La giustizia americana affila le armi contro Google. Il colosso tech si trova ad affrontare una serie di accuse che mettono in discussione il suo monopolio nel mercato digitale, con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ) pronto a contestare le sue pratiche commerciali.
Dai controversi accordi con giganti come Apple e Mozilla Foundation, alla disputa con Epic Games, le ccontestazioni potrebbero aprire scenari inediti nel futuro prossimo del mercato digitale e della stessa Google.
Le contestazioni del DOJ nei confronti di Google
Partiamo dal caso che sta facendo scalpore: il processo avviato dai Dipartimenti della Giustizia (DOJ) di trentotto Stati dell’Unione nei confronti del gruppo Alphabet Inc. Dal 19 settembre 2023 si stanno svolgendo le udienze, continue e serrate, nelle aule giudiziarie statunitensi e ogni giorno vi sono notizie circa il suo andamento che ha luogo presso la District Court di Washington D.C. dove dovrebbe concludersi nei primi mesi dell’anno 2024.
Le contestazioni mosse dal DOJ nei confronti del colosso tech del nord della California si possono riassumere in poche parole, seppure l’esame degli atti processuali richieda un intenso lavoro di analisi e un approfondimento che solo i collegi di difesa delle società implicate nel giudizio sono in grado di conoscere e di svolgere, presentando al giudice le rispettive deduzioni.
Al gruppo si contesta da parte dei ricorrenti di avere utilizzato fondi dell’impresa e la forza derivante dalla posizione dominante che essa occupa nel mercato della comunicazione digitale per sbaragliare i concorrenti e per impedire un’effettiva concorrenza nell’ambito del marketing digitale e della pubblicità online.
In primo luogo, nel processo in questione si dibatte sul fatto che Google detenga una posizione dominante nel settore di pertinenza (un monopolio per usare il termine utilizzato prevalentemente in atti) e, poi, sulla circostanza che la stessa azienda abbia abusato di tale dominio compromettendo il regolare andamento della competizione nei segmenti di attività che la vedono coinvolta.
Le accuse di violazione dello Sherman Act
Le accuse di violazione dello Sherman Act (in particolare la Section 2 della normativa)[1] mosse a Google dai diversi DOJ riguardano il comportamento adottato dall’impresa nell’impedire a terzi di gareggiare sul terreno competitivo in cui opera e in cui la società capitanata da Sundar Pichai è cresciuta in modo esponenziale.
In particolare, secondo l’accusa, Google avrebbe stretto accordi con Apple e con la Mozilla Foundation al fine di divenire il motore di ricerca di “default”, cioè quello che viene automaticamente inserito nei programmi di navigazione in Internet, nei terminali mobili distribuiti negli Stati Uniti.
Google avrebbe quindi ostacolato lo sviluppo di piattaforme concorrenti versando, negli ultimi 12 anni, circa 10 miliardi di dollari all’anno alla Apple, a Microsoft e ad altre imprese del settore per avere la certezza di essere il motore di ricerca predefinito sugli smartphone a sistema iOS e Android[2].
Le implicazioni degli accordi tra Google, Apple e Mozilla Foundation
Negli Stati Uniti, che è il mercato rilevante ai fini della decisione della causa di cui ci occupiamo, i dati raccolti riportano che il sistema operativo “iOS” (di Apple) detenesse, al 31 dicembre 2022, una quota pari al 56%, mentre ad “Android” sarebbe da attribuire il restante 44%. In riferimento a tale ultimo sistema operativo, Google ha stipulato accordi con Samsung e con altri fabbricanti di smartphone, per vedere installato il proprio motore di ricerca sui loro dispositivi, avvalendosi di due tipologie di vincolo contrattuale: uno “non esclusivo” (il c.d. MADA[3]) e un altro “esclusivo” (il RSA[4]).
Il primo tipo di accordo prevede che il sistema “Google Search” o il suo omologo “Google Chrome” siano preinstallati sugli smartphone, ma non obbliga il produttore ad impedire l’impiego di altri software di ricerca da parte dei distributori e degli utenti, mentre il secondo accordo – stabilendo a favore dei produttori dei corrispettivi basati sulle vendite ed essendo disponibile anche agli operatori che hanno siglato il MADA – farebbe dedurre che esso implichi la sussistenza di un obbligo di esclusiva fra le parti nel collocare il motore di ricerca di default sui terminali mobili.
