Nel dicembre del 2023 Google è stata dichiarata colpevole dalla giuria Distretto Settentrionale della California di mantenere un monopolio illegale nel suo Google Play Store e nel servizio di fatturazione di Google Play. Questo caso, che ha attirato l’attenzione globale, è stato descritto dalle testate come un evento di portata storica. Ma è davvero così?
Sicuramente si tratta di una sentenza importante che si inserisce nel più ampio contesto delle indagini antitrust che stanno interessando i colossi della Silicon Valley e che contribuirà, insieme ad altre pronunce, a formare un quadro regolamentare del nuovo mercato digitale mondiale. Tuttavia, i principi espressi dalla corte, sono principi assodati e pacifici, già applicati in Europa e fortemente voluti nei nuovi regolamenti UE, entrati in vigore negli ultimi anni.
Processo a Google, perché la decisione di colpevolezza
Il procedimento USA ha avuto origine dalle accuse mosse da parte di Epic Games contro Google per le sue pratiche commerciali relative al Google Play Store, la principale piattaforma per la distribuzione di applicazioni per dispositivi Android. La questione centrale riguardava l’egemonia e il totale controllo del mercato di Google per ostacolare la concorrenza, imponendo restrizioni agli sviluppatori di app e ai consumatori. Particolare attenzione è stata rivolta al modo in cui Google gestiva il suo sistema di fatturazione che, secondo le accuse, oltre a limitare la libertà di scelta, imponeva commissioni eccessive.
L’interesse del procedimento nasce anche dal fatto che lo stesso si è sviluppato in un periodo storico in cui il settore tecnologico è stato- ed è tuttora – sottoposto a livello globale a un esame senza precedenti in termini di pratiche commerciali e di impatto sulla società. Di conseguenza le preoccupazioni della giuria (popolare, non tecnica) hanno riguardato non solo il comportamento anticoncorrenziale, ma anche le implicazioni per la privacy, la sicurezza dei dati e l’impatto su piccole imprese e consumatori. Questo scenario ha fornito il contesto per un dibattito più ampio sul ruolo e la responsabilità delle grandi aziende tecnologiche nell’economia digitale. Il processo, che ha conseguentemente attratto un’attenzione mediatica significativa, ha messo in evidenza diverse “issues”.
Perché è una decisione importante
Rivoluzione regolamentare, quindi? Assolutamente no. La vera notizia di questa storia, oltre alle importanti conseguenze pratiche sugli store (non solo di Google), è l’attenzione da parte degli USA. Il caso evidenzia in modo lampante la crescente preoccupazione per le pratiche commerciali delle aziende tecnologiche, facendoci ritenere che, non solo l’Europa, ma anche gli Stati Uniti, potrebbero iniziare a scrivere normative (al momento quasi assenti) sulla regolamentazione specifica del settore tecnologico e digitale.
Infatti, come già detto, il nucleo delle accuse mosse contro Google nel processo riguardava la violazione di norme antitrust e le specifiche violazioni riguardavano le sezioni 1 e 2 dello Sherman Act, una legislazione storica negli Stati Uniti risalente al 1890 (sì, non ho sbagliato il posizionamento dell’otto e del nove) che mira a prevenire e sanzionare le pratiche anticoncorrenziali e i monopoli.
Cosa dice lo Sherman Act
La Sezione 1 dello Sherman Act, in particolare, proibisce accordi, complotti o cospirazioni che restringano indebitamente la concorrenza. Nel caso di Google, le accuse si concentravano sull’idea che l’azienda avesse creato un ecosistema chiuso intorno al suo Google Play Store, imponendo restrizioni agli sviluppatori di app e ai consumatori che limitavano indebitamente la concorrenza nel mercato delle app. Questo includeva l’imposizione di termini e condizioni che obbligavano gli sviluppatori a utilizzare esclusivamente il sistema di fatturazione di Google Play per le transazioni in-app, limitando così la libertà di scelta e potenzialmente innalzando i costi per gli sviluppatori e i consumatori.
La Sezione 2 dello Sherman Act invece si concentra sulla condotta monopolistica, proibendo gli sforzi per acquisire o mantenere un monopolio attraverso mezzi impropri. Le accuse sostenevano che Google avesse abusato della sua posizione dominante nel mercato per mantenere e rafforzare il suo monopolio nel settore delle app per dispositivi Android. In particolare, si sosteneva che Google avesse impedito ai concorrenti di entrare o di competere efficacemente nel mercato, attraverso pratiche come l’obbligo di utilizzare il proprio sistema di fatturazione e la promozione preferenziale delle proprie app e servizi.
