Decantato l’entusiasmo per ChatGpt, sono tante e di varia natura le domande in sospeso sul rapporto tra uomo e Intelligenza artificiale. Tra queste, preme far luce su come si possa adeguare l’IA alle attuali dinamiche geopolitiche. Per identità, utilizzo e finalità, le nuove tecnologie sono attori che travalicano i confini sia naturali sia politici. Oggi però le frontiere sono tornare ad avere un ruolo centrale nelle relazioni internazionali e, di conseguenza, nell’economia.
È il multilateralismo a connotare questa fase della globalizzazione. Un fattore che rischia di sfociare in accese rivalità, se non in veri e propri conflitti. È il caso del confronto/scontro tra Stati Uniti e Cina, oppure osservando le ambizioni di rivalsa di quest’ultima su Taiwan. In entrambi i contesti, la supremazia tecnologica rappresenta un fattore importante.
Sovranità e sovranismo tecnologici
A fronte di questo, è lecito pensare che la sovranità tecnologica – giustamente perseguibile – sia l’anticamera di un sovranismo tecnologico, che invece avrebbe tutte le carte in regola per essere un detonatore di nuovi conflitti. Tutti gli Stati hanno il diritto di disporre di una propria “politica tecnologica”, collegata a quella industriale e a quella energetica, ambientale, fino anche alimentare. D’altra parte, se è legittimo sulla carta creare un modello nazionale su IA, ben più complesso è realizzarlo.
Il rischio di una bolla
Anzi, vista l’interdipendenza delle catene di approvvigionamento, tenuto conto dei differenti contesti di applicazione, quanto della concorrenza, per alcuni aspetti incolmabile, c’è chi sostiene che un’IA nazionale sia più uno spreco che un vantaggio. Ecco allora che si dà a ragione alla tesi di avere a che fare con l’ennesima bolla azionaria. Alla stregua di quanto accaduto nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso, saremmo di fronte una sequenza di speculazioni generate dagli investimenti accelerati in digitalizzazione e tecnologia.
La differenza con trent’anni fa è la forte componente geopolitica di oggi. Così, se allora si poteva liquidare il tutto con un “it’s the economy, stupid”, oggi la ragion di Stato complica le cose.
Il caso di AI71 di Abu Dhabi
Ci sono esempi, però, che vanno a smontare questi timori. Il 2023 ha visto la nascita di AI71, la nuova società di Intelligenza artificiale sostenuta dal governo di Abu Dhabi, il cui modello “large language model” (Llm), Falcon, promette di dare del filo da torcere a Chat Gpt. L’approccio dei Paesi del Golfo è di investire in parallelo in manufatturiero avanzato e in università, attraendo cervelli dall’estero e promuovendo scambi di dati commerciali per supportare le ambizioni tecnologiche di un mondo che, fino a poco tempo fa, scommetteva soltanto sul suo oro nero.
L’esempio dell’India
Nel frattempo, anche l’India sta incentivando la produzione e l’installazione di data center, oltre che pensando all’acquisto di Gpus per sostenere il suo sviluppo di modelli di Ia. La locale Krutrim, a sua volta, ha presentato il primo Llm multilingue del Paese, mentre Sarvam ha raccolto 41 milioni di dollari per sviluppare modelli linguistici indiani.
Cosa succede in Europa
In Europa invece, alcuni paesi, come Germania e Regno Unito, stanno seguendo un approccio misto, combinando incentivi per la produzione di chip nazionali con investimenti in IA. In generale, la natura e il grado di coinvolgimento dei governi nazionali variano, ma quel che sta emergendo è una complessa rete di player, dalle dimensioni anche di grossa taglia. La francese Mistral, per esempio, è entrata sul mercato con 400 milioni di dollari di capitale investito, ad aprile 2023, per poi chiudere l’anno a oltre 2 miliardi.
Questi esempi ci portano a parlare di campioni nazionali su cui i governi stanno costruendo seriamente singole sovranità tecnologiche, che rischiano di entrare in collisione, compromettendo così l’universalità dell’Ai. Teorie? Al momento forse sì. La verità, d’altra parte, è che la sfida a OpenAi è sicuramente aperta e che non è solo la Cina a voler dire la propria.
Il ruolo degli USA
Gli Stati Uniti restano il benchmark, e come tali si arrogano il diritto di stabilire quanto e come i propri partner commerciali possano agire autonomamente in quei mercati che Washington ritiene ostili. Il livello di avanguardia delle aziende d’oltreoceano ha spinto l’Amministrazione Biden a investire 50 miliardi di dollari per aumentare la capacità di produzione di chip nazionali e limitare la dipendenza da fornitori esteri. Tuttavia, gli Usa hanno sia imposto restrizioni alle esportazioni di tecnologia a nazioni avversarie, sia spinto aziende fornitrici, ma di Paesi terzi, a ottenere una licenza per trattare in chip Ia statunitensi, in modo che i mercati avversari siano esclusi.
La storia di Asml
È il caso dei rapporti tra Intel e Asml. Di quest’ultima, multinazionale olandese che produce chip informatici, sono noti i casi di spionaggio in cui è caduta nella guerra commerciale Usa-Cina. Con un valore di mercato quadruplicato negli ultimi cinque anni, 260 miliardi di dollari oggi, l’Asml è de facto la società tecnologica più avanzata d’Europa. La sua straordinaria crescita è supportata da una rete di fornitori e partner tecnologici, che, insieme, hanno creato una sorta di “Silicon Valley europea”. Oltre il 90% dei costi di produzione di Asml è esternalizzato, infatti, coinvolgendo oltre 800 aziende.
Questo player così made in Europe, da inizio gennaio, è il primo fornitore di Intel nella realizzazione di processori avanzati. L’azienda olandese detiene un monopolio in questa fase cruciale della produzione di chip, essenziale per l’industria globale dei semiconduttori e prevede di raddoppiare le vendite a 1,3 trilioni di dollari entro il 2032. La sua importanza è tale che Biden ha appunto fatto pressioni perché annullasse le consegne pianificate alla Cina.
La risposta della Cina
Beijing ha risposto investendo quasi 300 miliardi di dollari per creare una catena di approvvigionamento di chip domestici, riducendo la dipendenza da fornitori stranieri, Asml inclusa. Un approccio da “capitalismo di Stato” proprio dei regimi non democratici e a cui anche i Paesi del Golfo hanno detto chiaramente di poter ricorrere qualora le forniture estere dovessero rallentare.
Viene allora da dubitare della tenuta dei campioni europei. Qualora la guerra Usa-Cina rischiasse di strozzare le nostre esportazioni, quanto la sovranità tecnologica Ue, comunque per nulla consolidata, saprebbe trovare valide alternative? In un gioco tra le parti in cui Washington si chiude a protezione delle proprie aziende, per fare un torto a Beijing, che a sua volta stringe le maglie rispetto all’export, in che consisterebbe la nostra sovranità tecnologica?