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The Art of Failure: come i videogiochi insegnano a gestire la sconfitta



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Nel libro The Art of Failure di Jesper Juul si parla del fallimento come arte e dei videogame come possibilità di fallire senza sentire quel dolore che altrimenti si incontrerebbe se non fosse una simulazione. Un viaggio tra psicologia, arte e meritocrazia per esplorare come l’educazione al rischio e all’errore possano trasformare gli insuccessi in lezioni di vita

Pubblicato il 8 feb 2024

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons



fallimento

Il fallimento è parte essenziale della vita umana e su questo penso ci siano pochi dubbi. Ma a seconda del frame, del contesto in cui si fallisce, la perdita assume diversi significati. Alle volte è una vergogna, un’onta procurante effetti a cascata, ferite difficili da guarire, altre è perfino un piacere, tra il masochistico e il pragmaticamente utile, che ci spinge a riprovare, ancora e ancora. Di questa seconda specie, al di là delle perversioni personali, sono i videogame e l’arte.

Il fallimento nell’arte e nei videogiochi

Il videogioco è una moratoria, come ho detto più volte. Una sospensione temporanea della vita estesa, durante la quale possiamo testare le capacità, trasportabili, poi, anche nel quotidiano, in cui però il game over assume tutt’altri senso. Qui siamo di fronte a una rappresentazione, e come tale ha tutti i pro del distacco. Come il dubbio metodologico pertiene a una sfera altra rispetto alla Vita, cioè quella della filosofia, della rappresentazione, del metodo, appunto, e dell’arte, così il fallimento del gioco non è fallire sul lavoro: il genio maligno ci illude ci siano panini alla mortadella, lenticchie a Capodanno, ma Cartesio non è mai morto di fame, perché questo tipo di filosofia non ha a che fare con l’esistere pratico, quello in cui la fame non gioca con l’epoché. Ma allora a cosa serve dubitare se poi, nella pratica, addentiamo i nostri pranzi?

Il dubbio, la rappresentazione, l’arte, la filosofia hanno una finalità di sospensione temporanea, di allenamento della capacità critica e dei vari abiti che agiamo nel continuum con le azioni quotidiane, senza più pensarci troppo, ma con maggiore strategia, perché le abbiamo agite con continuità in altri momenti. Il gioco è sempre servito a questo, i cuccioli si danno le botte, per prepararsi alle botte serie. Il fallimento è parte del processo e ci allena a quando dovremo fare i conti con gli errori non rimediabili e magari a prevenirli, rendendoci conto preventivamente di quando le cose non stanno andando come dovrebbero. Siamo organismi, quindi siamo organizzati in pensieri e azioni finalizzati e motivati, con gli altri, nel mondo e tra sovrastrutture co-costruite; la co-costruzione è un meccanismo che viene messo in atto con gli abiti acquisiti e messo in discussione con le rappresentazioni. Ecco allora arte e sospensioni di vario tipo, come la filosofia: non sono la Vita, ma la riorganizzano dal di fuori e poi dal di dentro.

The Art of Failure e il paradosso dell’arte dolorosa

Nel libro The Art of Failure di Jesper Juul e pubblicato dal MIT Press si parla proprio del fallimento come arte e dei videogame come possibilità di incontrare questa pratica di fallire senza sentire quel dolore che altrimenti si incontrerebbe se non fosse una simulazione e uno spazio differente rispetto alle regole di altri contesti.

Il paradosso del fallimento e il più noto paradosso della tragedia fanno parte di un complesso più ampio che è stato chiamato il paradosso dell’arte dolorosa riporta Juul. Il filosofo Aaron Smuts fu colui che descrisse tale paradosso.

  • Le persone non cercano situazioni che suscitano emozioni dolorose.
  • Le persone provano emozioni dolorose in risposta ad alcune forme d’arte.
  • Le persone cercano forme d’arte che sanno che susciteranno emozioni dolorose.