La tesi dell’accusa
L’accusa ha sostenuto che queste pratiche non solo limitavano la concorrenza ma causavano anche un danno significativo ai consumatori (prezzi più alti per gli utenti) e agli sviluppatori di app, riducendo la scelta e l’innovazione nel mercato. Alla fine, il punto – condivisibile – è sempre questo: il monopolio impedisce ad altri di entrare. E di conseguenza, impedisce l’innovazione. Ne abbiamo già parlato in occasione di un altro procedimento “storico”, poco più di un mese fa: quello nei confronti di Amazon.
Alla luce di tutta questa analisi, come noto, la giuria del Distretto Settentrionale della California, dopo aver analizzato una vasta gamma di prove, inclusi documenti interni di Google, testimonianze di esperti, e analisi di mercato (interessanti le questions della giuria) ha raggiunto un verdetto che sicuramente segnerà la quotidianità tecnologica di tutti noi utenti: niente più store in monopolio per Google (si legga Apple o Microsoft). E per arrivare a questa conclusione la giuria ha dovuto stabilire non solo che Google aveva potere di mercato significativo, ma anche che aveva agito volutamente in modo da preservare e abusare di questo potere in modo anticoncorrenziale.
Gli impatti della sentenza: più concorrenza nel mercato app
Uno degli impatti più immediati del verdetto sarà quindi la promozione di una maggiore concorrenza nel mercato delle app e dei servizi digitali. Tutte le aziende tecnologiche potrebbero quindi essere indotte a modificare i loro approcci quantomeno in relazione agli store e ai rapporti con gli sviluppatori consentendo una maggiore flessibilità nelle opzioni di fatturazione e negli accordi oltre a una riduzione delle commissioni e delle barriere all’ingresso per piccoli sviluppatori e startup. Ma ci aspettiamo che i principi possano essere assorbiti dalle piattaforme non solo per ciò che riguarda dettagliatamente gli store, ma in generale in ogni ambito, perlomeno allo scopo di evitare procedimenti e sanzioni.
Lo scenario USA: verso cambiamenti normativi
Ma soprattutto il verdetto, l’ennesimo sul tema, potrebbe finalmente influenzare i regolatori e i legislatori statunitensi. Potremmo assistere oltre ad un aumento delle indagini e delle azioni di regolamentazione contro altre aziende tecnologiche, anche ad un rafforzamento delle leggi esistenti o all’introduzione di nuove leggi per prevenire pratiche commerciali anticoncorrenziali, rendendo meno evidente il gap in tal senso con l’Europa, gap di cui parleremo a breve.
Le conseguenze in Europa
Del resto, una regolamentazione negli USA avrebbe conseguenze anche oltre oceano, così come il verdetto che, nonostante sia stato emesso in un tribunale statunitense, avrà implicazioni globali. Le aziende tecnologiche operano in un mercato mondiale e le decisioni prese in un paese possono avere effetti in tutto il mondo. Potremmo assistere a cambiamenti nelle pratiche commerciali delle aziende tecnologiche non solo negli Stati Uniti, ma anche in altre regioni, compresa l’Europa e l’Asia.
In Europa, nello specifico, la regolamentazione antitrust ha già preso di mira varie aziende tecnologiche. Il Vecchio Continente (che in realtà agisce con una visione futuristica come nessun altro) ha una storia distinta di interventi normativi, provvedimenti e sentenze, nel settore della tecnologia, con diversi casi significativi che hanno stabilito precedenti importanti.
Commissione europea, le multe a Google: i precedenti
La Commissione Europea ha già preso di mira Google in diverse occasioni, stabilendo importanti precedenti nel diritto antitrust. Uno dei casi più notevoli è stato quello relativo a Google Shopping. Nel 2017, la Commissione Europea ha multato Google per 2,42 miliardi di euro, accusandola di aver favorito il proprio servizio di comparazione prezzi nelle ricerche a scapito dei concorrenti.
Appena un anno dopo, nel 2018, Google ha ricevuto una multa di altri 4,34 miliardi di euro per pratiche illegali relative al sistema operativo Android. La Commissione Europea, in quel caso, ha stabilito che Google aveva imposto restrizioni illegali ai produttori di dispositivi Android e agli operatori di reti mobili per consolidare la posizione dominante del suo motore di ricerca. Credo che questa sia stata la più grande multa antitrust mai inflitta da un regolatore europeo.
