Geopolitica delle materie prime e innovazione tecnologica sono i due canali su cui corre la transizione ecologica.
L’ambizione di raggiungere la neutralità carbonica è più o meno condivisa da tutte le superpotenze industriali del mondo. Ben 72 Paesi, che rappresentano circa l’80% delle emissioni globali, si sono impegnati a raggiungere il livello “zero emission”.
Il mondo alla sfida zero emission
L’Unione europea si è anche imposta il 2050 come anno di scadenza per realizzare questo obiettivo. Tuttavia, se il capitalismo intende davvero trasformare se stesso in un modello di ritrovato equilibrio tra uomo e ambiente, deve anche fare sintesi tra una serie di fattori che, finora, hanno rappresentato un ostacolo ai suoi target di sviluppo sostenibile.
Secondo il think tank londinese, Energy Transitions Commission (Etc), affinché Bruxelles sia nei tempi e ai patti, sarà necessaria una quantità di energia eolica 15 volte superiore a quella prodotta oggi, 25 volte l’energia solare odierna, nonché il triplo delle dimensioni della rete elettrica che dovrà soddisfare la domanda di energia di una flotta di E-car che, si prevede, sarà 60 volte maggiore di quella in circolazione oggi.
Sfera geopolitica: i dossier internazionali più gravosi
Al netto di queste cifre monstre, che potrebbero suggerire una realistica perplessità su come si potrà davvero fare tutto questo, è evidente che lo scenario geopolitico internazionale rappresenti il primo ostacolo alla realizzazione dei nostri sogni di sostenibilità.
Ecco i dossier più gravosi per comunità internazionale:
- Russia: con la guerra in Ucraina si è irrigidito il regime sanzionatorio dell’Ue nei confronti del regime di Putin. Il “dodicesimo pacchetto” di misure restrittive, emanato da Bruxelles a fine dicembre 2023, va a colpire il settore della ghisa, determinante per la filiera dell’automotive. Il conflitto non sembra veder sbocchi e la nostra economia è la prima a risentirne;
- Dazi Usa vs Ue sull’importazione di acciaio e alluminio: Bruxelles ha messo in stand-by le sue misure di ritorsione, fino a marzo 2025, a patto che Washington escluda dai suoi dazi i prodotti made in Ue. Le parti preferiscono attendere il risultato delle presidenziali Usa di novembre prossimo, per poi decidere se tornare allo scontro, oppure far pace;
- Medio Oriente: la crisi di Gaza si è dilatata al Mar Rosso, i ribelli yemeniti Houthi (sciiti al soldo dell’Iran) si sono trasformati in pirati e ora minacciano di bloccare il traffico merci internazionale tra l’Estremo oriente e il Mediterraneo. In questo caso a essere colpita non sarebbe una commodity specifica, bensì il vettore di trasporto. Con la conseguenza di coinvolgere anche altre materie prime. Per esempio quelle agricole (in primis l’olio di palma), altrettanto strategiche per la nostra industria di trasformazione.
Le criticità strutturali
A queste emergenze, si aggiungono criticità strutturali. Il rapporto Bruxelles-Pechino è ai minimi storici. L’interscambio tra le due potenze è plurisecolare e si è sempre impostato sul modello binario del do ut des: l’Europa esporta know how tecnologico, in cambio di materie prime asiatiche. Ma A) dal momento che l’Asia ha raggiunto la propria neutralità tecnologica da tempo, che se ne fa di competenze e prodotti made in Ue? B) Come può trattare l’Europa con Pechino dove è sempre più rigido il regime autocrate, sovranista e nemico delle imprese?
Infine, c’è il tema delle forniture dai Paesi produttori. Bruxelles ha emanato una serie di regolamenti (Cbam ed Eudr) che alzano lo standard di sostenibilità delle importazioni. Dal legame africano al rame cileno, passando per l’olio di palma indonesiano e malese e la soia argentina. Tutti questi prodotti devono essere, giustamente, Esg compliant al loro ingresso sul territorio Ue. Il problema è che le imprese non possono farne a meno. Una mancata di chiarezza normativa (l’Eudr) o di blocco doganale (i dazi con la Russia) possono portare al blocco produttivo.