La spiegazione di questo paradosso è stata risolta come segue:

  • L’arte non suscita emozioni negative. Quindi viene negato il punto 2 precedente. Le persone evitano sempre situazioni dolorose e infatti la tragedia o i videogame non sono veramente procuranti sofferenza. È solo un’apparenza di dolore. Questo può essere vero per la tragedia, che è immedesimazione molto più virtuale di un videogioco. In quest’ultimo le emozioni negative e il fallimento sono molto più fondanti di cinema. Qui siamo noi che facciamo la storia, la responsabilità è davvero nostra, non c’è un passaggio empatico con un personaggio di cui però non sentiamo la colpa. Inoltre nel cinema la storia fallisce per tutti. Nel videogioco esiste un termine di paragone con chi il livello lo ha passato senza game over; quindi, non esiste quel mal comune mezzo gaudio di chi, passivo, assiste a una messa in scena. Nel videogioco il fallimento è esperienza comune, quindi certamente ci sentiamo meno giudicati nell’aver fallito una sfida, ma sappiamo che il livello è superabile, che qualcuno lo sta sicuramente facendo meglio di noi e che in ballo ci sono le nostre competenze, quindi in parte è responsabilità nostra. Pertanto il dolore non è solo parte di una narrazione, ma è una vicenda che buca la quarta parete, essendo il risultato estetico della trama anche merito nostro.
  • L’arte suscita emozioni negative ma le compensa anche con sentimenti di piacere, quindi fruire dell’arte non è abbattente, ma risulta sempre in un bilanciamento armonico che non lascia mai il soggetto in una situazione di squilibrio interiore. Questo si può vedere nell’avanzamento del videogame, che non parte mai né troppo semplice né troppo difficile, ma in una progressione lineare rispetto alle competenze in campo, le quali, man mano che si progredisce, avanzano contestualmente al livello, per garantire sempre l’esperienza ottimale, il bilanciamento tra difficoltà e frustrazione contenuta.
  • A-edonismo: Non cerchiamo sempre il piacere. Insomma, le motivazioni dell’essere umano non sono riducibili solo e soltanto al piacere. La giustificazione del perché facciamo certe cose non è unilaterale, spiegabile solo nel bipolarismo piacere\dolore. Siamo molto più complessi, la felicità e la completezza si raggiungono tramite una diversificazione motivazionale molto più ampia.

Come la percezione del fallimento è cambiata nel tempo

Il fallimento, la sua sopportabilità, è mutata nel tempo. Oggi chi resisterebbe più intere settimane nel cercare di trovare una soluzione in un enigma di Monkey Island? Un tempo, per i ragazzi dell’epoca era normale e parte del gioco l’attesa dilatata. Oggi non è più così. Se il tempo di soluzione fa passare troppe ore di stasi c’è internet, i forum, i walkthrough su YouTube. Il fallimento e la sua percezione, allora, cambiano al mutare delle epoche, delle possibilità, delle velocità tecnologiche. Non si può prescindere dall’epoca. Oggi il videogame si è diramato in una pletora di giochi, alcuni dei quali non riguardano nemmeno più il fallimento.

I Walking Simulator sono giochi in cui si vive un’esperienza, sensoriale, narrativa, ma non c’è la frenesia di un arcade o di un GDR. Anche Final Fantasy XVI ha abbandonato i turni. Siamo in presenza di un’attesa fine a se stessa o di un full-action, non una via di mezzo. Anche Final Fantasy, permettendo all’utente di scegliere la modalità storia, consente la possibilità di ridurre al minimo l’azione (e il fallimento), consentendo di concentrarsi solo su narrazione e ambiente. Insomma, il fallimento e quanto può intercorrere tra azione e feedback e quanto difficile possa essere risolvere l’impasse fanno parte dell’epoca.

La psicologia del fallimento nei videogiochi

Proseguendo oltre nella lettura del testo di Juul, si legge il segreto psicologico alla base dell’accettazione del fallimento nel gioco. Replace frustration with curiosity, sostituisci la frustrazione con la curiosità; in breve fa’ in modo di considerare il game over, l’errore non come un momento di vergogna e di ritiro, ma come un’opportunità. Sembra molto un esercizio spirituale tipico della filosofia, quando, per vincere i mali esistenziali, si impara a considerare il tutto con la giusta razionalità, la conoscenza adeguata, quasi come se fossimo dal punto di vista dell’eternità. Dagli occhi di un Dio cosa sarà mai un errore? Assolutamente nulla, in confronto alla pienezza e alla creazione. Ecco, quindi, il senso della Vita: vivere. Per vivere appieno, tuttavia, è necessario accettare che il percorso passi incessantemente dal non-essere (essere qui e non essere più lì, questo è camminare): il negativo che è positivo alla luce dell’intero flusso diveniente.