Seppure non esistano ragioni che supportino l’esistenza di una violazione delle norme antitrust nella semplice sussistenza di accordi di esclusiva del genere sopra illustrato, per quanto il giro di affari di queste operazioni sia economicamente rilevante[5], il tema risulta fortemente complesso e controverso, alla luce di tutta una serie di dati emersi dalle prove documentali e testimoniali raccolte durante il processo.
La posizione assunta in giudizio dall’impresa controllata da Alphabet, Google Inc., è quella di considerare la decisione presa di volta in volta dai produttori di apparati mobili verso l’utilizzazione di un motore di ricerca predefinito, alla stregua di una loro scelta autonoma e indipendente per fornire ai propri clienti il migliore servizio possibile, mentre la posizione dell’accusa è quella di considerare tali comportamenti come illeciti sul piano concorrenziale in quanto atti a cementificare il monopolio detenuto da Google nel settore delle ricerche on-line e nel correlato mercato pubblicitario.
Google e le accuse di monopolio
Dall’esame dei resoconti tratti dai verbali delle varie udienze sin qui tenutesi in questa causa, si evincono alcuni dati che fanno riflettere circa la situazione determinatasi nel tempo nell’ambito del mercato di riferimento: se è vero che Google detiene nel proprio paese il 90% del segmento delle ricerche su piattaforma digitale e tale risultato è dovuto, come sostiene l’impresa di Cupertino, dalla propria superiorità tecnica, va anche osservato che per sostituire nel proprio smartphone “Google Search” o “Google Chrome” con un diverso motore di ricerca (es. “Bing”), sono necessari dieci passaggi, il che implicherebbe un’oggettiva difficoltà per gli utenti tale da disincentivarli dall’effettuare la modifica delle impostazioni di base dell’apparecchio.
D’altronde, anche le affermazioni rese in giudizio dai delegati di Microsoft, secondo cui è impensabile ipotizzare oggi un settore digitale online ove possa esistere un motore di ricerca diverso da quello detenuto da Google (esiste, secondo loro, il “Google Web”), appaiono preoccupanti non solo perché il monopolio dell’impresa di Cupertino minaccia non solamente l’esistenza di una effettiva concorrenza nel mercato rilevante, ma anche la sopravvivenza di altri operatori presenti nella stressa arena.
Infatti, secondo le dichiarazione dei suoi delegati, Microsoft, che negli ultimi venti anni ha sborsato 100 milioni di dollari all’anno per migliorare il proprio motore di ricerca “Bing” al fine di rendere tale prodotto più competitivo e potente, con il trascorrere del tempo e il consolidamento della posizione dominante di Google, considera il suo apparato di ricerca alla stregua di un “servizio pubblico” senza possibilità di paragonarsi con il rivale, almeno in temini di numero di utenti e di ricavi pubblicitari.
Lo strapotere di Google nell’adv online
In merito alla massiccia presenza di messaggi pubblicitari che affollano le pagine web della piattaforma della società di Cupertino, dalle dichiarazioni dei testimoni nel processo si percepisce come appaia difficile, se non impossibile, per i “centri media” pensare che si possa eliminare tale veicolo promozionale dalla piattaforma di Google o di trasferirlo altrove (es. su “Facebook”), dal momento che in qualsiasi campagna pubblicitaria degli inserzionisti statunitensi è necessario che i loro messaggi promozionali siano inseriti anche su tale piattaforma: tanto che questa si tradurrebbe in una scelta “obbligatoria” da parte dei concessionari di pubblicità[6].