Di più: anche le politiche commerciali vanno a rilento. Nei negoziati con il Mercosur, Buenos Aires fa da imbuto. I rapporti con il Kenya si sono sbloccati solo appena prima di Natale. Mentre la Repubblica Democratica del Congo è prossima al voto.
La sfera tecnologica: infrastrutture e materie prime critiche
La conversione industriale dalle fonti rinnovabili a quelle più sostenibili pretende l’installazione di infrastrutture realizzate con materiale di ogni tipo. Acciaio, alluminio, rame, nichel, cobalto, litio, grafite. Queste e tante altre ancora rientrano nella macrocategoria delle materie prime critiche.
Quante ce ne servono?
Secondo le previsioni ufficiali dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, un mondo a zero emissioni di carbonio, nel 2050, avrà bisogno di 35 milioni di tonnellate di metalli verdi all’anno. Entro il 2030 poi, la domanda di rame e nichel potrebbe aumentare del 50-70%, quella di cobalto e neodimio del 150% e quella di grafite e litio di sei-sette volte. Se si aggiungono alluminio e acciaio, si prevede che la domanda potrebbe superare i 6,5 miliardi di tonnellate.
Ancora l’Etc prevede che, entro il 2030, si possano verificarsi carenze di tali dimensioni da compromettere il mercato. Si avrebbero uno shortage di circa il 10-15% per il rame e del 30-45% per il nichel. Quando le scorte in diminuzione faranno aumentare i prezzi, i produttori di semilavorati aumenteranno la produzione, mentre quelli di prodotti finiti, da un lato, utilizzeranno i materiali scarsi in modo più efficiente, dall’altro, faranno ricadere i costi a valle. Così si avranno potenziali clienti finali che non potranno o non vorranno pagare prezzi così elevati e saranno costretti a uscire dal mercato. A quel punto la transizione ecologica verrà interrotta.
Possibili soluzioni: riciclo dei materiali e nuove tecnologie
È possibile evitare questo scenario? Sì, nel momento in cui si dovessero applicare politiche virtuose in fatto di:
- riciclo dei materiali (il rottame può trovare nuova vita);
- nuove tecnologie, più efficienti e sostenibili, applicate al settore estrattivo (per l’industria) e al consumo di suolo (per l’agricoltura).
Tuttavia, si naviga nell’incertezza. Molti dei processi innovativi, proprio perché tali, non garantiscono le pretese condizioni di sostenibilità temporale e ambientale. L’apertura di nuovi giacimenti minerari, per esempio, richiede ingenti sforzi in termini di risorse umane e per la natura che il trend ideologico-politico attuale vorrebbe evitare.
Servono poi investimenti di portata mai vista nella storia. Non sempre la finanza è disponibile a scommettere su operazioni al buio. McKinsey stima che per colmare le carenze di approvvigionamento entro il 2030 la spesa annuale in conto capitale nel settore minerario dovrà raddoppiare, raggiungendo i 300 miliardi di dollari. Mentre le filiere industriali che sarebbero più interessate sono anche quelle nella blackslist per il loro impatto ambientale e, quindi, qualsiasi loro operazione verrebbe bocciata a priori.
Conclusioni
Ma lo scoglio maggiore è il tempo. Lo scavo di nuove miniere richiede dai quattro ai sette anni per il litio. In media 17 per il rame. Calcoli fatti senza tener conto dei rallentamenti burocratici. E tanto meno il basso livello di sviluppo dei Paesi produttori. Due terzi della nuova offerta di commodity richiesta entro il 2030 si trova in Paesi che, nel 2020, si trovavano al di sotto del 50° posto nella classifica della Banca Mondiale. Difficile far tutto entro il 2050.