Fare canestro abbisogna di una parabola prima ascendente, ma poi discendente, ed è nella discesa che si fa punto. Ma tutto sta nella nostra interpretazione, nel farci le regole del gioco e leggere quella caduta come una schiacciata, una slum dunk. Il fallimento nel gioco è facile leggerlo come un’opportunità, le regole sono già scritte perché appaia come tale; diverso il caso della vita quotidiana, in cui i fallimenti hanno certamente un peso e una portata diversi. Tuttavia il fine sarebbe quello di alleggerire la vita e volgere in serietà il gioco. Insomma, un’attività da Trickster: prendere e non prendere sul serio, sfumare i contorni, perché lo sfumato è sempre un principio di carezza. Il consiglio psicologico del libro è un motto simil-Trickster: “Se vuoi davvero vincere gioca come se la vittoria e il suo bottino non fossero il tuo obiettivo principale”. Questo consiglio è apparentemente un pensiero magico, in realtà serve a togliere iper-valore al successo, di modo che, se non verrà raggiunto il proprio obiettivo, non si rischierà una sofferenza quasi inestinguibile.

Il fallimento può diventare una questione di stigma e quindi di profezia che si autoadempie. Dipende da come giudichiamo un errore. Stabile? Una colpa personale o causato dal test in sé? Dovuto a una mancanza globale o legata alla competenza richiesta nello specifico? Il game over deI videogame è momentaneo, dovuto per lo più a un’inesperienza comune, ma allenabile, perché c’è una difficoltà oggettiva dei livelli (il videogioco è costruito appositamente per essere di ostacolo), e mai a un deficit generalizzato dell’intelligenza. Questo fa sì che la auto-narrazione del fallimento non appaia come quella di un test di matematica, che si trascina dietro problemi emotivi difficili da sconfiggere e che auto-saboteranno il soggetto potenzialmente in eterno; questo a meno che non si inserisca qualche docente illuminato, un interesse trasversale alla materia che riporti l’individuo a un sentire emotivo controllato e a un’auto—efficacia nuovamente propositiva.

L’importanza dell’educazione nel rapporto con il fallimento

L’importanza di essere educatori e di presentare le verifiche attraverso un certo frame interpretativo non ansiogeno, ma stimolante, sono fondamentali per la fiducia della persona e per il suo orientamento futuro. Ecco perché essere docenti, formatori, fratelli o sorelle, amici… beh, ecco, si tratta di mestieri delicati, di cui ne va il futuro delle persone con cui si ha a che fare. Non si può pensare di non educare gli altri; avere rapporti di qualunque tipo significa avere a che fare con la morale e quindi con la pedagogia e con la psicologia dello sviluppo dei singoli. Essere più consapevoli di noi stessi vuol dire non creare una valanga emotiva difficile da arrestare; essere consapevoli di noi stessi significa anche trasformare in educhemi gli inevitabili diseduchemi con cui avremo a che fare sempre. Siamo liberi di fare in modo che il fallimento diventi opportunità e così la crisi un’occasione per comprendere e modificare la parabola discendente in punto per la propria squadra. Perché non dimentichiamo che siamo sempre un team!

Certo, il punto fondamentale del videogioco è il suo esibire giustizia. Siamo affamati di sfide giuste, eque, in cui il punto dipende non da preferenze soggettive, ma tutt’al più da una buona sorte che non guarda in faccia nessuno. La Fortuna, si sa, è bendata. Ecco un’altra differenza rispetto al mondo scolastico e lavorativo, in cui chi ci giudica è sempre un essere umano. Qui, l’algoritmo non fa differenze tra player uno e player due.

Il videogioco come esempio di meritocrazia

La buona riuscita è una questione di dedizione. Certo, con i pay per win è un po’ cambiato il concetto di competenza. Vince chi ha un vantaggio censitario. Sembra il riproporsi della nobiltà e dei vantaggi borghesi in una società non democratica. Però, in linea di massima, al di là dei finti free to play, è vero che la macchina è meritocratica. Ecco perché il fallimento diventa tollerabile e la sfida uno sprone. Qui inoltre non c’è l’infantilizzazione della scuola, in cui il sedicenne non è l’interlocutore, ma lo è la famiglia, che si rallegra o si dispiace al posto del ragazzo  per i voti dei docenti. Nel gioco siamo noi, non i genitori, a tenerci. La motivazione è solo intrinseca: l’engagement resta alto e perdere non significa essere giudicati da altri. Non perdiamo la faccia. Al contrario, un fallimento scolastico o lavorativo comporta il rendere conto agli altri più che a noi stessi.

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