I delegati delle stesse piattaforme che forniscono servizi online al pubblico in differenti segmenti del mercato globale, le quali hanno acquisito da numerosi anni il ruolo di partner di Google per il loro posizionamento e per la raccolta di ordini, hanno espresso nel processo posizioni non sempre omogenee, definendo – da un lato – la piattaforma di Google Search come un “dittatore benevolo” (“Booking”, udienza del 13 ottobre 2023) e – dall’altro – lamentando la mancanza di un incremento nelle vendite e negli introiti promosse su Google, nonostante negli ultimi cinque anni siano state moltiplicate per dieci le fee di agenzia a loro carico (“Expedia”, udienza del 19 ottobre 2023), contestando che il corrispettivo da pagare da parte degli inserzionisti per mantenere il medesimo livello di visibilità sulla piattaforma di Mountain View sia divenuto sempre più costoso (Prof. W. Almadoss, esperto di marketing digitale, udienza del 25 ottobre 2023).
La difesa di Google dalle accuse di monopolio
La difesa di Google, oltre ad incentrarsi sul merito qualitativo e, quindi, sulla superiorità dei propri servizi rispetto ai competitor, sottolinea di avere dovuto affrontare una concorrenza agguerrita per divenire il motore di ricerca predefinito di molti operatori, tanto che Yahoo!, nell’anno 2011 sarebbe stata scelta dal service provider AT&T per i propri dispositivi (Barton, ex dirigente Google, udienza del 13 settembre 2023).
Inoltre, Google ha evidenziato che, nell’ambito delle contestazioni mosse dal DOJ circa la presenza sul mercato di un’impresa monopolista, essa afferma di avere dovuto lungamente competere con Apple, la quale oltretutto – attraverso il sistema operativo iOS – possiede una fetta preponderante in quel contesto negli Stati Uniti.
Le questioni da dirimere
Da questa sintetica illustrazione dei temi centrali della causa in argomento, notiamo come siano molti gli aspetti che la decisione dei giudici in questo processo dovranno chiarire. Fra questi dovrà dirsi: se esista (o meno) un mercato dei motori di ricerca “generalisti” e un altro di “nicchia”, se sussista un (vero) interesse di Google a essere l’unico search engine predefinito nei servizi di navigazione via Intenet, se la posizione dominante di Google come motore di ricerca blocchi il mercato competitivo e ciò venga fatto dall’impresa di Cupertino in maniera anticoncorrenziale versando miliardi di dollari per mantenere il proprio status di impresa leader del mercato.
Nel mentre si profila una parte conclusiva della battaglia giudiziaria di fronte alla Corte di Washington D.C. senza esclusione di colpi per determinare se le norme antitrust debbano ridurre o meno l’impatto della presenza pervasiva di Google nel settore dei motori di ricerca, anche in relazione al sempre più avanzato impiego degli algoritmi di intelligenza artificiale che ne stanno potenziando l’uso, l’esito della vicenda appare tutt’altro che scontato e non è neppure certo che, qualunque decisione venga presa dai giudici, essa sarà positiva per il mercato.
Comunque vada non sarà una catastrofe per Google
Invero, anche qualora venisse provato che l’attuale posizione dominante di Google nel segmento dei programmi di ricerca sui terminali mobili sia stata favorita o resa possibile attraverso gli accordi stipulati con i potenziali competitor ovvero con i produttori di software (algoritmi) concorrenti, ovvero ancora con i produttori degli smartphone e, tutto questo, con l’incremento artificiale dei prezzi pubblicitari, gli esiti della decisione non si profilano come catastrofici per Google.
Secondo gli esperti, nel caso in cui Google Inc. venisse ritenuta responsabile di condotte antitrust, la soluzione più probabile che potrebbe determinarsi per il gruppo Alphabet – oltre all’applicazione delle sanzioni pecuniarie previste per legge – non potrebbe andare al di là di una frammentazione dell’azienda in segmenti separati e controllati nelle loro interazioni. Difficilmente si può oggi pensare a qualcosa di diverso e difficilmente questo muterà sostanzialmente il dominio dell’impresa convenuta.
Il caso Google Play Store vs Epic Games
Svolte queste notazioni di carattere generale sul “processo antitrust del secolo”, così come esso viene definito, a questa vicenda va aggiunto un tassello non privo di rilievo per il gruppo Alphabet: il nostro riferimento va alla decisione nella causa antitrust che vedeva contrapposte, di fronte ai giudici del Northern District of California, la Google Play Store e la Epic Games che ne ha denunciato i comportamenti anticoncorrenziali.
