Crisi internazionali e nuova multipolarità globale, riequilibri nei mercati finanziari, spoil system e appuntamenti elettorali: sono molti i fattori esogeni che possono creare incertezze alle startup italiane, e che si sommano alla arretratezza culturale e alla fatica con cui si diffondono quelle pratiche internazionali utili a ridurre i rischi e aumentare le probabilità di successo.
Quale 2024 ci si deve attendere, quindi, per l’ecosistema startup?
Investimenti, l’inversione di tendenza del 2022-23
Gli anni 2022 e 2023 hanno visto una inversione di tendenza globale degli investimenti, rispetto al boom di crescita irrefrenabile vista nel 2020 e 2021: negli anni della pandemia, la necessità di distanziamento sociale aveva impresso una accelerazione folle all’iniezione di capitale in moltissime imprese tecnologiche, immaginando una accelerazione molto forte nella trasformazione digitale di consumi e interazioni.
In realtà, usciti dalla pandemia ci si è accorti che la trasformazione era stata più contenuta del previsto, ma soprattutto si inserivano nuovi fattori nell’equazione: la suddivisione del mondo in “blocchi”, che sostanzialmente riduce la dimensione dei mercati a cui ambire, e l’accelerazione imprevista dell’inflazione che ha prodotto una forte crescita dei tassi di interesse e un riequilibrio dei flussi nel mercato dei capitali. Sia a livello globale che nazionale, quindi, siamo tornati velocemente al volume di investimenti del 2021, segnando quello che sembrerebbe un passo indietro.
I motivi della contrazione degli investimenti e le “vittime”
Ma se è vero che “è la somma che fa il totale”, bisogna guardare meglio nel dettaglio la composizione di questa somma: la contrazione è avvenuta semplicemente per la scomparsa di pochi round late stage, quelli da molte decine e centinaia di milioni di euro, che sono sempre stati presenti negli ecosistemi più maturi e che si erano appena iniziati a segnalare nella penisola.
Questi round sono scomparsi principalmente perché l’incertezza globale ha raffreddato le borse e tolto dall’agenda i collocamenti, che sono l’exit naturale delle startup che stanno scalando. Via i collocamenti, via anche i round late stage, che normalmente intervengono proprio per predisporre al meglio la valorizzazione borsistica.
Ai piani bassi degli stadi di fundraising, invece, l’incertezza delle borse non ha sortito alcun effetto: un collocamento è talmente lontano, in termini temporali, da un round pre-seed, da un seed, come anche da un series A, che una contrazione temporanea non produce alcuna preoccupazione negli investitori di queste fasi. Questo ventilato inverno dei capitali, quindi, di fatto ha colpito – purtroppo per loro – solo quelle startup in fase di crescita molto avanzata, obbligandole a ristrutturazioni, fusioni, e in casi di settori ad altissima intensità di capitale e margini negativi per chissà quanto tempo, a chiusure.
I fattori che condizionano l’ecosistema italiano delle startup
Questo “inverno”, quindi, è tutto sommato un grande reset, un livellatore della maturazione delle diverse nazioni in competizione tra loro, che potrebbe perfino giocare a favore dell’Italia, dato che gli investimenti nelle fasi più iniziali, tra Italia ed estero, sembrano essere maggiormente allineati che in passato. Questo, sia chiaro, se l’Italia volesse giocare da protagonista nell’economia dell’innovazione, anziché da protezionista dell’economia della tradizione.
Non è infatti un mistero che, in questa nuova legislatura, startup e venture capital siano percepiti in modo molto distorto rispetto alla realtà dalla classe politica e sia nei Ministeri che a Palazzo Chigi si sia fatto un triplo carpiato all’indietro nella comprensione della strategicità del settore, nella sensibilità e benevolenza da dedicargli, rispetto agli ultimi cinque Governi.
Grazie alla pressione delle associazioni si otterranno forse degli aggiustamenti normativi e qualche sburocratizzazione, ma a oggi, e soprattutto in un semestre in cui la preoccupazione della politica è unicamente volta alle elezioni europee, è utopistico sperare in una spinta dallo Stato per colmare l’imbarazzante gap di liquidità nel sistema quando ci confrontiamo con Francia, Germania o Regno Unito.
Il 2024 delle startup italiane dipenderà dai privati
Bisogna quindi far leva sui privati, per capire in che direzione andrà il paese nel 2024. E sul fronte dei privati, le cose vanno in modo non uniforme: è ormai tristemente noto che in Italia convivano ecosistemi differenti che vanno a diverse velocità (e anche in diverse direzioni, in effetti): ci sono player nell’ecosistema che operano seguendo le pratiche internazionali, ed hanno una buona rete di controparti estere, così come ci sono altri soggetti del tutto autoreferenziati che si spacciano per acceleratori, per business angel, per venture investor ma che non hanno la minima capacità o intenzione di operare per l’accrescimento di valore delle startup che capitano nelle loro reti.
