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Gestione dei dati, le PA italiane fanno male: ecco le competenze che servono



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La pubblica amministrazione è chiamata alla sfida del digitale, con l’intelligenza artificiale come strumento chiave e la gestione dei dati come sfida centrale. Formazione e aggiornamento professionale sono elementi cruciali per sfruttare le nuove tecnologie e garantire un servizio efficiente ai cittadini

Pubblicato il 21 dic 2023

Francesca Cafiero

archivista e responsabile della comunicazione (Studio Legale Lisi, Digital&Law Department e ANORC)

Andrea Lisi

Coordinatore Studio Legale Lisi e Presidente ANORC Professioni, direttore della rivista Digeat



competenze (immagine: https://pixabay.com)

Vi sarà forse capitato di poter ammirare l’immagine che circola in questi giorni sul web con protagonista un inedito John Lennon intento a dedicarsi all’arte dei cappelletti, nella Bologna degli anni ’70.

Peccato che lo scatto, per quanto alcuni siano caduti nel tranello di crederci, non sia stato rinvenuto nel fondo di un cassetto, ma sia frutto di un fake realizzato con un software di intelligenza artificiale (peraltro neppure così sofisticato).

L’opera ha fatto certamente sorridere, ma allo stesso tempo, riflettere: coloro che ci erano cascati erano non solo fan dell’artista, ma anche giornalisti ed esperti comunicatori.

Partiamo da questo simpatico aneddoto per capire quanto oggi si parli con leggerezza di intelligenza artificiale, convinti che cambierà in meglio le nostre vite, ma dimenticando che questa tecnologia si nutre essenzialmente di dati e – se questi non sono affidabili – si crea un meccanismo distorto, con conseguenze ben peggiori di quelle che può provocare la diffusione di un simpatico fake (ma con la stessa facilità).

Ancora, pensiamo a cosa potrebbe significare l’applicazione dell’IA nel contesto ancora confuso di molte PA italiane, magari con la convinzione – del tutto errata – che questo tipo di “intelligenza” possa essere la panacea in grado di risolvere una serie di problemi endemici del nostro sistema Paese.

La competenza non è un’emergenza

Se la pandemia ci ha dimostrato che noi italiani, proprio nei momenti critici, siamo in grado di dare il meglio, speriamo allora che non ci voglia sempre e solo una misura “emergenziale” per far smuovere la nostra intelligenza. E il rafforzamento del comparto manageriale a cui spetta la guida della transizione digitale nelle migliaia di pubbliche amministrazioni italiane dipende al momento dai titanici fondi stanziati dal PNRR, la cui erogazione si gioca su un certo ritmo “emergenziale” e a volte -almeno questa è la sensazione- mosso dalla ricerca spasmodica dell’ultima tecnologia digitale miracolosa, piuttosto che dallo studio attento delle esigenze che parta magari dalla formazione delle risorse umane.

Ciò che questi strumenti digitali ci spingono a porre in essere con una certa fretta ha però ben poco di emergenziale, poiché dovrebbe essere ormai chiaro che non sarà la tecnologia da sola, men che meno l’IA, a far transitare l’Italia verso l’era digitale, ma serve qualificare i dati pubblici e razionalizzare i processi organizzativi affidandosi anche a professionisti esperti di digitalizzazione che sappiano indirizzare certe scelte necessarie.

Qualità dei dati, competenze e servizi pubblici: le chiavi per uscire dal pantano

Tutto questo, senza tanti clamori, lo si sta affermando da oltre trent’anni. Solo l’innalzamento del livello di qualità dei dati può incidere proporzionalmente sul livello di qualità dell’azione amministrativa e dei servizi pubblici. Se continuiamo a pensare che misure straordinarie o applicazioni innovative possano risolvere il problema della semplificazione amministrativa, ci stiamo illudendo. E tra pochi anni ci pentiremo amaramente di non aver sfruttato il PNRR in una direzione – pur ostinata e contraria – e cioè quella della valorizzazione dei dati attraverso lo sviluppo, non di tecnologie, ma prima di tutto di competenze interdisciplinari in grado di disegnare l’innovazione digitale che serve a snellire la burocrazia che ha da tempo impantanato il nostro Paese.

Gestione e protezione dei dati personali: il monitoraggio di ANORC

Purtroppo, ad oggi, dati recentissimi alla mano, sono ancora pochissime le pubbliche amministrazioni in regola sulla corretta gestione e protezione dei dati personali. È quanto emerge infatti dall’indagine realizzata dall’Associazione nazionale degli Operatori Responsabili della Conservazione dei dati (ANORC) e presentata alla Camera dei deputati durante il suo ultimo Forum.

Il quadro è davvero sconfortante: neanche una pubblica amministrazione su dieci ha nominato un Responsabile della conservazione e solo l’8,5% ha pubblicato il Manuale della conservazione aggiornato alle Linee guida AgID. Eppure, in Italia i modelli di conservazione e protezione sono – ahinoi, sulla carta! – tra i migliori in Europa: cosa manca davvero per applicarli? Evidentemente chi sia in grado di tradurre nella pratica queste architetture, magari monitorandone la qualità nel tempo.

Lavoriamo all’intelligenza, non all’ignoranza artificiale

A volte si ha la sensazione di perdersi nella nebbia del totale analfabetismo in termini di custodia digitale dei dati. È questo il tempo giusto per pensare non già alla prossima, mirabolante tecnologia da applicare, ma per sviluppare competenze anche negli scenari dell’IA dove la verifica delle fonti delle informazioni sarà sempre più importante, perché l’ipertrofia informativa che viviamo può ingannare facilmente appunto anche i più “esperti”, attraverso appunto fake news e deepfake.

E figure professionali come quelle dell’archivista digitale, del privacy manager e del manager della transizione digitale saranno sempre più rilevanti, anzi indispensabili, proprio nelle pubbliche amministrazioni dove la qualità del dato (e della tenuta degli archivi) è la base per la garanzia della pubblica fede. Del resto, come ripete da tempo Donato Limone, il quale, lo ricordiamo, è Presidente del Comitato consultivo, Presidenza del Consiglio dei ministri, Sottosegretario di Stato con delega all’innovazione e alla trasformazione digitale, se i dataset sono incompleti e inesatti è ignoranza artificiale, non di certo intelligenza.

Conclusioni

Infine, un’ultima riflessione che possa costituire anche un monito per chi ha l’arduo compito di regolamentare oggi gli scenari digitali che ci riguardano: il diritto non può inseguire ogni tecnologia che si presenta luccicante all’orizzonte, così come non può farlo la struttura del nostro Sistema Paese. A meno che di non ritrovarci, in un futuro neppure lontano, ad assistere alla circolazione di foto ritraenti i nostri impiegati pubblici degli anni venti o trenta del duemila a impastare cappelletti sulle loro scrivanie e -magari- vista la ormai totale sostituzione di risorse umane con l’intelligenza artificiale, ritenerle del tutto realistiche.

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