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Diversità, inclusione, equità: un miraggio anche nelle aziende di comunicazione



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Un’analisi approfondita delle dinamiche di inclusione, equità e diversità nel settore della comunicazione rivela che un cambiamento culturale è ancora lontano. Persistono pregiudizi e discriminazioni, non solo di genere. Ma c’è anche la sensazione di essere a un punto di svolta

Pubblicato il 18 gen 2024

Davide Arduini

Presidente di UNA



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Diversità, inclusione equità: sono le parole d’ordine che dovrebbero guidare una vera e propria rivoluzione culturale nella società da più di sette anni (da quando, cioè, è nato il movimento #metoo) nelle istituzioni, nelle famiglie, nelle scuole e nel mondo delle aziende. A che punto siamo?

Diversità, inclusione ed equità: il vero cambiamento ha da venire

Devo dire, a malincuore, che il vero cambiamento, al di là di hashtag, feste comandate e indignazioni da social media è ancora tutto da costruire. La prova? Quante volte l’orientamento sessuale, un’identità di genere non binaria, l’etnia, la disabilità o caratteristiche fisiche rappresentano ancora un pregiudizio nella prima valutazione di una persona?

Quante volte, nel vostro quotidiano, la “diversità” ha prodotto in voi scelte comportamentali differenti dal solito?  Lascio a voi la risposta. E vi prego di essere onesti. Perché le “distorsioni cognitive” sono parte di quasi tutti noi, si trasferiscono in modo più o meno consapevole sui nostri comportamenti e riconoscerle è il primo passo per combatterle. A livello individuale e a livello sociale.

Le discriminazioni di genere nel settore della comunicazione

Noi, operatori del settore della comunicazione, pensavamo di esserne un po’ meno toccati. Perché operiamo in un contesto in contatto diretto con i fenomeni sociali, culturali e politici. Perché conosciamo (e contribuiamo a costruire) usi e costumi. Non è così. Lo dimostra una ricerca che WFA (World Federation of Advertisers) ha commissionato a Kantar in 91 Paesi coinvolgendo 160 associazioni (tra cui UNA – Aziende della Comunicazione Unite) e 13mila intervistati operanti nel settore del marketing e della comunicazione.

I risultati italiani sono davvero poco incoraggianti.  Il nostro paese si colloca di ben 4 punti percentuali (a quota 59) al di sotto del benchmark globale dell’Inclusion Index (l’indice che accorpa il senso di appartenenza a un’azienda con l’assenza di discriminazioni al netto della presenza di comportamenti tossici). E a pagarne un prezzo maggiore sono, ancora una volta, le donne.

I molteplici parametri della disuguaglianza

Le discriminazioni di genere vissute o percepite riguardano il 21% delle intervistate vs l’’8% dei colleghi uomini. E i parametri di questa disuguaglianza sono molteplici. Si parte dagli stereotipi (per il 21% delle intervistate) per arrivare all’età, alle responsabilità famigliari e all’equità salariale. Per non parlare di quella piaga multiforme che passa sotto il nome di molestie sessuali. Dove i numeri, pur nella loro rilevanza, sono poco significativi e, sicuramente, poco sorprendenti.

Per molti motivi che passano dalla difficoltà della denuncia per paura di ritorsioni negative all’ancora limitato riconoscimento dei comportamenti “tossici” per questioni di carattere culturale (la famosa “società patriarcale”). Infine, nonostante il 72% degli intervistati riconosca i percorsi fatti dalle aziende di appartenenza per un ambiente di lavoro più sano e inclusivo, solo il 42% percepisce un cambiamento negli ultimi due anni.

Last but not least, il malessere nel posto di lavoro non colpisce solo il genere: più della metà degli intervistati sostiene di essere molto stressato sul luogo di lavoro e solo il 22% crede che la propria azienda sia attiva al fine di ridurre al minimo i rischi per la salute mentale.

Dall’intenzione all’azione: la strada verso una nuova cultura aziendale

La ricerca, peraltro, si focalizza in particolare sulle discriminazioni di genere. Ma credo che se ampliassimo il focus di osservazione all’orientamento sessuale, alle disabilità, all’identità di genere o ad aspetti etnici il risultato sarebbe analogo (se non più preoccupante). Da questo quadro si può trarre una chiara conclusione.

Il settore della comunicazione, nonostante retaggio culturale e valoriale, di fatto non è poi così diverso dalle altre industry. Ma questo, in fondo in fondo, è relativamente poco importante. Se non per il fatto che proprio in quanto formato da aziende che hanno speso decenni a fare da ponte tra aziende e società civile a suon di “carte dei valori”, gestione della reputazione e quant’altro, da questo settore, non ci si aspetterebbero, sugli stessi temi, le stesse carenze. La cosa diventa però importante se, dal passato o dal recente presente, che, anche con le migliori intenzioni, non si può cambiare, nascesse una nuova coscienza da cui derivino nuove responsabilità e, alla fine, una nuova cultura.

Il fatto che il 72% degli intervistati riconosca che le aziende abbiano intrapreso percorsi di cambiamento non è poco. Meno rilevante è sicuramente il fatto che i risultati non siano ancora così evidenti. Non bastano certo due anni per mandare in pensione decenni di cultura patriarcale e di discriminazioni cristallizzate.

Le imprese della comunicazione devono tornare a essere “organizzazioni sociali”

L’aspetto centrale è che siamo davvero a un punto di svolta. Da una parte, c’è l’opportunità della trasformazione. Che significa restituire alle imprese della comunicazione il loro status di “organizzazioni sociali”. Che oltre a un’opportunità è anche una convenienza sotto ogni profilo, dal momento che parliamo di un settore dove il fattore umano e le cosiddette “soft skills” sono fattori critici di successo. Che vuol dire prendere i “manifesti”.

UNA ha appena reso pubblico il suo che è una vera e propria “roadmap operativa” all’insegna della formazione, dell’ascolto e del controllo e renderli materia viva di lavoro quotidiano, di dibattito e di piani d’azione. Dall’altra parte c’è la strada, sicuramente più comoda, delle dichiarazioni di intenti fini a sé stesse. Della semplice adesione formale a codici e codicilli. Della retorica buonista del “washing” (e che sia verde, rosa o arcobaleno poco importa). Che per alcuni potrà sicuramente essere la soluzione. Ma, in quanto uomo, uomo d’azienda e presidente di UNA, mi sento di evidenziarne il rischio.

Se, infatti e come sto vedendo, molte realtà della comunicazione stanno scegliendo la strada del cambiamento, quelle che non lo faranno – necessariamente – ne usciranno perdenti. Faticheranno a difendere la propria credibilità sul mercato. Difficilmente saranno attrattive per i migliori talenti. E, probabilmente, saranno destinate rapidamente a diventare marginali in un mercato dove la rilevanza è un imperativo e non un’opzione. È la società stessa ad avercelo insegnato.

Conclusioni

Gli hashtag, le indignazioni estemporanee, i moralismi da politically correct, le bandiere purtroppo hanno sortito come unico e pericolosissimo effetto quello di rendere strisciante sotto la superficie le tossine sociali. Rendendole forse ancora più nefaste. Guardarle in faccia, senza girare le spalle subito dopo, invece, ne permette una reale elaborazione ed eradicazione. Poi, per quanto riguarda me e l’associazione che rappresento, il cambiamento è sempre un terreno fertile da coltivare senza esitazione e con lo spirito di una positiva evoluzione. Laddove, al contrario, la strenua difesa dello status quo porta, inevitabilmente, alla desertificazione.

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