Lato founder ci sono i “first timer“, cioè i nuovi imprenditori che alimentano ingenuamente un circo di estrattori di valore che si approfittano di loro, ma ci sono anche i “returning“, ovvero founder che sono già passati una o più volte per l’esperienza di una startup, qualcuno anche all’estero, e sanno evitare i millantatori tenendoli a distanza. Poi c’è una ampia zona grigia di operatori che lavorerebbe anche in linea con i criteri internazionali, che saprebbe riconoscere e valorizzare una startup ad alta scalabilità sottoponendogli condizioni di investimento favorevoli, magari limitandosi un po’ troppo ai canonici SaaS B2B buoni per ogni stagione e profilo di coraggio, ma che opera con ritmi che rendono impossibile qualsiasi confronto con altri ecosistemi, facendo passare ampie porzioni di un anno per concludere un seed.
La tendenza tutta italiana alla mediaticità dei peggiori
Quella che è una peculiarità tutta italiana, purtroppo, è che mentre all’estero i cosiddetti “bottom feeder” che accalappiano i nuovi imprenditori sono soggetti ai margini della filiera, da noi i più incapaci sono invece, molto spesso, i principali protagonisti celebrati dai media tra interviste, palcoscenici di conferenze e presentazioni di libri. Questa tendenza alla mediaticità dei peggiori appare talmente consolidata che inizia a essere lecito chiedersi se non ci siano rapporti sotto banco, tra i giornalisti e i loro pluri-intervistati, e sarebbe affar loro se la cosa non producesse continui messaggi controinformativi e diseducativi sul settore.
L’anno in cui siamo entrati vedrà difficilmente una ripartenza dei grandissimi round, per un motivo molto semplice: la discesa del costo del denaro ricomincerà se va bene nel secondo trimestre ma forse più nel terzo dell’anno; ma mentre nei paesi anglosassoni questo ha già comportato un mutato atteggiamento degli investitori istituzionali, che lavorano sulle previsioni, da noi che si lavora solo molto a seguire il consolidamento dei trend – quindi stabilmente in ritardo – nessun istituzionale ricomincerà a vedere di buon occhio il venture capital come asset class fino al 2025.
Startup, cosa aspettarsi dal 2024
Cosa aspettarsi, dunque, dal 2024 per le startup italiane? Sicuramente non di peggio che il 2023: con il riavvio dell’operatività di Cdp Venture Capital e con il suo nuovo imminente piano industriale, e con la ripartenza di EneaTech & Biomedical, due grandi investitori garantiranno da soli un livello di investimento dignitoso nella filiera. Parallelamente, un ottimo numero di privati non vigilati come angel e associazioni, club deal, familiy offices, stanno acquisendo competenza e prendendo posizione come investitori strategici sopperendo alla carenza storica di capitale professionale nelle fasi pre-ricavi.
E, soprattutto, molti founder che hanno fatto una exit o che comunque guidano startup avanzate stanno facendo quello che fanno tutti i founder negli ecosistemi più maturi: diventano mentor, advisor, e infine investitori, non solo aggiungendo valore nelle startup delle nuove leve ma soprattutto proteggendole dal sottobosco di estrattori di valore. Sulla scia di tutto ciò, sono sempre più i fondi esteri che guardano all’Italia venendoci ad investire, spesso grazie all’aver assunto e fatto crescere dei talenti italiani all’interno dei propri team, e anche questo è un fattore che sortirà effetto in modo sempre maggiore.
La migliore notizia per un percorso virtuoso nel 2024, quindi, è che una rete sempre più estesa e collaborativa di fondatori di startup sta isolando i peggiori investitori, quelli che per anni hanno presidiato l’ecosistema italiano facendo private equity di piccolo taglio ma chiamandolo venture investing, e prendendo il controllo delle startup in cui investivano e trasformando i founder in loro dipendenti a cui far subire delle early exit o un’esistenza da zombie dentro a dei portfolio votati all’accanimento terapeutico. Questi signori iniziano a rimanere senza controparti, perché le startup o non li interpellano proprio oppure si alzano dal tavolo appena arriva una proposta irricevibile.
Conclusioni
Forse il 2024 non sarà quindi un anno di accelerazione forte della crescita degli investimenti come volumi, ma è certamente un anno in cui crescerà molto la qualità delle operazioni. E non può essere che un bene.