ma non l’hanno seguita nemmeno gli altri Paesi sviluppati più virtuosi (si fa per dire): meno 190 milioni di tonnellate/anno il Giappone, meno 40 gli Stati Uniti.
Non parliamo poi di Cina e India, che da sole, oggi emettono 11 miliardi di tonnellate/anno in più rispetto al 1995. Così, mentre l’Unione Europea, faticosamente tagliava 800 milioni di tonnellate/anno, il resto del mondo incrementava le emissioni annue di ben 15 miliardi di tonnellate. Con il risultato che oggi le emissioni di CO2 dell’Unione
Europea sono poco più del 9% del totale mondiale e quelle di tutti i gas serra appena il 6% (quelle dell’Italia 0,9 e 0,65%, rispettivamente).
Sono numeri che impongono una profonda riflessione, soprattutto sulle scelte tecnologiche che l’Unione Europea ha fatto in questi anni, volendo indicare la strada, che di fatto nessuno ha veramente seguito.
Una ricetta che non funziona
Il taglio di 800 milioni di tonnellate all’anno è stato infatti vanificato dall’aumento 19 volte superiore nel resto del mondo soprattutto perché la ricetta proposta dagli autoproclamati apripista semplicemente non funziona. E la ragione principale è che i Paesi in via di sviluppo fanno un uso smodato, e dal loro punto di vista inevitabile, dei combustibili fossili peggiori. Nel 2022, l’82% del fabbisogno energetico mondiale è stato coperto da combustibili fossili, una quota simile a quella dei Paesi OCSE (77,5%) e non troppo più alta dell’Unione Europea (71,3%).
Quali combustibili usa il mondo
Ma le cose cambiano se guardiamo quali combustibili. In India e Cina (insieme fanno il 36% della popolazione mondiale) il 55% del fabbisogno energetico è stato coperto da da carbone (il peggior combustibile per emissioni di CO2), il doppio della media mondiale e il quadruplo della media dei Paesi OCSE e dell’Unione Europea (pur con qualche eccezione, dato che nella “verde” Germania la quota carbone è una volta e mezza la media UE).
In valore assoluto India e Cina usano oggi i 2/3 del carbone che si consuma nel mondo. E lo usano, oltre che nell’industria pesante, soprattutto per generare energia elettrica (61% in Cina, 75% in India). Certo, fa ben sperare che da eolico e solare Cina e India generino rispettivamente il 13% e il 9% dell’energia elettrica Ma pensare di sostituire simili quantità di carbone, una fonte continua e modulabile ancorché estremamente inquinante, solo con rinnovabili variabili (solare ed eolico), necessariamente associate a sistemi di accumulo di breve e lungo periodo, modello proposto dall’Unione Europea per 28 anni, non è evidentemente una soluzione sostenibile.
Il ruolo del vettore elettrico
Al vettore elettrico bisogna riservare un occhio davvero di riguardo, dal momento che tutti gli scenari a zero emissioni implicano una forte elettrificazione degli usi finali, dai trasporti alla produzione di calore (sino al 55% contro il 20% attuale) e l’ulteriore impiego di energia elettrica per la produzione di idrogeno da destinare agli usi difficilmente elettrificabili. E questo farà accrescere enormemente la domanda elettrica.
L’addio ai combustibili fossili: l’opzione nucleare con la dichiarazione a Cop28
Per questo, tornando alle conclusioni di COP28, è certamente apprezzabile che per la prima volta sia esplicito l’impegno di abbandonare l’uso dei combustibili fossili. Anche se bisogna segnalare che c’è anche scritto che ciò dovrà avvenire in modo “giusto, ordinato ed equo”, con piena libertà per ciascuno di interpretare a modo suo il significato dei tre aggettivi, e non v’è cenno a come far sì che ciò avvenga in tutto il mondo, con quali risorse, quali strategie. E qui si potrebbe aprire un nuovo capitolo: investire nei Paesi in via di sviluppo sarebbe una strategia assai più efficiente ed efficace per ridurre le emissioni globali.
Tuttavia, anche se non esplicitamente scritto, anche nelle precedenti 27 COP era chiaro che si dovesse “uscire dai fossili”. Per questo a me sembra che la novità più importante sia il riconoscimento della necessità di un approccio più razionale, meno ideologico e
tecnologicamente neutro alla decarbonizzazione. Cioè il punto delle conclusioni dove si legge: “accelerare la diffusione di tecnologie low-carbon, incluse, tra l’altro, le rinnovabili, il nucleare, la cattura, riuso e/o sequestro della CO2 e la produzione di idrogeno low-carbon“.
Peccato l’Italia…
Per questo motivo, ancor più dispiace che l’Italia non abbia sottoscritto la dichiarazione a favore del nucleare presentata da 22 Paesi, Stati Uniti, Bulgaria, Canada, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Ghana, Ungheria, Giappone, Repubblica di Corea, Moldavia, Mongolia, Marocco, Paesi Bassi, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Svezia, Ucraina, Emirati Arabi Uniti e Regno Unito.
Il governo italiano avrebbe dato corpo agli impegni presi dando parere favorevole alle
due mozioni approvate alla Camera dei Deputati il 9 maggio scorso. Né vale la giustificazione che oggi l’Italia non produce energia nucleare: non la producono nemmeno 5 dei Paesi firmatari. Un’occasione persa di ricollocarsi nel contesto internazionale: ci sarà modo di rimediare.