In questo caso, che va a toccare una serie di comportamenti posti in essere sul mercato da Google in qualità di impresa proprietaria del sistema operativo “Android”, si è pronunciata la giuria popolare con il voto dell’11 dicembre 2023.
In tale decisione, fortemente contestata da Google, in primo luogo si è stabilito che:
i) esiste un mercato rilevante delle applicazioni digitali relativo ai terminali mobili che utilizzano il sistema operativo “Android”;
ii) in tale ambito vi è anche un mercato dei servizi di pagamento inseriti nelle suddette applicazioni per effettuare transazioni commerciali di beni e servizi;
iii) tali mercati riguarda il mondo intero eccettuata la Cina.
Inoltre, la giuria ha stabilito che – nell’ambito sopra descritto – Google Play Store avrebbe acquisito una posizione dominante intraprendendo condotte anticoncorrenziali che si sostanzierebbero nella stipula di accordi atti a restringere in maniera irragionevole il mercato rilevante. Tali accordi, raggiunti da Google con apparenti o potenziali concorrenti, sarebbero stati coronati sia con i produttori di smartphone,[7] che attraverso il pagamento agli sviluppatori di applicazioni per giochi on-line, di somme ingenti[8] per incentivarli a metterli a disposizione del pubblico esclusivamente sul Google Play Store.
Ciò avveniva in quanto la Epic Games aveva deciso, al lancio del proprio gioco denominato “Fortnite” nell’anno 2018, che esso sarebbe stato disponibile solo sul proprio sito web – o sulla app “Play Fortnite” – per evitare di riconoscere l’elevata commissione sul prezzo di vendita pretesa da Google.[9]
I suddetti pagamenti sarebbero stati erogati attraverso la partecipazione degli sviluppatori a due progetti denominati rispettivamente “Project Hug” e “Apps and Games Velocity Program”, creati da Google allo scopo di prevenire che i produttori di terminali mobili, come Samsung, accettassero di preinstallare sui propri apparecchi lo store on-line della produttrice di giochi Epic Games[10], la quale avrebbe potuto in tal modo trascinare con sé altri sviluppatori, tanto da incidere negativamente sulla posizione dominante del Google Play Store in questo segmento del mercato.
Inoltre, scrive la giuria che ha deciso questa causa, Google ha creato un “tie-in” illecito, collegando l’uso del Google Play Store al sistema di pagamento Google Play Billing, così da costringere gli utenti delle applicazioni on-line da essa stessa gestite, anche se di proprietà di terzi, a utilizzare un metodo di pagamento per il quale Google ha percepito utili addizionali, a detrimento della concorrenza.
Nel concludere il verdetto che riassume la volontà dei dieci giurati, reso dopo una discussione durata meno di quattro ore, la giuria ha stabilito quindi che Epic Games ha subito un danno rilevante dal comportamento abusivo di Google e, a tale titolo, essa va risarcita.
La presenza di collegamenti fra la causa antitrust di maggiore ampiezza e valenza sopra tratteggiata e la decisione del caso Epic Games è indubitabile per la comunanza in entrambi i casi di questioni che vanno a toccare il mercato rilevante in cui agisce Google e la posizione di sudditanza dei suoi concorrenti.
Conclusioni
Tuttavia, seppure ci troviamo di fronte a un’impresa che detiene un monopolio nel settore della tecnologia, rafforzato dal possesso di un sistema operativo, l’Android[11], ad opinione di chi scrive risulta assai difficile che si possa incidere in maniera significativa sulle attività di Google nell’attuale consolidato mercato digitale, facendo leva sugli strumenti giudiziari[12].
Proprio in questa direzione, è utile evidenziare che il 18 dicembre 2023, Google ha manifestato la propria disponibilità a definire parte delle vicende oggetto dell’azione antitrust del DOJ, che potenzialmente include anche vicenda oggetto del contenzioso con Epic Games di cui appresso diremo, attraverso una modifica del proprio “Play-Store” consentendo il pagamento diretto da parte degli utenti degli acquisti che, attualmente, sono necessariamente vincolati al sistema di billing incluso nella sua piattaforma.