Nel 2019, Google è stata multata per la terza volta dalla Commissione Europea, questa volta per 1,49 miliardi di euro, per abuso di posizione dominante nel mercato della pubblicità online tramite la piattaforma AdSense. Si è ritenuto che Google avesse limitato la concorrenza imponendo restrizioni contrattuali ai siti web di terze parti, impedendo loro di mostrare annunci pubblicitari di concorrenti di Google.
Ma non solo Google è stata oggetto di provvedimenti per abuso di posizione dominante. Si parte addirittura nel 2004 con il famoso caso Microsoft, multata dalla Commissione Europea per abuso di posizione dominante nel mercato dei sistemi operativi per PC. Allora la Commissione impose a Microsoft di fornire informazioni tecniche per garantire l’interoperabilità con i software concorrenti e di offrire una versione di Windows senza Windows Media Player. Questo caso può definirsi storico. Il verdetto ebbe un impatto significativo sul modo in cui le aziende tecnologiche ancora oggi gestiscono l’integrazione dei loro prodotti e servizi, così come il successivo caso Intel, qualche anno dopo, che fu multata per poco più di un miliardo di euro per aver usato sconti e altri mezzi per limitare la concorrenza nel mercato dei microprocessori.
Mercato digitale, l’evoluzione normativa europea
In Europa questi casi sono stati fondamentali nel plasmare le politiche e le decisioni future della politica unionale, rafforzando l’approccio proattivo dell’UE nella regolamentazione del mercato digitale, ponendo un’enfasi particolare sulla protezione della concorrenza e dei consumatori. E così è stato.
Si parte addirittura dagli articoli 81 e 82 del Trattato stesso, per passare dal regolamento n.1 del 2003 e alle Direttive su Consumatori, Ecommerce e proprietà industriale, fino ad arrivare ai più recenti GDPR, la 1150, il DSA e il DMA. L’Europa, scegliendo un approccio regolamentare e quindi preventivo, ha ormai un enorme parco legislativo teso a disciplinare e governare, direttamente o indirettamente, i rapporti tra le GAFAM, le imprese e i consumatori.
Una nuova prospettiva sul DMA
In particolare, la sentenza del Distretto Settentrionale della California fornisce una nuova prospettiva sul Digital Markets Act (DMA), legislazione chiave mirata proprio a regolamentare i mercati digitali limitando il potere delle cosiddette “gatekeeper” digitali. Alla luce di questa sentenza, il DMA assume un’importanza ancora maggiore come strumento di regolamentazione.
E quindi, da una parte l’adeguamento transoceanico da parte delle GAFAM ai principi alla base della sentenza avrebbe come conseguenza per l’Europa il fatto che le stesse aziende arriverebbero da questa parte del mondo con delle dinamiche e dei flussi di mercato già “vagliati” dalle autorità statunitensi, viste anche le similitudini degli obiettivi, che potrebbero portare a un approccio più coordinato e unificato per affrontare il potere delle grandi aziende tecnologiche.
Dall’altra parte la decisione californiana potrebbe fungere da catalizzatore per un enforcement più rigoroso del DMA in Europa, soprattutto in considerazione del vero grande problema europeo: la capacità di far rispettare l’impeccabile ed esemplare regolamentazione dell’Unione.
Conclusione
Senza entrare nel merito in questa sede, mi trovo costretto comunque a ricordare e segnalare, ancora una volta, la carenza di adeguamento legale europeo delle grandi aziende, che sembrano smuoversi solo dopo lunghi procedimenti e sanzioni, spesso ignorando la fase di compliance preventiva richiesta dalla normativa. Il verdetto contro Google, che dimostra un serio impegno nel contrastare le pratiche monopolistiche nel settore tecnologico, potrebbe quindi incoraggiare le autorità europee a applicare con maggiore determinazione le disposizioni del DMA?
In Europa abbiamo regole scritte che poi, però, spesso non riescono ad essere applicate per tutelare i consumatori e le aziende. Negli USA, invece, anche in assenza di atti legislativi recenti, la giurisprudenza fa diritto in base a principi in piedi da oltre cent’anni e così riesce a tutelare nel concreto gli interessi di consumatori e aziende. Ora in effetti il DMA è una vera rivoluzione per le GAFAM. Ma cosa accadrà? Riusciremo a farlo rispettare, visti i presupposti? In un mondo veloce come quello digitale, dove l’evoluzione e l’innovazione corrono a ritmi difficilmente acciuffabili dalla legge e dall’iter legislativo, ha più senso l’approccio Europeo o quello statunitense?