Google metterebbe inoltre a disposizione un fondo per la definizione amichevole dei contenziosi per gli abusi della sua posizione dominante negli U.S.A. per un ammontare di 630 milioni di dollari, oltre a ulteriori 70 milioni da versare alle casse degli Stati che hanno promosso l’azione antitrust nei suoi confronti.
Un discorso non dissimile vale per molte delle imprese che si trovano oggi “alla sbarra” per abusi concorrenziali, come sta accadendo ad Amazon, Meta e ad altre aziende del settore. Era infatti prevedibile che il consolidarsi del mercato digitale globale avrebbe generato dei “mostri” che dettano legge nella comunicazione, nella gestione e nella distribuzione di beni e servizi e nelle stesse scelte di pensiero, politiche e commerciali mondiali[13].
C‘è da sperare, senza certezze, che anche l’Europa si presenti preparata alla sfida dell’intelligenza artificiale, prossimo fondamentale tassello del grande puzzle del dominio economico del mondo di domani, anzi, di oggi.
Note
[1] Si tratta di un insieme di norme varate nel 1890 e tuttora in vigore. Tali disposizioni sono richiamate in numerosi documenti aziendali circa il comportamento delle imprese in ambito concorrenziale: per una visione d’insieme delle disposizioni si suggerisce questo URL: https://en.wikipedia.org/wiki/Sherman_Antitrust_Act
[2] Testuale nel motore di ricerca di Google: “Il sistema operativo Android è stato sviluppato da Google per l’utilizzo in tutti i suoi dispositivi touchscreen, tablet e telefoni cellulari. Questo sistema operativo è stato sviluppato per la prima volta da Android, Inc., una società di software con sede nella Silicon Valley prima di essere acquisito da Google nel 2005”. Le quote di mercato nell’intero ambito mondiale, al mese di dicembre 2022, risultavano ripartite per la quota del 72% ad Android e del 27% al sistema iOS di Apple.
[3] L’acronimo sta per “Mobile Application Distribution Agreement”.
[4] Questo termine significa: “Revenue Share Agreement”, per cui una quota degli incassi derivanti dalle licenze concluse da Google viene intascata dai produttori.
[5] Secondo i dati disponibili nel processo, Google riconosce a Apple un importo proporzionale al numero di Google search effettuate dagli utenti, la somma che tiene conto di i-phone e di Mac PC, si aggira sui dieci miliardi di dollari.
[6] Dichiarazione del legale rappresentante di Universal McCann all’udienza del 4 ottobre 2023
[7] Gli accordi con i produttori di terminali che impiegano il sistema operativo “Android” si sarebbero risolti sia in MADA e che in RSA (vedi sopra nel testo).
[8] Secondo informazioni non ufficiali Google avrebbe sottoscritto accordi con i principali venti sviluppatori di giochi determinando perdite per centinaia di milioni di dollari alla Epic Games.
[9] In realtà, successivamente, nell’aprile 2020, la Epic Games aveva messo a disposizione “Fortnite” sul Google Play Store. Peraltro, la stessa Google ha rimosso tale applicazione quando Epic Games vi ha inserito un sistema atto ad evitare la corresponsione delle commissioni a Google nell’acquisto dei servizi aggiuntivi inseriti nell’applicazione stessa.
[10] Si tratta dell’Epic Games Store: https://store.epicgames.com/en-US/
[11] Google opera nei seguenti settori per Wikipedia: “azienda tecnologica multinazionale americana specializzata in intelligenza artificiale, pubblicità online, tecnologia dei motori di ricerca, cloud computing, software per computer, informatica quantistica, commercio elettronico ed elettronica di consumo”.
[12] Nel caso Epic Games, il giudice ha rinviato la causa per la decisione sui provvedimenti esecutivi richiesti e per la misura del risarcimento del danno all’11 novembre 2024, lasciando alle parti la possibilità di trovare, o di fare trovare aliunde, gli aggiustamenti necessari al mercato delle applicazioni e dei giochi on-line.
[13] Sul punto si trova un’anticipazione qui: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/big-tech-e-nuovi-monopoli-opportunita-e-problemi-da-affrontare-gli-scenari/